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Mont-Fleur non aveva affatto l’aspetto di un monastero povero. Era protetto da una cinta di mura simile a un bastione, al di là della quale svettava una struttura turrita che ricordava più un mastio che un campanile. L’unico accesso, un grande portale, era sigillato da una cancellata di legno e metallo. Nell’attesa che venisse sollevata, Maynard chiese il permesso di restare vicino al fuoco per allontanare il freddo e l’incubo dei lupi. Le sentinelle lo accolsero con garbo, offrendogli una coperta e del vino caldo. Nessuno di loro, tuttavia, volle sapere da dove provenisse, né cosa fosse andato a cercare in quel luogo romito. Lui ricambiò con lo stesso riserbo, cercando di ritemprarsi.
Alle prime luci, poté finalmente varcare le cinta. La sua ricerca era ormai giunta al termine, ma non sapeva se ritenersi soddisfatto o preoccupato. Una parte di sé desiderava tornare indietro e dimenticare quella faccenda; la curiosità, però, non glielo avrebbe mai concesso. Del resto, Maynard non era interessato soltanto al Lapis exilii, ma anche desideroso di scoprire la causa del complotto contro il re di Boemia. Per ora sapeva soltanto che c’erano degli uomini nascosti nell’ombra che bramavano il segreto di Mont-Fleur. Uomini di potere. Chiunque fossero, non poteva esimersi dall’indagare sulle loro mire e, se necessario, opporsi alle loro angherie.
Gli bastò varcare le mura per capire di trovarsi in un luogo non comune. Abbazie e pievi erano solite accogliere entro le cinta dei borghi, offrendo protezione in cambio di ricchezza. Mont-Fleur somigliava piuttosto a un eremo abitato da soli monaci. L’angusta corte, raccolta intorno al monasterium, non ospitava altro che stallaggi, colture e recinti per gli animali. E come Rocheblanche aveva già scoperto, le sentinelle in cui si era imbattuto non erano veri armigeri, ma semplici conversi fedeli al cenobio.
Proseguì a piedi, tenendo il destriero per le briglie fino alla facciata dell’edificio. Solida e vetusta, doveva aver subìto diversi restauri nel corso dei secoli, anche se la lunetta sopra il portale appariva abbastanza antica da sembrare quella originale. Rappresentava la bocca mostruosa del Gorgoneion intenta a masticare i dannati degli inferi. Strano, si disse il cavaliere, che un rifugio votato alla pace accogliesse i suoi accoliti sotto un’insegna tanto spaventosa.
Legò il morello a uno steccato e si inoltrò all’interno del monastero, colto da un’improvvisa fascinazione. La navata era immensa. Benché edificata secondo canoni architettonici ormai desueti, era decorata dal programma pittorico più elegante e complicato che Maynard avesse mai visto. Al confronto, l’opera del mastro di Saint-Savin pareva realizzata da un garzone inesperto. Rappresentava una serie di scene bibliche suddivise in riquadri e ordinata in tre registri: il superiore dedicato al Vecchio Testamento – dalla creazione di Adamo al regno di Davide – e il mediano al Nuovo, con la vita e la risurrezione di Gesù. Fin lì nulla di particolare, fatta eccezione per il talento insuperabile con cui era stato eseguito l’affresco. La singolarità risiedeva nel registro inferiore, dedicato per intero all’Apocalisse di Giovanni. Rocheblanche osservò basito una sgargiante processione di mostri, angeli, demoni e creature bizzarre che sfilavano senza posa dall’apertura dei sette sigilli al tempo della mietitura.
Diviso tra la meraviglia e la curiosità di sapere chi fosse l’artefice di un tale capolavoro, fu folgorato da un’intuizione che gli fece rammentare il passo centrale vergato sulla pergamena di Jang de Blannen:
Est Lapis exilii situs in Monte
floris
nostra salute clausus in vetusta crypta
sub caelo historiis mire depicto
Finalmente poteva comprenderle! Se le prime due righe affermavano che il Lapis exilii si trovava nel monastero di Mont-Fleur, rinchiuso in una vetusta cripta, la terza – sotto un cielo di storie mirabilmente dipinto – alludeva senz’ombra di dubbio alla navata del monastero, decorata con le historiae del Vecchio e del Nuovo Testamento.
