XIII
Vorrei un figlio teppautistico
Mentre scrivo, Tommy è con me. Sta stravaccato nella sua alcova con gli occhi fissi sul tablet. È un iPad di prima generazione che nessuno userebbe più. È quello sopravvissuto al suo ultimo sgranocchiamento del vetro, che ormai risale a cinque anni fa, come minimo. Tommy non mastica più tablet da molto tempo, ma preferisco che continui a usare quello; la cover marrone di finta pelle è allo stremo, ma lui ci è affezionato. Il sistema operativo antiquato non supporta più YouTube, ma ho trovato con un’app un escamotage per cui può ancora usarlo per la sua funzione prevalente: guardare i cartoni animati della Disney, che lo accompagnano praticamente da quando è nato.
Tommy è un uomo di quasi vent’anni, ha una bella barba con baluginii rossastri, ma in sottofondo per la miliardesima volta mi fa ascoltare il canto strozzato della Sirenetta mentre le viene strappata la voce dalla perfida Ursula, mezza strega e mezzo calamaro. L’educatore di Tommy, Marco il tatuato, dice che la Sirenetta per lui equivale a YouPorn. Anch’io penso che Ariel sia il suo sogno proibito di femminilità, ma proprio perché possiede una strategica coda di pesce che lascia il mistero su quello che una donna ha dall’ombelico in giù.
Forse avrei dovuto spiegarglielo da tempo che le donne sono fatte diversamente da lui, ma a che scopo? Piuttosto, dato che è maggiorenne da più di un anno, mi sarei forse dovuto preoccupare io di procurargli l’occasione di scoprire, dal vivo, la ciuffosa matrice di ogni smarrimento.
Già, ma sono cose che si dicono, si progettano, poi se non c’è impellenza si rimanda. Nel caso di Tommy non scorgo segnali insopprimibili del suo bisogno di tale avventura. Non mi va di forzare un passo del genere, nessuno in quel campo mi ha saputo dare consulenze specifiche su come comportarmi. Tantomeno quello del sesso è argomento che si tratta negli incontri tra genitori, quando si organizza una gita per i ragazzi, un’attività sportiva, un laboratorio. Come si affrontino gli affocamenti ormonali ancora non è sul tavolo delle trattative, almeno per Tommy, ma credo nemmeno per i suoi amici variamente autistici con cui fa gruppo fisso da un paio d’anni.
Sono cinque o sei ragazzoni come lui che condividono i pomeriggi, e a volte anche vacanze di una settimana. Ci inventiamo noi genitori come e con chi, ma alla fine riusciamo a far fare loro un’attività che si avvicina a quelle dei coetanei con il cervello più simile alla norma.
Tommy e gli altri li ho battezzati i «Teppautistici», un termine per il quale sono riuscito a farmi odiare ancora di più dalla folta schiera di genitori che ancora parlano dei «nostri angeli speciali».
Ipotizzai la categoria del teppautismo il giorno in cui vidi la foto di Tommy e dal suo amico Bobo che si atteggiavano a gioventù bruciata: sguardo spavaldo, sigaretta tra le labbra e bottiglia di birra in mano. Era una foto da figli della teppa fatta per gioco da Marco il tatuato, che se li era portati dietro in un bar.
Così pubblicai la foto su Facebook. Subito partì il coro delle vestali inorridite… Come? Con la sigaretta in bocca… Con la birra e lo sguardo strafatto? In giro per locali, invece che a nanna nel lettino di casa…
Non me la sono sentita di specificare con troppa sollecitudine che le sigarette erano di cioccolata, come quelle che da piccoli ci mettevano nella calza della Befana. Io non mi volevo rassegnare a congelare Tommy e Bobo in un perenne destino di poveri ragazzoni da compatire, condannati a un ininterrotto stato angelico in cui non è permesso lo stravizio. Con quello sguardo enigmatico da sciupafemmine altezzosi, non conosceranno mai la vertigine di una sbornia, la leggerezza dopo la deboscia, la perdizione etilica. In realtà, nessuno li vedrà mai fuori di senno, se non perché di natura già felicemente dissennati a vita.
