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Reims, valetudinarium di Sainte-Balsamie
Suor Eudeline seguì l’avanzare del pedone bianco sulla scacchiera, poi osservò l’uomo che l’aveva mosso. Robert de Vermandois non avrebbe certo potuto definirsi bello. Bruno e con le mascelle squadrate, le sedeva di fronte con le grandi mani chiuse sotto il mento. Mani nodose, più avvezze a impugnare armi che ad abbandonarsi a effusioni. Eppure c’era un’indiscussa eleganza nei suoi movimenti, così come nel modo in cui la guardava. Una grazia marziale, quasi altezzosa, che la reverenda madre scoprì di preferire ai comportamenti fin troppo delicati di alcuni nobili conosciuti in gioventù.
Si trovavano nel valetudinarium di Sainte-Balsamie, seduti a un tavolo solitamente usato per consultare libri di medicina. Ora, invece, era occupato da una vecchia scacchiera di ebano e avorio, uno dei pochi oggetti che Eudeline conservava della sua vita passata. Era stata acquistata dal nonno materno, durante un pellegrinaggio in Terrasanta. Per un attimo la badessa si perse ad ammirare gli arabeschi intarsiati sui bordi, infine tornò sul barone piccardo.
Non l’aveva sfidato soltanto per aiutarlo a riacquistare la memoria. Il suo era stato un pretesto per mettersi alla prova di fronte a un estraneo capace di imbarazzarla, se non addirittura di affascinarla. E benché Robert ne fosse ignaro, sembrava nutrire interesse per lei. Eudeline l’aveva intuito dalle sue insistenti richieste di incontrarla quanto dal tono della voce. Decisa a mantenersi distaccata, continuò a condurre il gioco senza tradire emozioni.
Robert muoveva i bianchi e aveva adottato fin dall’inizio una strategia di difesa, disponendo uno schieramento di pedoni rinforzato da torri e cavalli. Ciò nondimeno, la badessa si era mostrata talmente abile nel muovere gli alfieri neri da mangiargli alcuni tra i pezzi più importanti, mettendogli il re sotto scacco un paio di volte.
Vermandois non era di indole orgogliosa. Al contrario della maggior parte degli uomini, restii ad accettare il vantaggio di una donna, si congratulava dopo ogni mossa con un cenno del capo. E suor Eudeline si ritrovava a imprecare dentro di sé, sentendosi esposta ad attacchi ben più sottili delle insidie geometriche della scacchiera. Sospettava che il barone iniziasse a percepire il suo disagio. Ma ne fu pienamente convinta soltanto quando lui, con un sorriso galante, la privò di un alfiere grazie all’azione combinata di due pedoni. «Vi battete come una leonessa», si complimentò nondimeno. «Osate rischiare più di quanto mi aspettassi da una monaca».
«Non lasciatevi fuorviare», si affrettò a ribattere la reverenda madre. «I giochi sono meri artifizi. San Bonaventura ci mette in guardia sulla loro capacità di confondere l’ordine sociale e religioso».
Lui scosse il capo. «E se proprio per questo mettessero a nudo la nostra vera natura?». Rigirando tra le dita l’alfiere catturato, la scrutò con intensità. «L’audacia con cui assediate il mio schieramento vi appartiene, madonna. Non è illusione. Siete voi, pura e semplice, priva di qualsiasi maschera».
La badessa si irrigidì. Comprendendo d’un tratto quanto profonda rischiasse di diventare la loro intesa, si ritrovò a pensare alla chanson della bella Rosalinda che, durante una partita a scacchi, era stata sedotta e poi ingannata da un cavaliere. «Presumere di scorgere la verità attraverso un gioco», disse quasi con sgarbo, «equivarrebbe a compiere l’errore di Adamo ed Eva. Fu per diletto, infatti, che giunsero a peccare di superbia contro Dio».
Robert non fu abbastanza accorto da cogliere la sua irritazione. «Forse Eva era un’abile giocatrice di scacchi», propose svagato. «Almeno quanto lo siete voi».
