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«Sappiate che non sarete accettata con troppa facilità». Suor Eudeline schivò un’occhiata perplessa di Aleydis, prestando attenzione alle pozzanghere di fango che tappezzavano la via. Il suo abito era macchiato e, scrutando il cielo nuvoloso, temeva di giungere al convento bagnata fradicia. Ciò nondimeno, l’irritazione aveva lasciato spazio a un senso di protezione. Ignorava cosa legasse quella giovane donna al suo misterioso protettore e al subdolo Marcus, però scorgeva del buono in lei. Era rimasta orfana molto presto e sembrava aver patito la miseria. Soltanto per quello meritava conforto. Ma nonostante la badessa desiderasse rivolgerle parole gentili, aveva l’obbligo di non incoraggiarla.
«Non comprendo, reverendissima», ribatté Aleydis.
«“Mettete alla prova gli spiriti per capire se provengono da Dio”», disse Eudeline, citando la prima epistola dell’apostolo Giovanni. «E non chiamatemi “reverendissima”, ve ne prego. “Madre” sarà più che sufficiente».
«Intendete dunque mettermi alla prova?».
La badessa annuì. Non era lei a imporlo, ma la Regola di san Benedetto. «Dovete sapere che sono ben pochi gli eletti alla vita monastica, anche se in molti vi aspirano».
«Pensavo fosse sufficiente versare una dote», ribatté la giovane, delusa.
«Non siate sciocca», la rimproverò Eudeline. «I beni patrimoniali sono necessari a mantenere un convento e la sua comunità, dacché le monache non possono mendicare. Ma quant’è vero Iddio, la ricchezza non determina la vocazione e io non disporrò dei vostri fiorini d’oro finché non sarete professa».
«Se affermate il vero, come siete riuscita a diventare superiora così giovane?».
La reverenda madre si voltò di scatto, avvampando per la rabbia e per l’imbarazzo. «Ora siete impertinente», esclamò. «Parlate proprio voi, di cui non si sa praticamente nulla?».
Aleydis si fermò in mezzo alla strada. «Perdonate, madre», e chinò il capo. «Spero di non essere stata tanto irriverente da farvi ricredere sul mio noviziato».
«Voi non siete ancora novizia», ribatté Eudeline.
Un’ombra di sconcerto attraversò il volto della ragazza. «Significa che non mi ammettete in convento?».
La reverenda madre la fissò in silenzio, cercando di vincere la rabbia. Non era da lei reagire in modo brusco, anche se punta nel vivo. Gli eventi degli ultimi giorni dovevano aver intaccato la sua tempra ben più di quanto si fosse aspettata. Emise un lungo sospiro. «Per ora verrete accolta nella foresteria», spiegò, ritrovando i suoi modi impassibili, «ma vi prometto che non resterete inoperosa».
Percorsero l’ultimo tratto quasi di corsa, per salvarsi da un improvviso scroscio di pioggia.
Aleydis giunse con la badessa davanti al portale del convento, dove attese finché la monaca portinaia, una donna molto anziana, le andò incontro per accompagnarla in un edificio in legno che sorgeva ai margini del complesso. L’interno ospitava un ambiente unico, occupato da una decina di giacigli di paglia e da un tavolo collocato al centro. Di fronte all’ingresso, contro una parete annerita dal fumo, c’era un camino spento.
Dopo poco, un famiglio bussò all’uscio e sistemò sul tavolo dei panni di tela grezza, qualche candela di sego e un orcio pieno d’acqua, poi si avvicinò al focolare per deporre dei ciocchi di legna.
Nell’attesa di accendere il fuoco, la vecchia monaca parlò alla ragazza: «Riceverete due pasti al giorno, ma non avrete il permesso di recarvi in refettorio. Dovrete consumarli qui, da sola. Avete altresì l’obbligo di prendere parte a tutte le funzioni sacre. Sederete nelle ultime panche del convento, senza rivolgere parola a nessuno». La bocca arida si distese in un tenue sorriso. «Siate paziente, obbedite e verrete ricompensata. Non posso dirvi altro, a parte che la reverenda madre vi farà visita per affidarvi dei compiti».
