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Guai ai cervelli ribelli

Essere autistici è una condizione e non una malattia. Lo ripetiamo all’infinito quando leggiamo e ascoltiamo nefandezze del tipo «ammalato di autismo». Difendiamo a priori il fatto che ai nostri figli sia riconosciuto il diritto di essere come sono. Il nostro compito non è farli «guarire», ma piuttosto cercare di aiutarli a gestire il loro modo d’essere per poter convivere con persone diverse da loro.

So che questo «ammaestramento», come lo definiscono gli psicoanalisti che si sentono defraudati del diritto di occuparsi di autistici, e soprattutto delle loro madri, potrà suonare come un atto vessatorio anche alle orecchie di quegli autistici «ad alto funzionamento» che hanno perfetta consapevolezza della loro alterità rispetto alla maggior parte delle persone che hanno intorno, ma probabilmente non ritengono giusto doversi adeguare a regole sociali che non condividono.

Sta di fatto che anche loro potranno rivendicare quanto vogliono il diritto di esercitare liberamente la loro neurodiversità, ma quando poi dovranno lavorare, condividere un’abitazione, fare un viaggio, per quanto desidereranno assecondare il loro modo d’essere, dovranno tuttavia scendere a dei compromessi e imparare gli «usi» di quella tribù indecifrabile che sono i cervelli «regolari». Lo dice chi ne sa qualcosa… Credetemi.

Lo stesso, quindi, vale per quei nostri figlioli che da soli non aprirebbero nemmeno il frigorifero quando hanno fame. A meno che noi accettiamo che il loro destino finale sia l’internamento in un lager, come allo stato attuale dei fatti è ineluttabile che avvenga.

Più noi continueremo a combattere per la loro reale inclusione, più a loro toccherà comunque confrontarsi con una società composta da persone che sentiranno sempre radicalmente «diverse». Il nostro scopo sarà fare in modo che questa scelta, che noi riteniamo indispensabile, avvenga nella maniera per loro meno angosciosa. Non possiamo pretendere che cambino la loro natura per risultare più accettabili dalla dominante società neurotipica: sarebbe abominevole come chiedere ai neri di sbiancarsi la pelle.

Allo stesso tempo non dobbiamo farci illusioni. Anche la parte migliore e più accogliente dell’umanità che ci circonda si sentirebbe comunque fortemente destabilizzata da ogni cervello diverso, da ogni comportamento che riveli punti di vista eccentrici, rispetto al solco rassicurante del pensare condiviso.

È chiaro che sarebbe ora di iniziare a prendere atto delle differenze d’impatto sociale che provocano le varie manifestazioni della neurodiversità. L’esperienza genitoriale, in questi casi, è molto condizionata dal modello di figliolo che ci è stato dato in gestione… Ho notato che le famiglie si arroccano in posizioni che spesso creano dissidi con altri genitori, a seconda del livello di autismo con cui hanno a che fare, sia nella loro prole sia in loro stessi. Mi sento di poterlo specificare, e spero che questa autoannessione alla grande famiglia riguardi non solo me, ma anche quelli che pensano che la diversità dei figli sia da attribuire soltanto a cause esterne, come se l’autismo del figlio nulla avesse a che fare con la propria equazione personale.

È noto che ci siano, nei casi più difficili, figli che non parlano, non hanno autonomia; figli che ci picchiano, che si fanno del male, che distruggono, che urlano. Quanto pure, al contrario, figli capaci di verbalizzare, fare ragionamenti molto complessi e persino inquietanti. Fino a quelli che presentano solo delle piccolissime difformità nei comportamenti, nella lettura, nella scrittura, nel parlare, ma che non vanno considerati «fortunati» perché anche in loro è presente lo stigma dolorosissimo che quella difformità segna comunque sempre nella loro vita sociale e affettiva.

Per avere esperienza simultanea di questi due stati mi sono dovuto trovare non molto tempo fa nello studio del mio amico Gigi, neuropsichiatra infantile. Mi ero portato Tommy perché il giorno prima aveva passato un brutto momento, era rimasto chiuso in un ascensore assieme all’amico Bobone, un’insegnante di disegno e il fido Marco, vegano tatuato che non lo molla un minuto. Tommy, intuendo l’ansia degli altri per il blocco a metà di due piani, ha sbarellato e ha cominciato a menare a man bassa chiunque. Considerato che era una cabina di quelle di vetro anni Venti e il rischio di tragedia era imminente, Marco l’ha messo a terra e lo ha immobilizzato, finché sono arrivati pompieri, barella e varia gente urlante. Alla fine volevano portare via Tommy, che comunque si è dovuto far stendere in ambulanza per misurare la pressione.

Il giorno dopo era schizzato e l’ho portato da Gigi, nel cui studio ha ripetuto il comportamento problema: si è accapigliato con me, una sua manata ha fatto un buco sulla parete in cartongesso, poi sono riuscito a farlo stendere, ma lui si è spogliato tutto nudo e passeggiava con lo spadone in mano. Insomma, quanto è bastato per farmi venire immediatamente una gastrite soffocante. Pensavo che episodi del genere appartenessero al passato, invece no…

Ecco che allora bisogna provare un nuovo farmaco, di quelli tosti che richiedono il piano terapeutico. Perciò, ancora una volta, in fila come un drogato per il metadone a farsi dare il permesso scritto per poter acquistare la bomba per demolire tuo figlio picchiatore e far rinascere quel pupone svagato che almeno non mena e non fa l’esibizionista.

Se accadesse qualcosa del genere a scuola, sarebbe una tragedia: già è difficile farlo accettare, figuriamoci se si fa la nomea di violento o sessuomane. C’è caso che lo caccino anche prima del termine fatale. E la mattina, io che gli faccio fare?

