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Abbazia di Santa Maria di Pomposa
Era trascorso un giorno da quando Gualtiero aveva assistito all’arresto dei suoi genitori, e ora il ragazzo sedeva sull’erba dando le spalle all’abbazia. Fissava il carro vuoto ai margini della strada, come se si trovasse di fronte a un relitto, le vestigia di un tempo destinato a non tornare mai più. Padre Andrea si era prodigato nei suoi confronti con ogni premura, ma non aveva saputo ancora dirgli nulla sulla sorte a cui erano andati incontro Sigismondo e Sapia.
L’attesa era un pungolo logorante, resa ancor più gravosa dalle parole udite due notti prima. Avrebbe voluto chiedere spiegazioni al reverendo Andrea, se non avesse temuto di insospettirlo o addirittura di inimicarselo.
D’un tratto si accorse che qualcuno gli stava porgendo un fiore.
Alzò lo sguardo e riconobbe la ragazza francese.
«Pour vous», disse lei.
Disorientato da quel gesto, lui prese il dono e la ringraziò.
La fanciulla rimase in piedi a osservarlo. «Ho saputo cosa vi è successo», confessò, esprimendosi con una dolce inflessione della erre. «Mi rincresce».
Il giovane rigirò il fiore tra le dita, incapace di formulare una semplice frase. Era oppresso da troppi crucci per desiderare di intrattenersi in una conversazione, benché lusingato della compagnia. Fissò la ragazza dagli occhi enigmatici, domandandosi se conoscesse i segreti dell’uomo con cui era giunta fino a Pomposa. In fondo, pensò, non ci sarebbe stato nulla di male a chiederglielo. Prima che potesse dar fiato alla voce, sentì le sue labbra sfiorargli una guancia. Alzò lo sguardo, sorpreso, e la vide sorridere.
«Il mio nome è Isabeau».
Gualtiero si portò la mano nel punto in cui era stato baciato. Per un attimo si sentì libero da ogni preoccupazione, stregato da un invisibile legame con la sconosciuta. Poi udì un rumore di passi sull’erba.
Un monaco si stava avvicinando sotto la luce del sole.
Nel riconoscere l’abate, il ragazzo scattò in piedi ma, con una punta di rammarico, si accorse di essere rimasto solo. Isabeau stava fuggendo verso gli alberi al limitare della corte.
«Quella fanciulla è più diffidente di un cerbiatto», commentò padre Andrea, giungendo al suo cospetto.
Gualtiero annuì, tornando subito alla realtà. «Avete notizie dei miei cari?»
«Non ancora, purtroppo».
Il giovane abbassò il capo, sprofondando nello sconforto.
«Sono venuto a cercarvi per altri motivi», rivelò il reverendo, cercando di distoglierlo dagli affanni. «Vorrei chiedervi un’opinione su una faccenda che mi sta a cuore», e ponendogli una mano sulla spalla, lo invitò a seguirlo verso il palatium dirimpetto al monastero.
Gualtiero avrebbe preferito starsene da solo con il proprio dolore, ma per non dispiacere all’abate obbedì. Prima di ricevere spiegazioni, dovette attendere di essere all’ombra del porticato.
Soltanto allora, Andrea gli rivolse di nuovo la parola: «Dite, siete mai entrato in uno scriptorium?»
«Mai in vita mia».
«Allora preparatevi», ribatté il monaco, con un sorriso capace di infondergli un senso di mistero, «poiché state per vedere qualcosa su cui pochi hanno posato lo sguardo».
Il secondo piano del palatium era suddiviso in due ambienti: il primo destinato ad accogliere i libri, il secondo i monaci che li compilavano. Padre Andrea guidò il giovane fra una decina di scrittoi, facendogli notare che soltanto per metà erano occupati da amanuensi. Gualtiero prestò attenzione sia alla cura maniacale, sia agli strumenti impiegati per vergare i codici. Penne di varia foggia, calamai, raschietti e piccoli utensili risvegliarono in lui una sensazione familiare e nuova al tempo stesso. L’abate gli lasciò ammirare ogni cosa, poi lo invitò a varcare la porta che dava accesso al secondo ambiente.
Oltre la soglia, l’unica fonte di luce consisteva in una bifora insufficiente a fugare l’ombra e il pulviscolo che aleggiava nell’aria. Il giovane vide padre Andrea fermarsi davanti a una fila di armadi e aprirne uno per mostrare i libri che conteneva. «Non sarà all’altezza di Bobbio o Montecassino», annunciò, «tuttavia la biblioteca di Pomposa è abbastanza fornita da reggere il confronto con molti fondi di prestigio».
«Dev’essere vetusta», considerò il giovane.
