IX
La mia storiaccia
La segretaria sospesa sui tacchi e sorridente mi fece accomodare come se niente fosse. A destra, sul divanetto, il giovane presidente con l’anello dell’hobbit al dito stava a testa bassa, forse immerso nei sogni tolkieniani. L’anziano amministratore delegato sorrideva dietro la scrivania, con il fantoccio di un samurai armato traballante alle spalle, nel vano della finestra.
«Sono spiacente di doverti consegnare questa lettera.»
Riconoscevo bene lo stile, perché ne avevo ricevute di simili nelle settimane precedenti ed erano tutte contestazioni pesanti per minuzie di lavoro o addirittura per nulla, dai toni sempre aspri e fastidiosi.
Questa, però, capii subito che rappresentava il colpo finale. Lessi dalla prima riga che si faceva riferimento al sito del mio famosissimo programma alla radio e pensai che mi avrebbero colpito al cuore.
«Capisci, ci sono link che vanno a siti pornografici e addirittura pedofili.»
«Siete impazziti?» replicai. «Ma dove stanno? Fatemeli vedere!»
«Cercali, cercali, ché ci sono.» L’ad era trionfante mentre il giovane hobbit presidente continuava a tenere gli occhi bassi seduto sul divanetto.
«Hai messo i disegni del Lego porno con un pisello lungo così, bel servizio pubblico!»
E l’ad elencava le sconcezze cui si arrivava partendo dalle pagine di molti anni prima, che contenevano le puntate del mio programma.
«Poi c’è un link a Rocco Siffredi che apre una pagina con un’inculata in primo piano, poi c’è un link che va ad altri siti pornografici, poi c’è un messaggio in inglese che porta a un sito pedofilo…» e sorrideva.
«Pedofilo? Sei impazzito?!» Ma a quella parola capii che mi avevano incastrato di brutto. Mi sentivo come quello a cui qualcuno ha infilato la bustina di droga in tasca e capisce che è stato fatto fuori. Già, ma nei film alla fine la giustizia trionfa. Da come si stava mettendo, invece, ero sicuro che se quella trama prevedeva un morto, quello sarei stato io. L’avvocato a cui mi rivolsi mi disse che non mi dovevo fare illusioni, sarei stato licenziato.
Infatti ero fritto. Più andavo avanti e più ne ero certo. Le accuse, una volta circostanziate, in sé erano ridicole, ci avrebbe riso qualunque essere pensante con minime cognizioni di Internet, ma naturalmente, da come erano state poste e da come erano state presentate ai vertici Rai prima della contestazione, io sembravo un pericoloso maniaco.
Il dossier che mi accusava era la stampata di decine e decine di pagine hard di siti Internet con cui non avevo naturalmente nulla a che fare, ma la tesi semplificata al massimo diceva semplicemente che a questi si arrivava dal sito del mio programma radio, quello su cui erano state fatte le tesi di laurea, come dicevo, e che rappresentava il primo esempio di crossmedialità nell’azienda pubblica.
Che poi, per arrivare alle pagine zozze, occorresse passare per link di vecchi siti free cambiati negli anni, o che in altri casi fossero contenuti in un messaggio di spam del commento anonimo in un blog, era troppo oltre le possibilità di analisi di chi mi aveva preventivamente condannato. Ero un maiale e gettavo disdoro sull’azienda, perciò fuori e alla svelta, e se non se ne va, lo si denunci e sputtani a sangue. Anche se del sito Rai si occupava più di un centinaio di persone, io ero il direttore, e quindi la colpa era solo mia.
Ero fino a quel momento convinto di essere considerato in Rai una delle punte più creative dell’innovazione digitale, avevo scritto il primo progetto editoriale per la realizzazione di un portale Internet unico per tutta la Rai, ero stato mandato a parlare a nome dell’azienda persino al Forum Internazionale dell’Onu sulla televisione a New York, potevo mai ora essere immaginato veramente come il responsabile materiale di link a siti zozzi nelle pagine del portale che gestivo come direttore? Avrei dovuto essere un aspirante suicida se ce li avessi messi di proposito, ma nessuno si fece la domanda perché alla fine nessuno si oppose quando fu reclamata la mia testa.
Quando mi ripresentai accompagnato dall’avvocato, l’amministratore delegato prese a sciorinare beffardo le sconcezze che aveva diligentemente raccolto e chiuso in una cartellina blu: «Ecco qua siti porno, i maggiori motori di ricerca di materiale osceno, che riconoscono la lingua di chi ci va e rispondono pure in italiano, poi siti con donne nude, e cose che vi risparmio, poi il Lego porno… Questo sarebbe servizio pubblico!». Chissà perché, pensai, si era fissato con un sito di pupazzetti Lego osceni, che faceva solo ridere.
«Già, bel servizio pubblico!» A fargli eco il loro avvocato, che avevo ignorato perché mimetizzato in un completo pesantissimo di tweed peloso e marroncino-beige orrendo, con cravattina della stessa stoffa e camicia pesante di flanella a quadri. Insomma, era talmente vestito male da essere più inguardabile dei piselli in primissimo piano che mi sventolava sotto il naso.
Lo fulminai facendogli capire che la sua ironia era fuori luogo, e lui si vendicò stritolandomi la mano al momento del commiato.
C’era poco da girarci intorno: in quei giorni nessuno mi rivolgeva la parola, i miei dipendenti compresi, ai piani alti nessuno volle ricevermi, per tutti ero morto.
