XXI
Gli incompatibili autistici
Non voglio raccontare di nuovo quello che è già stato detto un’infinità di volte da tanti genitori disperati, senza che nulla sia mai cambiato naturalmente, ma perché non può cambiare, anche ammesso che arrivino dalla luna i governanti più illuminati che noi potremmo mai immaginare.
Ammesso che si facciano leggi perfette, che la scuola diventi realmente inclusiva anche per i soggetti dai cervelli più tosti come i nostri figlioli, ammesso che tutto scorra come in un sogno e i nostri affanni potessero essere diluiti verso altri obiettivi che non siano la sorte del figlio autistico… Ammesso tutto ciò, siamo sicuri che la società attuale sia disposta a considerare senza riserve la neurodiversità una condizione possibile dell’esistenza?
Io penso che questo sia molto difficile, se non impossibile. Facciamocene una ragione, il pensiero neurotipico è la culla di ogni certezza per quella porzione di umani che stabilisce le regole del vivere. La curva della «normalità» copre un segmento sempre più esile del mondo civilizzato, ma proprio per questo si barrica e alza fortificazioni verso ogni sintomo che possa minacciare la sicurezza del livello più condiviso di consapevolezza.
Vediamo di focalizzare alcuni segnali: il pensiero generale considerato positivo in quanto maggiormente condiviso si addensa sempre di più verso l’area della conservazione. È vero che la cosiddetta «fantasia al potere» è stata una grande delusione per tutti quelli che ci avevano creduto. Non esiste traccia di un pensiero eclettico, della leggerezza di chi sa passare sopra i pregiudizi, della comprensione del proprio prossimo per sincero e incondizionato senso di pietas e non per appartenenza ideologica. Soprattutto è scomparso quel bel sentire laico che è talmente risolto nella sua consapevolezza da essere rispettoso e persino curioso di ogni antitesi alla sua fiducia nel pensiero empirico e razionale. Oggi si contrappongono integralismi, oggi si tende alla semplificazione per paura di ogni complessità, oggi ritornano la paura e l’irrazionale a governare il pensiero di massa.
Ha suscitato grande, quanto breve, clamore mediatico la notizia della morte a Pesaro, per una semplice otite, di un bambino di sette anni. L’indignazione di popolo accese i riflettori sul medico omeopata che lo aveva in cura e che, invece di prescrivere un banale antibiotico che l’avrebbe guarito in poco tempo, gli somministrava zuccherini omeopatici condannandolo a una morte atroce causata dall’infezione che gli aveva compromesso il cervello. Il medico era pure un ex adepto di un gruppo che s’ispirava a sermoni di preti esorcisti e miti dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Si era cancellato dall’ordine dei medici, per anni aveva fatto il facchino, poi era tornato a indossare il camice e sembra che svolgesse con profitto il ruolo di curatore omeopata. Insomma, un perfetto rappresentante di quella «scienza alternativa» o «medicina dolce» che tanto piace agli analfabeti funzionali che guerreggiano con le loro tastiere e talvolta scendono in piazza a manifestare per rivendicare il diritto di farsi curare da persone come lui.
A seguito della morte del bimbo, però, l’avviso di garanzia è pervenuto non solo al medico omeopata, che ha ricevuto la visita dei carabinieri che gli hanno perquisito l’appartamento e sequestrato computer, telefoni, ricettari, farmaci, ma anche ai genitori del piccolo. La notizia non va liquidata come un caso isolato, perché è piuttosto il sintomo di una patologia sociale diffusa, da analizzare con cura.
Da quanto Marco Zonetti ricostruisce su «Affari Italiani»,1 la scelta dei genitori di affidarsi all’omeopata quasi santone non era stata casuale, ma frutto di una ben precisa, e molto condivisa, ideologia basata sulla superstizione e il disprezzo per la scienza. Dalle immagini pubblicate nel profilo Facebook del padre risultava palese una sua spassionata adesione a tutte le fantateorie complottistiche che oggi rappresentano l’alimento ideologico del neosciamanesimo tastierista. Nell’estrema pietà per quelle che saranno state le sofferenze del bambino morto, è importante riflettere su quale sia il livello di presa della social-fantascienza sulle coscienze di una fetta importante di italiani.