«Lo è», disse il reverendo. «Fu istituita trecento anni fa dall’abate Hieronymus, e da allora si è percorsa molta strada. Trecento anni! Riuscite a immaginare la passione e l’impegno profusi per mettere insieme un tale patrimonio?». Restò un attimo in silenzio, quasi per indurlo a meditare sulla sua affermazione, poi riprese con enfasi: «Questi armaria custodiscono i principali testi della cristianità, a partire dai grandi doctores della Chiesa: Agostino, Ambrogio, Girolamo, Gregorio Magno, Tommaso d’Aquino… Vi trovate al cospetto di un labirinto costruito sui commenti biblici, sulla dogmatica trinitaria di sant’Ilario e di Didimo Alessandrino, sui precetti di Fulgenzio, Pascasio Radberto e persino Niceta di Remesiana. Ma badate, figliolo, non stiamo parlando soltanto di scientia Ecclesiæ», e quasi fosse in vena di confidenze, abbassò il tono della voce. «Qui è anche possibile accostarsi all’Historia magni Alexandri di Curzio Rufo, all’Ab Urbe condita di Tito Livio e alla saggezza di Seneca, Orosio ed Eutropio».
«Lasciate che esprima la mia meraviglia», lo assecondò Gualtiero. Nonostante molti dei nomi pronunciati dall’abate gli fossero ignoti, era assai più curioso di conoscere il motivo per cui si trovava in quel luogo. «Perché», proseguì infatti, «vi siete preso la briga di condurmi qui?»
«Ero ansioso di farlo dal nostro primo incontro», gli confessò padre Andrea. «Per l’esattezza, da quando mi accennaste al legame tra le immagini dei santi e il calendario liturgico. Lo faceste in modo così incisivo da risvegliare nella mia memoria alcuni passi del De ecclesiasticis officiis di Amalario di Metz».
«Se insinuate che possa aver sbirciato fra le pagine di quel libro…».
«No figliolo», lo rassicurò il religioso. «Ciò che insinuo è che siate troppo intelligente per dedicare la vostra vita soltanto alla pittura. I vostri talenti andrebbero sprecati».
Al sentir sminuire le proprie ambizioni insieme a quello che reputava il mestiere più nobile del mondo, Gualtiero si inorgoglì. «Con tutto il rispetto per i vostri libri, reverendo», ribatté quasi in risposta a un insulto, «l’arte delle immagini richiede più studio di quanto possiate immaginare».
«Non ne dubito», affermò il religioso senza offendersi. «Pensate tuttavia a quali immagini riuscireste a concepire accostandovi ai precetti di sant’Agostino o di Beda il Venerabile. Potreste arricchire i vostri affreschi con riferimenti simbolici talmente raffinati da elevarvi al di sopra di qualsiasi altro artigiano».
«Comprendo cosa intendete», ammise il giovane, lasciandosi coinvolgere da quelle parole. Dopo un breve ripensamento, però, si adombrò. «Dimenticate che gli affreschi di cui parlate non potranno più essere realizzati. Mai più».
Andrea non si diede per vinto. «L’arresto della vostra famiglia e i fiorini che mi verranno tolti sono un impedimento, è vero. Voi tuttavia non dovrete necessariamente trascurare le vostre doti».
Gualtiero intuì che quelle parole non fossero state pronunciate con il semplice scopo di consolarlo. «Di preciso, a cosa vi riferite?».
Il religioso si appoggiò a un armadio, concedendosi un attimo di silenzio. «L’altro giorno mi avete detto di non essere in grado di ripagare l’ospitalità che vi offro. Ebbene, vi sbagliate. Ho avuto modo di apprezzare i vostri disegni e la vostra genialità, al punto da convincermi che sareste adatto per questo scriptorium».
«Ma reverendo…», farfugliò il ragazzo, indietreggiando per la sorpresa.
«Vi sto offrendo un dono, capite?», insistette l’abate. «Dispongo ormai di pochi confratelli in grado di compilare manoscritti. Avete visto lo scriptorium? È quasi vuoto! E voi… Voi…».
«Io non possiedo la scienza necessaria a vergare codici», si difese Gualtiero, incerto se ritenersi lusingato o spaventato. «Non conosco il latino… Inoltre, non sono monaco».
«Non vi sarà necessario prendere i voti», si affrettò a spiegare Andrea. «E non è certo il compito dell’amanuense che intenderei assegnarvi».
«Allora perdonatemi, reverendo, ma non comprendo».
Per un attimo Gualtiero credette di aver instillato il dubbio nell’abate. Poi lo vide prendere un grosso volume da uno scaffale e rivolgergli un sorriso criptico.
«I libri non sono fatti di sole parole». Aprendo il tomo, il monaco gli mostrò le superbe illustrazioni rappresentate sulle pagine, a margine dei testi. «E se la memoria non m’inganna, sono trascorsi almeno quattro decenni da quando lo scriptorium di Pomposa ospitò il suo ultimo miniaturista».