Dovevo decidere a quel punto se avventurarmi in una battaglia legale e fare di quella storia un caso pubblico, ma l’avvocato mi disse che sarebbe comunque durata anni e non valeva la pena di combattere per poi essere messo in una stanza a fare nulla. Tra l’altro, data la scabrosità della materia di cui sarei stato chiamato a rispondere, non avrebbe per nulla giovato alla mia immagine insistere, trattandosi di accuse che sporcano solo a parlarne. Mi consigliava di negoziare piuttosto un’uscita dignitosa come mi era stato proposto e ricominciare altrove, perché quello non era più un posto per me.
Nel frattempo mi ero dato da fare, avevo ripreso contatto con un bravo collega direttore che stimavo e mi stimava. Stava rinforzando la squadra del suo giornale con una campagna acquisti di nuove firme. Ci parlai e mi propose un’assunzione: avrei ricominciato a scrivere, ma soprattutto mi sarei lasciato alle spalle quel verminaio. Così, chiusi in pochi giorni la mia gloriosa storia professionale di vent’anni, anche perché le formalità furono sbrigate in tempi velocissimi. Cominciarono a fioccare voci, che mi venivano riportate dalle poche persone che ancora mi dimostravano solidarietà. Si diceva che facessi messe nere, che andassi davanti alle scuole a fare foto ai bambini, che sarei stato misteriosamente convocato dal cda Rai sull’argomento, seduta durante la quale il mio avvocato avrebbe alzato le braccia dichiarando l’impossibilità di ogni mia difesa: «Nemmeno l’avvocato se l’è sentita di difenderlo!!!».
A me sembrava assurdo, ma tutti vollero crederci, e se incontravo dei colleghi per strada, facevano finta di non conoscermi, mia vicedirettrice compresa, dalla quale non ricevetti più nemmeno una telefonata, dopo cinque anni di lavoro quotidiano al mio fianco. Di lei ci rimasi particolarmente male perché la consideravo un’amica e ci conoscevamo da almeno un ventennio; tra l’altro io la difesi quando in uno dei tanti cambi di stagione politica mi fu velatamente consigliato di favorire una sua giubilazione. Anche la quasi totalità dei miei funzionari, collaboratori stretti, grafici e sistemisti che avevo fatto assumere e con cui lavoravo gomito a gomito, scomparvero. A tutti loro però, che erano i soli che materialmente potevano intervenire e pubblicare sui siti Rai, nessuno chiese o contestò nulla.
Presi l’unica decisione possibile e tutto durò un attimo: negoziai con pochissimi margini la cifra d’uscita e firmai la lettera che mi misero davanti.
L’appuntamento per la procedura finale fu in un baretto d’angolo a metà strada tra la sede Rai e casa mia: ci sarò passato davanti milioni di volte nel corso degli anni, senza mai immaginare che sarebbe stato teatro della mia «degradazione». Ci siamo visti con l’addetto del personale che mostrava velleità da elegantone smart in un penoso tentativo di sciarpetta celestina annodata al collo, con un cappio che mi pare fosse di moda in quel periodo. Per essere più trendy ed esaltare l’accessorio sbarazzino era senza cappotto, in giacchetta e pullover. Faceva un freddo bestia e l’eco remoto dello tsunami, che in quei giorni aveva falciato decine di migliaia di persone nel Sudest asiatico, rendeva ancor più grottesca quella mise arrangiata.
Dovevo restituire il tesserino magnetico e il cellulare, che equivalgono al distintivo e alla pistola che vengono richiesti nei telefilm d’azione a ogni poliziotto radiato dal corpo per una congiura ordita per metterlo fuori dai piedi. Equivalgono alle mostrine divelte e alla spada spezzata nella cerimonia di degradazione dell’innocente Dreyfus pronto a salpare per l’Isola del Diavolo.1
Siamo dovuti anche andare a fare le fotocopie di un mio documento e del codice fiscale alla copisteria di fronte al baretto, era la prassi. Come siamo usciti di nuovo in strada, mi sono preso una cacata di storno dritta in testa. Lui ebbe a dire che portava fortuna. Il cielo era nero di voli sinistri di uccelli e di nuvole residue di tsunami che si addensavano sul mio capino fortunato.
Il giorno seguente il mio ex autista mi portò a casa lo scatolone con le cose che avevo lasciato sulla scrivania. Era la mattina dell’antivigilia di Natale.
Il 25 dicembre 2004 ogni traccia di me era stata cancellata dal sito della Rai. Come se non fossi mai esistito. Quando me ne accorsi aprii un blog personale: «Il Golem scomparso». «Golem» era il titolo del mio storico programma, ma anche il simbolo della mia passione per la tecnologia, poiché il Golem è il primo esempio di automa che svolge funzioni umane. Su di me si era pure scaraventato l’anatema classico per cui ogni Golem alla fine annienta il suo incauto creatore.
Inaugurai il nuovo blog con un post dal titolo Levità dello scomparire, al quale affidai questo pensiero, ancor oggi visibile benché sepolto in una delle tante fosse comuni digitali:
È una sensazione d’impagabile leggerezza l’essere scomparso da ogni luogo ufficiale dove da anni e anni depositavo idee, pensieri, incubi e parole. Scorrere un elenco di nomi e accorgersi che la propria faccia e la propria biografia sono scomparse assomiglia a un’esperienza di premorte. Vale a dire quel volteggiare sopra il proprio cadavere in piena coscienza che spesso raccontano gli scampati da terribili sinistri. Pazienza, questo non m’impedirà di continuare a esprimermi e a definire una nuova qualità del tempo che da quel momento in poi avrò a disposizione.
Il 4 gennaio 2005 il pubblico affezionato si aspettava di sentire la mia voce come da oltre dieci anni, ma la radio trasmise al posto mio Corazón espinado di Carlos Santana. Mia moglie mi regalò una tessera dell’autobus e mi disse: «Bentornato alla vita normale!».