Aleydis aveva un’infinità di domande da rivolgerle, ma si limitò ad annuire.
La portinaia le sorrise di nuovo, poi ordinò al famiglio di uscire e si allontanò con lui sotto la pioggia.
Non appena rimase sola, la giovane si mise davanti al fuoco e asciugò i capelli con un panno. Era spossata dal viaggio e delusa dall’accoglienza, e non immaginava come avrebbe potuto svolgere la propria missione. Il cardinale non le aveva mai detto che sarebbe stata rinchiusa in un ambiente tanto lugubre, in attesa di essere giudicata idonea. Non le aveva detto neppure quanto sarebbe stato difficile accedere al noviziato. Si era limitato a fornirle dei consigli sul comportamento da tenere, minacciandola di punirla in caso di fallimento. Nulla di utile, in sostanza.
Si rannicchiò su un giaciglio vicino al camino e chiuse gli occhi, cercando di farsi forza. “Al diavolo”, pensò. Non le importava quanto tempo sarebbe rimasta in quel luogo, né quali prove avrebbe dovuto sostenere. Non poteva certo essere peggio della vita da cui proveniva. Era nata e cresciuta in una bettola assai più squallida di dove si trovava ora, costretta a sfuggire di continuo alle attenzioni del padre e alle percosse della madre. Aveva patito la fame, la sporcizia e il rigore di certi inverni al cui solo pensiero si sentiva pervadere da conati di vomito. Altro che le stupide Regole di san Benedetto!
Del resto, cosa poteva saperne la badessa? Aleydis si era morsa la lingua, ma non era riuscita a resistere. Come avete fatto a diventare superiora così giovane? Bastava guardarla, per capire che suor Eudeline proveniva da ambienti altolocati. Con quelle manine candide e il viso angelico, si faceva bella parlando di umiltà quando probabilmente non aveva mai dovuto rammendarsi un abito. No, si disse la giovane, non mi spezzeranno.
Strinse i pugni e restò immobile, avvolta nel tepore della paglia, pensando alla ricompensa promessa dal cardinale. “Eseguite i miei ordini e vi farò badessa”. Non sarebbe più tornata nella miseria, a ogni costo. Mai più. E mentre la stanchezza iniziava a intorpidirle le membra, scivolò lentamente nel sonno.
Quando si svegliò, la reverenda madre era accanto a lei. Teneva in mano una ciotola di zuppa fumante. «Il vostro pranzo», disse, appoggiandola sul tavolo. «Consumatelo finché è caldo».
La giovane si alzò dal giaciglio, togliendosi di dosso i fili di paglia impigliati nel vestito. «Perdonatemi, madre. Temo di essermi addormentata mentre pregavo».
Suor Eudeline annuì. «Ho pensato a una lista di compiti da affidarvi».
«Sarò felice di obbedirvi».
«Li svolgerete tra una funzione e l’altra, adeguandovi alla vita del convento, ma non sotto la mia vece. D’ora in avanti, è mia volontà che seguiate gli ordini della monaca infirmaria».
«Non per contraddirvi…», si permise Aleydis, immaginando di doversi prendere cura di qualche infermo. «Temo di non essere all’altezza…».
Eudeline la zittì con un gesto. «Impegno, carità, costanza. Non vi sarà richiesto altro. Dovrete abituarvi a svegliarvi prima del sorgere del sole e a mettere in secondo piano le vostre necessità. Per adeguarvi allo scorrere del tempo, fate riferimento alla scansione delle messe giornaliere e ai rintocchi della nostra campana».