Non può più essere definito semplicemente come un fenomeno di analfabetismo funzionale, è molto di più. Si pensi solo al dramma di due genitori che vedono un bambino che si lamenta per giorni squassato da dolori indicibili e non lo portano in ospedale solo perché un signore, che vende loro acqua fresca come cura, assicura che dietro la scienza medica c’è un complotto. È lo stesso sintomo di deterioramento culturale per cui, nel medesimo periodo, nel Cosentino un padre ha tentato di strangolare un medico solo perché lo riteneva colpevole di aver provocato l’autismo del figlio vaccinandolo.2 Non possiamo più considerare un semplice fenomeno di folklore quello che sta profilandosi con i contorni di un vero e proprio integralismo religioso, molto più ottuso, spietato, oscurantista e ignorante. Un movimento di pensiero condiviso anche nelle fasce medio-alte della società, assai più pernicioso di ogni altra forma di regressione sociale collettiva conosciuta negli ultimi decenni.
È l’informazione scientifica gestita da analfabeti funzionali che continua a fare vittime. È una storia abbastanza sottostimata dalla stampa nazionale, ma è un segnale pericolosissimo di quello che sta accadendo nel clima generale di confusione e ignoranza diffusa rispetto alla medicina e alle evidenze scientifiche.
Non so quanti si aspettano che io, di fronte a tutto questo, continui a sbattermi per fare qualcosa. Da quando mi sono visto costretto a pagarmi un avvocato per cautelarmi dalle rimostranze dei tanti professionisti dell’autismo che si sentivano danneggiati da quello che dicevo e scrivevo, sto cominciando a pensarci su. Non mi sento la vocazione del Don Chisciotte, e ritengo che se in Italia esiste una comunità scientifica che vuole continuare a essere definita tale, cominciare a mettere dei paletti tra medici e praticoni è affar suo più che mio. Molti genitori come me, invece, ancora pensano che riuscirò a inventarmi qualcosa che possa aiutare anche loro. Altri, invece, credono che sia solo un chiacchierone che usa il figlio come una specie di fenomeno da portare in giro. Come fosse un Bigfoot catturato tra le nevi, o un King Kong in procinto di spezzare le catene.
Io ho smesso di dispiacermi per le incomprensioni con i miei «colleghi», nemmeno ho più voglia di replicare a quel settore di umanità contigua all’autismo che ha ancora voglia di difendere posizioni ideologiche sulle origini del problema dei loro figlioli, sulle terapie, sulla gestione quotidiana, su quella orribile zona ai confini della realtà che chiamano «dopo di noi». Sono ancora dell’idea che avrò un po’ di tempo utile per lavorare sul futuro di Tommy, mi sento in forze, cerco di non dare troppo peso ai sintomi fatali dell’età e di occuparmi il più possibile di analisi della contemporaneità, resetto all’istante ogni possibile tentazione di guardarmi alle spalle per ripescare scampoli di vita vissuta.
La diagnosi che mi ha definito qualcosa di autistoide mi ha veramente cambiato il punto d’occhio sulla vita. Innanzitutto ho deciso di indossare solo abiti che non mi accorgo di avere addosso. Un’amica se n’è accorta: «Che hai, la sindrome di Braccio di ferro?». Alludeva al fatto che, come Popeye, avessi addosso sempre la stessa divisa. Aveva notato che da mesi avevo sempre gli stessi pantaloni, le stesse scarpe, le stesse camicie. Non è che non mi cambio, anzi sono un maniaco della pulizia, ma sto acquistando abiti in serie. Quando indosso un pantalone e mi sento particolarmente a mio agio, ne compero due e, se mi trovo bene, subito altri due, prima che escano di produzione. Lo stesso vale per le scarpe: ho trovato un modello che non mi toglierei mai dai piedi. Ne ho quattro paia, uguali, salvo il colore che ha piccole variazioni. Questo vale per ogni capo di vestiario, comprese mutande, magliette, calzini (che metto poco).