“Sono nel posto giusto”, concluse. Ma ancora una volta, l’inquietudine si impadronì di lui. Non poteva evitare di cogliere tra quelle parole un velato avvertimento. Come se scrivendo nostra salute – per la salvezza del genere umano – l’autore dell’enigma avesse voluto alludere a un’insidia legata al Lapis exilii…
Non sapendo cosa pensare, Maynard cercò spiegazione nelle pitture a fresco. Fece scorrere lo sguardo sulle pareti, alla ricerca dell’angelo con la pietra molare citato nel verso iniziale della pergamena. Prima di riuscire a trovarlo, soffermò l’attenzione su tre cavalieri in groppa a destrieri dai diversi colori. Le loro teste erano cinte da aureole. La prima bianca, la seconda rossa, la terza dorata. Fu come scivolare in un incubo.
Si appoggiò a una colonna, incredulo. Quei cavalieri gli ricordavano quelli che aveva sognato. Recavano persino gli stessi trofei! Una corona, una spada e una bilancia. Li osservò ancora, con maggior attenzione. Nell’affresco anticipavano la venuta di un quarto, scheletrico e spaventoso, in sella a un cavallo verdastro.
«Simboli», disse una voce alle sue spalle.
Il cavaliere si voltò di scatto, cercando di opporsi allo sgomento. Vide muoversi fra le panche un vecchio segaligno con una lunga barba argentata. I capelli, dello stesso colore, ricadevano fluenti sulla schiena. Avanzava a piccoli passi, aiutandosi con un bordone.
«Presagi di verità», ribatté Maynard, domandandosi chi fosse.
L’anziano monaco emise un risolino. «La verità ci è resa manifesta attraverso un gioco di specchi. Difficile distinguerla».
«Parole degne di un dottore della chiesa».
Il vecchio si strinse nelle spalle. «Le scrisse Macrobio, in tempi assai remoti», e continuò a muoversi finché non gli fu accanto. «Ma in quanto a realtà manifeste, gradirei sapere chi mi sta di fronte».
«Un umile pellegrino, padre».
«Da molto tempo non ne vedo uno. L’ultimo giunse qui più di quindici anni fa, e non lasciò un buon ricordo di sé».
Rocheblanche abbassò lo sguardo in segno di riverenza, intuendo di essere al cospetto di una persona non comune. Non solo per via della stazza, ben superiore alla norma, o dei modi autoritari e al contempo gentili. Era quella voce, saggia e suadente, a metterlo in soggezione. «Spero che un uomo in cerca di illuminazione possa risultarvi meno sgradito», ribatté.
Il monaco lo scrutò incuriosito. «Il vostro nome, messere?»
«Maynard de Rocheblanche», rispose il cavaliere, incapace di mentire.
«Molto più di un comune pellegrino», continuò il vecchio, «a giudicare dagli speroni e dalla cintura che intravedo sotto il vostro lungo manto».
Il nobiluomo sorrise. «Posso conoscere il nome di un osservatore tanto acuto?»
«Sono l’abate Manessier, custode e guida di questo luogo per grazia di Dio».
Maynard disegnò un elaborato inchino. «Chiedo accoglienza nel vostro monastero, reverendo».
«Per quale motivo?»
«Ve ne ho fatto menzione poc’anzi, sono in cerca dell’illuminazione».
Il vecchio lo invitò a rimettersi in piedi. «Troppa luce può accecare, messere».
«Ma io sono pronto», insistette il cavaliere. «Ho seguito gli indizi fin qui e so della vostra cripta. So che vi si nasconde un grande segreto. Voglio sapere, ve ne prego. Dovete aiutarmi…».
Confuso da tanta veemenza, padre Manessier si fece guardingo e arretrò di un passo. «Si può sapere, di preciso, a cosa vi state riferendo?».
Prima di rispondere, Rocheblanche estrasse il piccolo rotolo di pergamena che custodiva nella scarsella. «A questo», e glielo porse. «Al Lapis exilii».
Non appena pronunciò quelle parole, si rese conto di aver commesso un imperdonabile errore.
L’abate sbarrò gli occhi e gli puntò contro il bordone. «Guardie!», tuonò con voce altisonante. «Accorrete, presto!».