Nei giorni a venire, Aleydis si adeguò alle regole del claustro ed eseguì ogni compito affidatole dalla monaca infirmaria. Contrariamente a quanto si era aspettata, non le fu chiesto di accudire alcun malato. Dovette invece occuparsi delle mansioni più umili e faticose, di solito svolte dai famigli. Trascorse la maggior parte del tempo china nell’hortus e nell’herbaria4, a strappare erbacce, potare piante e rivoltare il terreno con un falcetto. Dovette poi mantenere pulito il valetudinarium, ordinare i libri, gli strumenti medici e persino le erbe officinali essiccate, che venivano conservate in vasi di vetro e riposte in una specie di cantina chiamata annarium pigmentariorum. Si sforzò di accorrere sempre puntuale alle messe, e dopo i vespri si ritirava nella foresteria, per cenare in solitudine e crollare esausta sul pagliericcio, in attesa della funzione di compieta. Senza mai ricevere un grazie o un segno di approvazione.
Prima di allora aveva sempre ignorato che l’obbedienza e il silenzio richiedessero tanto sacrificio. Non poter scambiare una parola con nessuno le era di peso, così come il fatto di sentirsi sempre osservata e giudicata. Inoltre, ogni volta che si trovava in presenza delle consorelle temeva di assumere comportamenti inadeguati, di apparire una sciocca e persino di camminare in modo sconveniente. Nonostante ciò si impose di resistere, finché la sua pazienza non fu premiata.
Accadde il quarto giorno, mentre stava pulendo il pavimento del valetudinarium con uno straccio imbevuto d’aceto. La monaca infirmaria l’aveva lasciata sola per svolgere qualche compito all’aperto. Fu allora che, d’un tratto, entrò la reverenda madre.
Aleydis continuò a pulire, restando inginocchiata in un angolo, senza farsi notare. E mentre si chiedeva cosa fosse venuta a fare la badessa in quel luogo, la spiò con la coda dell’occhio. La vide attraversare l’ambiente e sedersi accanto all’unico infermo presente nel valetudinarium, un uomo con il capo fasciato, sprofondato nel sonno.
La giovane ignorava il nome di quell’individuo, ma le era bastato notare la sua corporatura robusta e gli abiti militari riposti ai piedi del letto per fare delle supposizioni. C’era da chiedersi il motivo della presenza di un soldato ferito all’interno di un convento. Probabilmente si trattava di quel genere di informazione che poteva interessare al cardinale.
Ciò che accadde in seguito, tuttavia, solleticò ancor più la sua curiosità.
Suor Eudeline non fece nulla di particolare. Si limitò a fissare l’infermo con intensità. Ma non era carità quella che le trapelava dal volto, tantomeno la pietà di una religiosa per un sofferente. Benché Aleydis non potesse esserne certa, ebbe il presentimento di assistere a qualcosa di più intimo.
Quella sensazione durò un istante. Poi la badessa si alzò in piedi e, voltandosi all’improvviso, si accorse della sua presenza. Camminò verso di lei.
La giovane abbozzò un cenno di scuse e si preparò a subire un rimprovero. Invece, nel trovarsi di fronte alla superiora, scorse nei suoi occhi soltanto inquietudine. Un’inquietudine che non aveva ragione di nascere dalla vita mansueta e ritirata di una monaca.
Sovrastata da quello sguardo, Aleydis restò inginocchiata sul pavimento con lo straccio in mano, senza sapere cosa aspettarsi.
«Fatemi vedere le mani», le ordinò Eudeline.
La ragazza esitò, chiedendosi se per caso avesse udito male. Poi, esortata da un cenno impaziente, obbedì con un pizzico di vergogna. Aveva le dita gonfie e coperte di graffi, per via dei lavori svolti in quei giorni.
La reverenda madre le sfiorò, esaminandole. Osservò quindi il suo operato, facendo scorrere lo sguardo per il pavimento. Infine, inaspettatamente, sorrise con soddisfazione. «Il vostro soggiorno nella foresteria è concluso», disse. «Vi accetto come novizia».