Ciò comporta che stiano uscendo dai miei armadi tutti i vestimenti che magari una volta mettevo volentieri, ma ora non riesco più nemmeno a provarmi davanti allo specchio. Mi sono sgradevoli addosso e non li metterò mai più. Guardo ancora le mie foto passate e sorrido per la goffaggine con cui mi infagottavo di roba che non mi corrispondeva, magari seguendo le mode del momento, o alcune ritualità sociali. Io in grisaglia con camicia bianca e cravatta, io con giacche di tweed e il papillon, io con orribili pantaloni beige, io con spolverini, giacconi, cappotti… Infatti ricordo che non ero mai tranquillo, non vedevo l’ora di tornare a casa e togliermi quella roba di dosso.
Ora ho standardizzato la mia divisa. Da un anno circa indosso solamente una marca di jeans, cambia solo lievemente il tipo di lavaggio. Alcuni sono più scuri, altri più chiari. La prima volta che ne ho provato uno, me lo sono sentito perfetto, nemmeno occorreva accorciarli. Non troppo attillati, ma mi calzano come una seconda pelle, senza nessuna sgradevole pressione in vita o nelle parti basse. La settimana dopo ho dovuto subito comperarne un altro paio uguali per necessità di lavaggio. Ora ho un set di jeans uguali che mi consente agevolmente di portarli sempre. E pensare che per almeno vent’anni della mia vita non avevo più messo jeans, li giudicavo inadatti alla mia età, deridevo gli uomini maturi in jeans. Ma una volta ho cominciato a metterne un paio di quelli comperati per Tommy adolescente che gli erano diventati piccoli nel giro di un cambio di stagione e mi sono accorto che erano i miei pantaloni ideali, soprattutto perché sono più difficili a macchiarsi. Io ho sempre considerato un incubo le macchie sugli abiti: una macchiolina di pomodoro sulla camicia può rovinarmi una giornata, figuriamoci la patata fritta che cade sulla gamba mentre sei seduto a tavola…
Perché lo dico? Perché questa è roba molto da autistici. Lo so bene e l’ho imparato da Tommy; anche lui da anni è praticamente in divisa: pantaloni militari camouflage lunghi d’inverno, corti d’estate. Magliette vivaci o anche nere di cotone, purché abbiano scritte e marchi evidenti. Felpe sempre di cotone (odia la lana addosso, proprio come me; la lana pizzica, è fastidiosa, ha un cattivo odore e fa ribrezzo pensare che viene dalla pecora, che è piena di zecche). Pure le scarpe che porto le ho scoperte perché, dopo variegate sperimentazioni, sono quelle che più piacevano a Tommy. Rigidamente senza lacci, molto tecniche, interamente in cordura, lo stesso modello è indossabile in ogni stagione. Se guardate mie foto o il film che abbiamo girato, ho lo stesso modello di scarpa sia tra le nevi del Trentino sia in spiaggia in Calabria. Mi sembra meraviglioso. Il vantaggio di questa scarpa è che è un bel modello molto fashion e puoi indossarla anche con la giacca: sempre in cotone, sempre blu, sempre sfoderata; quelle estive e quelle invernali cambiano solo per la pesantezza della trama, per il resto sono identiche.
Mi viene in mente il famoso monologo di Bill su Superman prima che «La sposa» lo uccidesse con i cinque colpi delle dita che fanno esplodere il cuore:
Superman non diventa Superman, Superman è nato Superman … quello che indossa come Kent, gli occhiali, l’abito da lavoro … è il costume che Superman indossa per mimetizzarsi tra noi. … Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana.3
Ecco, gli autistici devono camuffarsi da umani per essere accettati, e la divisa da supereroe di Tommy sono maglietta, felpa e pantaloni mimetici. Io non ci faccio caso, perché lui gira sempre vestito da supereroe, sta a suo agio e per me non è un problema. Una volta sola mi sono accorto della sua capacità di essere anche Clark Kent: fu quando andammo a presentare l’anteprima del nostro film in Senato. Per l’occasione avevo rivestito Tommy da capo a piedi. Era la prima volta in vita sua che metteva giacca e cravatta, era indispensabile per il rispetto del rigido protocollo. Sembra impossibile, ma come si è messo l’abito blu che avevamo acquistato al volo per l’occasione è diventato un’altra persona, come se avesse capito che in quella circostanza a lui si richiedeva compostezza e osservanza del cerimoniale. Mi pento di non averlo mai vestito prima da «uomo», chissà perché continuavo a pensare che fosse un eterno ragazzino… Magari per lui sarebbe stato più facile «confondersi».