A quelle parole la badessa scattò in piedi, facendo rovesciare alcune pedine. «A cosa avreste l’ardire di alludere, messere?».
Il piccardo la fissò basito. «A nulla di oltraggioso, mia signora». Si alzò a sua volta, appoggiandosi ai bordi del tavolo, nel tentativo di tranquillizzarla.
Rossa per lo sdegno, Eudeline era talmente accaldata da desiderare di strapparsi il velo e il soggolo. Come ardiva, quell’uomo, di permettersi tanta confidenza? Lo trapassò con un’occhiata di rimprovero, poi disse con distacco: «Ci siamo dilungati fin troppo», e prese congedo con un cenno della mano. «La vostra memoria sembra non fare progressi…».
Vermandois la trattenne per un polso. «Perché mi temete?».
Lei ebbe l’impulso di ribellarsi, ma non lo fece. Saggiò la stretta di quella mano grande e ruvida, sentendo il suo calore propagarsi fin sotto la pelle. «Io non vi temo», rispose, incapace di nascondersi dietro lunghi discorsi. «Non capite? È proprio questo il problema… Io non vi temo!».
Robert schiuse le labbra senza proferire verbo. La fissò attonito, poi i suoi occhi si abbassarono sulla scacchiera per vagare smarriti, quasi inespressivi, finché parvero cogliere qualcosa. Allora, inseguendo le immagini del pensiero, tornarono a risplendere vividi. «La conclusione della partita… il viaggio…», esclamò tremante.
«A cosa alludete?», chiese la badessa, avvicinandosi d’istinto.
«Ora ricordo… Ricordo!». Vermandois posò una mano sulla scacchiera, afferrando alcune pedine. «Attendemmo che vostro fratello si rimettesse dalla ferita, poi ci accodammo al seguito del re. Sì, rammento… Maynard voleva dirigersi verso Reims, ma prima… Prima accadde un fatto strano».
«L’agguato dei sicari?»
«No, no… Vedo un carro. Un carro che recava un’insidia ancor più letale. Eravamo ancora al seguito del Valois, quando un uomo si sporse all’improvviso da quel carro per scrutare Maynard…».
Ormai dimentica dell’alterco, Eudeline lo fece sedere al tavolo, nell’attesa che si spiegasse meglio. Tuttavia, dopo aver pazientato più di quanto le consentisse il suo animo inquieto, ruppe il silenzio: «Quale uomo?».
Allora Robert de Vermandois aggrottò le sopracciglia e, con una voce tagliente come metallo, pronunciò un nome: «Sua altezza Karel di Lussemburgo».
Aleydis non sapeva darsi pace. Il momento in cui suor Claire avrebbe usato la chiave che teneva appesa al collo era sempre più vicino, ma la novizia non era ancora riuscita a sostituirla con quella autentica. Ora che possedeva copia delle lettere di Maynard de Rocheblanche, non poteva permettersi di commettere errori. Se voleva che la sua intrusione nelle stanze della badessa restasse un segreto, doveva assolutamente rimettere la chiave rubata al collo della cappellana. O per lei sarebbe stata la fine.
Cercò di mantenersi calma, aspettando la pausa serale nella speranza di trovare l’occasione giusta per avvicinare suor Claire. Sapeva già come fare. Con la scusa di ribadire il proprio dispiacere per l’incidente mattutino, si sarebbe appartata con lei e avrebbe trovato il modo di sostituire la chiave. Ma all’avvicinarsi del momento in cui intendeva agire, la sua presenza fu richiesta dall’infirmaria.
Interrogandosi sul motivo di quella convocazione, la ragazza raggiunse il valetudinarium con l’augurio di non incappare in contrattempi.
La monaca la stava attendendo all’aperto, già pronta a impartire ordini. «Dovrete pulire l’orto dalle erbacce», le disse.
«Adesso?», chiese la novizia, presa alla sprovvista.