La loro impeccabile pantomima da beoni incalliti sembrava volerci illudere che possiamo anche lasciarli andare, vorrebbe dirci che è arrivata l’ora che anche loro facciano le ore piccole, scolino bottiglie, disperdano i pensieri nelle spire di fumo, sbocconcellino famelici le ore della notte, tentatrici ambigue e ruffiane. Soprattutto che lo facciano con persone della loro età, con cui condividere affanni, passioni, perfidie e ore ignave generosamente regalate al tempo dei loro capelli folti e muscoli da saltimbanchi. Di sicuro vorrebbero scrollarsi di dosso ogni badante, accompagnatore, educatore, genitore, insegnante, medico, pedagogo, prete.
A loro non importa essere santi, anche loro avrebbero diritto di meritarsi un po’ di purgatorio per essersi lasciati azzannare dalle fugaci compagnie della giovinezza, saporite o crudeli che siano.
Dio sa quanto mi piacerebbe sapere di poterli lasciare liberi di vivere anche ogni lato oscuro dell’essere follemente giovani, ma so bene che, per la follia scavezzacolli che sempre li accompagnerà, ogni loro libertà non potrà mai essere altro che vigilata.
Questa silente condanna a un’esistenza morigerata per i propri figli devo dire è un deterrente formidabile per ogni possibile tentazione alla devianza dalla rettitudine anche per i genitori. Frequento sempre meno per occasioni informali famiglie che gestiscono la neurodiversità di un congiunto, o per lo meno lo faccio solamente quando sono investito del ruolo ufficiale di quello che parla a un convegno, fa un’inchiesta, presenta un libro, o deve scrivere un articolo. Mi sento sempre più un alieno rispetto alla categoria che, purtuttavia, continuo a rappresentare al mondo delle istituzioni. È singolare che lo scriva in un libro che, al contrario, dovrà ancora una volta confermarmi in questo ruolo di cantore ufficiale dell’autismo. Devo necessariamente essere sincero, non voglio essere una sorta di delegato sindacale, anche se faccio con piacere battaglie con la lancia in resta. Mi metto in prima linea sulla necessità di attenersi alle evidenze scientifiche nei trattamenti per i nostri ragazzi, lo faccio con maggiore ostinazione di quanto spesso lo facciano le associazioni che applicano una giusta mediazione dovendo rappresentare tutte le opinioni delle famiglie; lo faccio spesso alimentando antipatie e inimicizie anche da parte di medici e ricercatori, di chi si vede invaso nel suo campo professionale da un parvenu che pretende di dare lezioni solo perché riesce a dire con belle parole quello che loro hanno sempre sostenuto. Ogni tanto ho pure contatti con la politica e i piani alti dei palazzi del potere. È strano che non mi sia sentito stimolato a farlo nei miei primi trent’anni di accanita professione e ora venga tutto così facile per la mediazione di un figlio stralunato che al massimo dice «Ciao come stai?».
Girano in rete foto di Tommy assieme a importanti rappresentanti delle istituzioni. È accaduto che Tommy sia apparso in tv abbracciato alla seconda carica dello Stato, come se fossero stati amici da sempre. Addirittura è stato immortalato assieme al presidente della Repubblica, compitissimo anche se con la maglietta di un gruppo metallaro.
Anche questo mio aspetto pubblico è pesante da gestire, sento che mi circonda il sospetto che faccia tutto pro domo mea. Non è così purtroppo, non sono nemmeno riuscito a smuovere la signora preside del liceo di Tommy e convincerla di bocciarlo al quarto anno: tanto fa poco o nulla, mi avrebbe dato un anno di respiro in più. Nulla da fare. Con imbarazzo mi è stato pure riferito che, in corso di discussione del «caso Tommy», sarebbe stato detto: «Nicoletti è benestante, ci pensi lui al figlio, perché dovrebbe parcheggiarlo a scuola!». Anche se sul «benestante» avrei molto da dire, posso persino capire cosa ha suscitato un pensiero simile. Io sto sulle palle, non si perdona la sfiga quando è ostentata come fosse splendore.