XXIII

Inclusione anche per noi

Sono molto portato a interloquire con chiunque non conosca, a fare domande a estranei o a persone incrociate casualmente, a cercare subito un contatto confidenziale. Mi sento spesso dire che mi comporto come un poliziotto o che soffro della deformazione professionale del giornalista, che poi è la stessa cosa. Quella è secondo me la mia parte compulsiva, che assomiglia alla fame del bulimico. Voglio immagazzinare dati che poi riporterò in superficie quando sarà per me utile farlo. Questo, forse, è alla base del mio mestiere di parlare alla radio con persone che non vedo, soprattutto farlo a braccio su qualsiasi argomento, come se avessi una cultura enciclopedica, mentre in realtà ho lacune abissali nella mia formazione.

Forse è per la mia notorietà d’interlocutore radiofonico, a cui si parla come nascosti dalla grata del confessionale, che ispiro confidenza. Spesso mi viene raccontato quello che nemmeno a un parente stretto si direbbe. Mi è stato lasciato intendere che questo fa parte dell’essere nello spettro, e mi è andata bene perché l’ho trasformato in un lavoro per la vita; se non ci fossi riuscito, mi dicono che avrei rischiato di brutto, forse quella sottile nebbia di tristezza che spesso mi arriva al massimo al ginocchio sarebbe salita fino a togliermi il respiro. È facile!

Nel tempo sono molto cambiato. A mano a mano che mi allontanavo dalla giovinezza e dai luoghi fisici in cui me l’ero consumata, mi sono perso per strada le peggiori delle mie ruvidezze. Chi m’avesse conosciuto allora e mi leggesse ora penserebbe che mi sono ammorbidito. Per come mi sentivo di essere nel passato remoto trovo un inebriante paradosso che oggi molti, senza esitazione, mi diano del buonista.

Buonista, in questi giorni confusi, è diventata un’offesa, un motivo di scherno e di svergognamento corale, come una volta si diceva quattrocchi o cicciobomba. Fa parte di un momento di generale reazione alle letture ipocrite e edulcorate del reale che hanno rappresentato la costante caratteristica della cultura dominante negli ultimi decenni. Era fatale che, a forza di sentire come obbligo per l’accettazione sociale fingersi evoluti e quindi tolleranti, abbia fatto inghiottire amaro a chi non aveva elaborato con serenità la necessità di esserlo come importante progresso culturale. Ecco quindi che, appena la tolleranza ha smesso di essere una teoria da salotto e ha avuto un collettivo e reale terreno di verifica, tra crisi economica e immigrazione, il fragile argine del politicamente corretto è tracollato ed è riemersa la parte più rozza e arcaica dell’animo popolare. La questione è stata mal posta, sostenuta da un’élite culturale che non aveva metabolizzato quello che predicava e la cui posizione di «casta» non era costruita su una condizione privilegiata di consapevolezza, ma su rapporti di potere.

Il termine «inclusione», per paradosso, non è un’invenzione dei salotti di sinistra, anzi sono convinto che indichi realmente un livello di civilizzazione oggi dei più avanzati tra quelli che dovrebbe perseguire l’umanità neurotipica. Chi non ha paura di avere un atteggiamento inclusivo è il testimone perfetto della più efficace strategia di sopravvivenza nella contemporaneità. Chi sinceramente include piuttosto che escludere come esercizio quotidiano, senza che sia mera ostentazione di virtù buoniste, è un sapiente stratega e dimostra molto più coraggio di chi lancia proclami e chiamate alle armi per presidiare i propri confini, sia fisici che culturali.

L’umanità si è evoluta proprio sul principio dell’inclusione: le grandi transumanze hanno fortificato e corroborato la specie, mentre le civiltà presidiate da fortificazioni e argini si sono estinte, o per entropia o per non aver capito che non esiste muraglia che qualcuno, prima o poi, non possa attraversare.

Non bisogna però rinnegare una conquista culturale solo per alcune circostanze oggettive di cattiva gestione dei flussi migratori. Una mente inclusiva è la nostra salvezza, anche strumentalmente; chi è capace di riprogrammarsi sul mutare di circostanze esterne sopravvive più facilmente di chi resta abbarbicato a sistemi operativi mentali chiusi e obsoleti.

In sintesi, vince chi ha capacità inclusiva. Non ci si lasci impressionare dal fatto che appaiano come forti le opinioni di massa guidate dagli integralismi, dalle ottusità imposte come regola, dai precetti che livellano i comportamenti. La superstizione non ha mai prodotto civilizzazione. Persino la religione, quando è libera espressione dell’umana capacità d’immaginare trascendenza, produce arte, pensiero, serenità.