«Preferireste agire con vostro comodo?», ironizzò l’infirmaria, portando i pugni ai fianchi.
«Chiedo venia, madre… Se solo potessi farlo più tardi…».
La monaca scosse il capo. «Obbedienza!», esclamò, e voltandole le spalle la lasciò sola.
Aleydis diresse uno sguardo verso l’orto e per poco non ebbe un mancamento. Era completamente coperto di erbacce. Quel compito l’avrebbe tenuta impegnata fino a sera. Meditò su come fosse possibile trovare una scappatoia dall’impiccio, ma concluse di non avere scelta. L’unica soluzione era sbrigarsi.
Si chinò senza esitare tra i solchi di terra e, secchio alla mano, strappò con furia tutti i germogli di gramigna che, con l’inizio della bella stagione, iniziavano a infestare le colture delle erbe officinali.
Di tanto in tanto l’infirmaria usciva all’aperto per controllarla. E ignara delle motivazioni che la spingevano a metterci tanto impegno, si complimentò con lei per la solerzia.
In preda a un’agitazione sempre più grande, Aleydis continuò a lavorare a testa china, incurante delle ferite alle dita, finché non ebbe portato a termine il compito. Allora, con la schiena indolenzita, prese congedo e si avviò in fretta verso il chiostro.
Nel trovare le monache ancora intente a chiacchierare, tirò un sospiro di sollievo. Si assicurò di avere la chiave sempre nascosta sotto la manica e, tutta sudata e con le mani annerite dalla terra, si aggirò in cerca della cappellana.
Proprio in quel momento, suor Claire stava usando la chiave sbagliata per accedere alla domus particularis della badessa.
Suor Eudeline si allontanò dal valetudinarium con la testa piena di pensieri. Non bastava la curiosità sul Lapis exilii e l’incognita sulla missione di Maynard. Ora, ad assillarla, c’era anche un nome altisonante: Karel di Lussemburgo. Robert l’aveva definito “altezza” e non “maestà”, poiché la sua amnesia era precedente alla notizia dell’incoronazione di colui che da pochi giorni era noto al mondo come Carlo I di Boemia, “re dei preti”.
Il vero dilemma, d’altro canto, era scoprire cosa volesse un uomo del genere da Maynard. Il piccardo non rammentava nulla al riguardo, a parte la velata ostilità di quell’individuo. D’altro canto, Eudeline aveva preferito non fare cenno all’enigma del Lapis exilii, tantomeno alla missione di cui si era fatto carico il fratello.
Aveva dunque lasciato Robert de Vermandois a riposare per ritirarsi nelle sue stanze. Desiderava meditare da sola, nel tentativo di tracciare un seppur ipotetico collegamento tra i pochi indizi di cui disponeva. Non poteva ignorare l’ipotesi del complotto confidatale da Maynard poco prima della sua partenza. Un complotto ordito proprio ai danni del nobile padre di Karel.
Era ormai giunta a destinazione quando vide suor Claire ferma davanti all’uscio. «Che succede?», le domandò.
«La chiave…», rispose la cappellana, con un certo imbarazzo. «Non apre… Forse, la serratura…».
Irritata da quel balbettare, la badessa le si avvicinò come un falco. «Si può sapere cosa state dicendo?»
«Volevo precedervi, portarmi avanti con il lavoro…», rispose suor Claire, tenendo lo sguardo basso. «Ma la serratura dev’essere bloccata… Non riesco a…».
Scrutandola con sufficienza, suor Eudeline estrasse da una tasca dell’abito la sua chiave, la infilò nella toppa e, con un gesto secco, fece scattare il catenaccio. «Come immaginavo», mormorò recisa. «Nessuna serratura bloccata».
La monaca arrossì. «Forse», balbettò, «si trattava solo di un po’ di ruggine…».
«O forse», le fece eco la reverenda madre, «mi serve una nuova cappellana». E buttando gli occhi al cielo, si diresse al suo scrittoio sommerso di scartoffie.