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Quando Gualtiero riaprì gli occhi non si trovava più riverso a terra, anche se per un attimo avvertì la sensazione dell’erba che gli premeva sulla faccia. Stava coricato su un giaciglio, in un cubicolo ombroso. Una figura incappucciata gli sedeva di fronte. Sforzandosi di capire chi fosse, si sollevò sui gomiti e attese che i sensi uscissero dal torpore. Prima che ciò avvenisse, fu assalito dal ricordo di quanto era successo.
«Mia madre?», chiese con un fremito. «Mio padre?»
«Non agitatevi, figliolo», si raccomandò il monaco, mettendogli una mano sul petto. «Avete ricevuto un brutto colpo alla testa».
Il giovane riconobbe la voce di padre Andrea. «Rispondete, vi prego», e con fatica si mise seduto. «Che ne è stato di loro?».
Il reverendo chinò il capo. «Arrestati».
Gualtiero si sentì sprofondare in un gorgo nero. Rivisse gli attimi della cattura di Sapia e di Sigismondo in preda a una disperazione che si ingigantiva. Una parte di sé si ribellava al pensiero che fosse accaduto davvero, continuando a sperare che si trattasse di un incubo. Eppure, gli occhi tristi dell’abate non facevano che riportarlo alla realtà.
“Adesso sono solo”. Il giovane si rese conto di non sapere come agire, né tantomeno a chi chiedere aiuto. Fino ad allora non era stato mai costretto a provvedere a se stesso. Ora però non aveva scelta. Cercò dunque di calmarsi, ma al ricordo di sua madre fra gli armigeri non poté trattenere le lacrime. “Perché?”, si chiese, “perché sono stati arrestati?”.
Nel momento in cui stava per porre quella domanda all’abate, fu pungolato da un interrogativo ancora più grave e si sentì avvampare d’ira. «Per quale ragione non siete intervenuto?», sibilò con improvviso sdegno. «Vi avevo implorato… Eppure non avete mosso un dito!».
«Non ho potuto far nulla», si giustificò il reverendo, nascondendo il volto sotto il cappuccio.
Gualtiero scattò in piedi e gli afferrò un lembo della tonaca. «Non eravate stato voi ad affermare che Pomposa è libera dall’autorità del vescovo?»
«Lo affermo tuttora». Il monaco si sottrasse alla sua presa. «Non lo è nei confronti del marchese d’Este, tuttavia».
«Al diavolo i cavilli!». Il giovane non riusciva a darsi pace, si sentiva tradito. Benché conoscesse quel religioso da pochi giorni, si era illuso di aver instaurato con lui un rapporto che andasse al di là della mera commissione di un affresco. Del resto, era stato proprio Andrea a concedergli fiducia, inducendolo a credere di essere speciale. Per poi voltargli le spalle nel momento di maggior bisogno, alla stregua di un estraneo. «I miei genitori sono innocenti», esclamò, fissandolo torvo. «E voi… Voi… Avete permesso che andassero incontro a una sorte iniqua».
«Sono stato costretto», si difese l’abate, facendogli cenno di abbassare la voce. «Il visdomino ha riconosciuto in vostra madre un nemico di Ferrara».
«Non è possibile».
«Ciò nondimeno, questa è la ragione che mi ha impedito di difenderla. L’accusa è assai grave. Mi rincresce, figliolo. Mi rincresce davvero».
Gualtiero non credeva alle proprie orecchie. Padre Andrea sembrava sinceramente dispiaciuto, eppure le sue parole non avevano senso. «Dove la porteranno?», chiese all’improvviso.
«A Ferrara. Il marchese Obizzo deciderà della sua sorte al cospetto del consiglio dei Savi». L’abate emise un sospiro, poi gli pose una mano sul capo. «Dovete farvi coraggio, la reazione del visdomino è stata troppo fulminea perché possa essersi sbagliato».
«Sostenete forse che io non conosca mia madre?», sbottò il giovane, di nuovo in preda all’ira. «È stato un errore, invece. L’Orsini deve averla scambiata per una donna che le somiglia». Nell’udir pronunciare una simile affermazione, si rese conto di non esserne affatto sicuro. Al momento della cattura, aveva notato in Sapia un atteggiamento talmente distaccato da crederla un’estranea. Quel pensiero, più ancora della disperazione, accresceva il suo smarrimento, facendolo sentire quasi defraudato della propria vita. Tuttavia quella non era la sua unica preoccupazione. «Mio padre?», chiese dopo un breve silenzio. «Perché anche lui?»
«Perché si è intromesso, opponendo resistenza», spiegò l’abate, amareggiato. «Superanzio Orsini non gli ha perdonato l’umiliazione ricevuta».
Gualtiero lo scrutò di sottecchi. «Neppure per lui siete riuscito a far nulla…».
Stanco di sentirsi rivolgere parole di sprezzo, Andrea si allontanò dal giaciglio facendogli cenno di tacere. «Se proprio vi preme saperlo, è stato già molto riuscire a salvare voi», sentenziò con alterigia. «Quando siete svenuto, gli armigeri volevano arrestarvi insieme a vostro padre. Ho fatto valere tutta la mia autorità per persuadere il capitano Maffeo da Brescia a lasciarvi libero».
Di fronte a quelle parole il giovane si sentì un ingrato. Fu tuttavia un’emozione passeggera, sovrastata dal cruccio per i genitori. Si mise le mani nei capelli. «E ora, cosa posso fare…».
Il monaco addolcì lo sguardo. «Resterete qui, nella foresteria del monasterium», disse, chinandosi su di lui. «Vi concederò ospitalità finché non conosceremo gli esiti della vicenda. Nel frattempo scriverò al vescovo di Ferrara e chiederò clemenza per vostra madre e vostro padre. In fondo avete ragione, anch’io sono responsabile».
«Non è mia intenzione approfittare di voi, reverendo…», mormorò il giovane, rialzandosi. «Sono disperato, è vero, ma non saprei come ripagarvi per simili premure».
«Troveremo un modo», lo tranquillizzò Andrea, sorridendo. «Ora riposate, e pregate il Signore».