Una regola di vita che cerca conferma in deità vindici, o prescrizioni irrazionali, è al lumicino, è prossima alla sua fase di decadenza. Ci si difenda lecitamente dalle forme dispotiche di colonizzazione forzata, ma non in nome di altrettanto indubitabili princìpi: la guerra di religione è sintomo di regressione. La chiave della modernità è nella leggerezza di accettare sovrascritture continue dei propri schemi abituali.

La vera preoccupazione dovrebbe essere piuttosto quella di organizzare il nostro territorio, soprattutto mentale, per una razionale e fruttifera inclusione di tutte le possibili «alterità», sia quelle che arrivano da realtà geografiche diverse sia quelle che si producono spontaneamente all’interno del nostro sistema sociale, come disabilità di ogni tipo, neurodiversità, eresia, eterodossia comportamentale, ecc. Nulla andrebbe «normalizzato», ma studiato e metabolizzato come stimolatore alla costruzione di nuovi contenitori di senso. L’atteggiamento inclusivo non deve essere considerato come rinunciatario, ignavo o, peggio ancora, succube. La capacità di includere implica il saper alimentare il proprio database cognitivo, corrisponde a una molteplicità di risorse da poter continuamente mettere in campo, significa poter aggregare informazioni e costruire sistemi di espansione della propria area di competenza. In sintesi paradossale: oggi il vero colonizzatore è chi è capace di adottare sorprendenti strategie inclusive. Chi associa l’inclusione al politicamente corretto ha una visione obsoleta, proprio perché cementificata in un pregiudizio ideologico incapace di contaminarsi con la velocissima mutazione del reale.

Dico questo calandomi nella mia reale percezione di essere politicamente scorrettissimo per la mia parte autistica. Alla fine io dovrei essere candidamente «spietato», impassibile alle sofferenze altrui, in quanto difettoso di empatia, interiormente inattaccabile da sensi di colpa per quello che si muove nel mondo di alieni tra cui mi trovo come estraneo.

Però non è così. L’aspetto atipicamente dinamico dei miei pensieri sempre in fuga mi stimola proprio nella direzione opposta, nel sentire acuta la «commozione» per gli stati d’animo altrui proprio perché fa parte delle possibili nozioni che devo scaricare ogni giorno nel mio database organico. È per me vitale mantenere a livello il combustibile della mia produzione mentale, delle mie parole impensate, delle idee che mi saltellano di continuo tra le pupille e l’orizzonte prossimo.

Annuso il malessere altrui come fossi un cocainomane. Lo faccio mio, prendendomi a volte sulle spalle dei pesi inenarrabili. Non accade perché sono buono, ma forse perché sono autistico. Fa parte della mia storia personale essermi prodotto per un periodo della vita pubblica nella «sollevazione delle donne». Mi sembrava un bel gioco, tanto da compromettermi la schiena, ma solo ora capisco perché lo facevo. Volevo sfidare la legge di gravità che ci appesantisce, ma soprattutto appesantisce le donne a cui non è consentito essere donne leggere. E così, per farle sentire tali, le prendevo sulle spalle e, assieme a loro, il loro peso. L’ho fatto per quasi un anno anche girando per le piazze d’Italia con un’orchestrina che mi accompagnava a rullo di tamburo per ogni donna che sollevavo sulle spalle, come nell’iconografia classica il buon pastore porta la pecorella. Sembrava l’apoteosi di un gesto fisico, ma non era così: riuscivo a prendermi sulle spalle anche donnoni oltre i cento chili, e ancora non me ne capacito. Eppure l’ho fatto, tornavo la sera con la schiena a pezzi e uno strano formicolio tra le vertebre. Ero però soddisfatto perché avevo rubato sorrisi e palpiti di riconoscenza a quelle donne che avevo appena sfiorato e che, per «regolamento», non avrei mai più visto.

Nulla di più autistico che collezionare sollevamenti con l’intento di annullare corpi lottando contro la supremazia della loro massa e sfidando il loro naturale stare con i piedi a terra. C’è chi cerca la sopravvivenza nella memoria collettiva coltivando virtù eroiche, producendo pensiero, benessere, persino inquietudine o disperazione. Non c’è etica da imporre nella corsa all’eternità terrena dell’umano consapevole di poter influenzare il proprio destino. Io volevo sopravvivere sollevando donne.1 Tutto qui.

Penso ancor oggi che rompermi la spina dorsale sollevando femmine era per me la via più facile per rapportarmi con loro. Alla fine, caricarmele sulla schiena era la maniera meno complicata per gestire il soffocamento costante che di solito mi procura il contatto con l’emozione. Tra tutte le emozioni, so bene che la più vertiginosa è proprio gettare lo sguardo in quel precipizio che solo una donna è capace di spalancare. Donna sollevata è donna passata… Meglio per me, meglio per lei. Non lo sapevo, ma stavo facendo delle prove su strada di quella che immagino possa essere la soluzione migliore di «assetto relazionale» per chi ha come modello un ragazzo che si pulisce la faccia se riceve un bacio.