Questo pensavo quando è irrotta nello studio una madre che faceva un corso nell’aula attigua. Era piuttosto confusa, si voleva confrontare su alcuni problemi che le procurava il figlio coetaneo di Tommy, ma ad altissimo funzionamento. Un ragazzo che si è diplomato, che parla, che ha la passione del cinema e ha già fatto un documentario tutto da solo, un ragazzo che ha passato da poco un periodo all’estero senza che nessuno l’accompagnasse. Una situazione fortunata, si penserà, un passo avanti rispetto a Tommy, almeno nella gestione.

Macché, quella madre era disperata: il figlio non le parlava, non le diceva nulla di quello che faceva, anzi minacciava di continuo lei e il padre, tanto da farla disperare per l’impossibilità di recuperare un filo di comunicazione con lui. Nulla di nulla, quello se ne stava asserragliato in camera o usciva senza dire dove andasse o chi vedesse. La donna non si dava pace…

Ho avuto sentore di un rovello comune tra me e lei, perché gestiamo due persone dai comportamenti molto differenti, ma entrambe incasellabili in un’unica grande famiglia sin da quando frequentano le elementari.

Parlino o non parlino, abbiano una diagnosi di basso funzionamento o di alto, sono comunque quelli che hanno il cervello che gira diversamente, quelli che seminano inquietudine negli insegnanti, spesso incapaci di gestirli, quelli che in classe comunque rischiano maggiormente di essere bullizzati, prima dai compagni con i cervelli perfetti, poi dai genitori dei compagni che si pongono il problema della loro esistenza solo quando realizzano che un autistico in classe potrebbe rallentare l’apprendimento dei propri figli.

Queste ansie dei genitori dei bravi ragazzi cominciano di solito ad apparire nei gruppi WhatsApp, ma il passo successivo è scrivere petizioni al dirigente scolastico, minacciando il ritiro dei propri figli dalla classe, perché c’è troppa follia contagiosa per un tranquillo futuro, nella totale ortodossia cerebrale, dei loro piccoli.

Pensare che se invece ci fossero insegnanti illuminati, quei pensieri balzani, quei comportamenti irregolari dovrebbero essere elementi di attenzione per tutta la classe, dovrebbero essere considerati oracoli, non minorati. Tra quei cervelli ribelli ci sarà chi riscriverà di sicuro parte dei libri scolastici che gli altri oggi devono imparare a memoria, per appiccicarsi nella testa quanto basta per avere la patente di cittadini dell’umanità che pensa bene, ma non produce pensiero.

Nella porzione di storia che sto vivendo nel mio paese mentre scrivo, mi viene da dire che viviamo nel tramonto del rischio di un forte pensiero antagonista che possa creare disordine e confusione nei valori che trasmette, o dovrebbe trasmettere, la scuola. Gli unici a esprimere un dissenso, seppur quasi sempre muto, o non articolato in un comportamento condiviso tra persone affini, sono proprio i neurodiversi, unici cervelli ribelli rimasti a testimoniare un punto di vista costruttivamente sovversivo, nel panorama omogeneo provocato da un unico frullato di tutte le ideologie passate che oggi è rappresentato dalla politica. Un mix di frutta mista le cui possibilità di divergenza tra ottiche opposte è rappresentata dalla percentuale di zenzero presente nel beverone.

Questo è uno dei tanti motivi per cui fanno paura i «cervelli ribelli»? Ne fanno moltissima, a tutti. Nulla destabilizza l’assetto sociale quanto i pensieri inclassificabili, almeno nelle più consuete interpretazioni del reale. Il focus collettivo che si sta espandendo sulla condizione autistica (che qui intendo nella sua più vasta e multiforme espressione possibile) è significativo di un’inquietudine generale verso i sintomi autistici, quasi si paventasse l’inizio di una temibile sovrascrittura evolutiva sulle caratteristiche più emotivamente viscerali della condizione umana.

Se potessi esprimere un paragone per far capire come possa sentirsi oggi un genitore che voglia sostenere i sacrosanti diritti negati di un figlio neurodiverso, potrei azzardare che è lo stesso stato d’animo di quei tanti genitori «normali» che negli anni di piombo scoprivano di avere un figlio assassino o terrorista solo quando questo era arrestato, quindi increduli provavano comunque a organizzare una macchina di difesa per togliere il figlio dal carcere, o alleviarne la pena. Questi genitori sentivano sempre e comunque sulle spalle il peso del giudizio altrui, che assimilava l’uscita dalla regola dei figli a una probabile sregolatezza nascosta nei padri e nelle madri. Non prendiamoci in giro, siamo nel paese del «tale madre tale figlia», se si vuole addebitare a un’intera linea di sangue femminile qualsiasi segnale interpretabile come sintomatico di affocatezza carnale. Come pure per ogni maschia sregolatezza si cerca sempre di risalire a un padre che qualcosa abbia sbagliato o qualcosa di sbagliato si porti nel corredo di geni che lascia in eredità ai successori.

Saremmo visti con minore sospetto e diffidenza, sia noi che i nostri figli, se avessimo generato delle chimere, piccoli minotauri, graziosi gattini antropomorfi, simpatici cucciolotti che scodinzolano e camminano eretti come Pippo. L’umanità allo stato attuale della sua consapevolezza avrebbe maggiore attitudine a considerare umanizzabili gli animali che a mettere in discussione i processi neurologici tipicamente condivisi. Persino le punte più scaltre della nostra classe politica hanno capito come sia più redditizio fare campagne di propaganda per sostenere le spese di mantenimento di un animale domestico che attivarsi concretamente per rendere la vita migliore a umani neurodiversi.