VI
Grullautistici contro genialoidautistici?
L’autismo è un universo multiforme e complesso. Provo a rappresentare questa caratteristica dell’umanità come la vedo io: collochiamo l’insieme delle persone con autismo che frequentiamo o conosciamo all’interno di un cerchio in cui stiano una accanto all’altra e mettiamo che in un punto qualsiasi sia collocabile la posizione di Tommy, autistico a basso funzionamento, non verbale.
Considerato che la gradualità dei segnali autistici è differente per ogni persona del cerchio, sarebbe impossibile disporli in un ordine che tenga conto di un’ipotetica scala di «gravità». Ci sono autistici tosti, senza dubbio, che è facile collocare nelle posizioni centrali, ma anche in quelli dotati di maggiori capacità cognitive, quelle relazionali risultano compromesse, anzi immagino, ma ora che sono diagnosticato posso dire di esserne sicuro, che la maggiore consapevolezza del proprio stato diventi un ostacolo ancora più grande al sentirsi parte dell’umanità. La prima impressione dopo aver ricevuto «la patente» è proprio di intendere quella diagnosi come una sorta di salvacondotto, un’autorizzazione a non porsi più limiti. Quelle forzature che ogni giorno si devono mettere in atto per convivere con il proprio prossimo, sembrano diventare di un peso insopportabile. Di conseguenza si comincia a esagerare, si accentua quello che si pensa essere parte della propria natura, e immagino che funzioni così anche per tutti quelli che, dopo aver pubblicamente dichiarato la loro reale inclinazione sessuale, si sentono più liberi anche di cambiare il modo di comportarsi, di acconciarsi i capelli e di vestirsi.
Chiaramente, l’autistico può dichiararsi tale solo se appartiene alla fascia di quelli ad alto funzionamento, mentre per gli altri l’autodefinizione sarebbe una contraddizione in sé, ed è quindi più facile per l’autistico consapevole euforizzarsi per ciò che potrebbe sembrare un superpotere: quell’impaccio che avvertiamo nel rapporto con gli altri ci piace immaginarlo come la necessità di nascondere la nostra vera natura di supereroe, quasi fosse la nostra identità segreta.
Sembrerà un’esagerazione, ma, credetemi, non capita così spesso di trovarsi tra le mani una formula che sia in grado, a torto o a ragione non importa, di risolvere tutte le equazioni esistenziali che avevamo lasciato in sospeso, vedi rapporti familiari, professionali, affettivi, ecc. Allo stesso tempo, non esiste un doping più efficace per l’autostima che sentirsi in diritto di dire e fare quello che più ci piace rispetto ai nostri impegni sociali usando la semplice formula magica: «È così perché sono autistico!».
Serve un minimo di tempo e parecchio autocontrollo per non buttarsi nell’ubriacatura che deriva dal sentirsi matti patentati. È però un dato concreto che la consapevolezza di essere capaci di elaborare pensieri e ragionamenti complessi ma «eccentrici» aumenta l’impatto potenziale sul nostro prossimo. Di questo nostro necessario modo d’agire dobbiamo imparare a fare virtù: più riusciamo a gestire in maniera non distruttiva il nostro essere «sfrontati», più diventa facile essere «tollerati» nella società neurotipica. Tutti i cervelli ribelli che la storia, anche recentissima, ci consegna come innovatori sono quelli che hanno saputo mettere a frutto la loro diversità, invece che trincerarsi in un nascondiglio. Non si parlerebbe di Batman se fosse rimasto sempre chiuso nella Bat Caverna a smanettare sulla playstation assieme a Robin. Che c’entra Batman? Secondo voi, un signore benestante che si veste con un costume da pipistrello ha un cervello normalmente strutturato? Bruce Wayne, anche lui orfano guarda caso, riesce a dare un senso alla sua singolarità combattendo il crimine, piuttosto che vivere di nascosto la sua ossessione segreta per i pipistrelli.
Il mondo dei cervelli fatti in serie non chiede di meglio che rinchiudere il neurodiverso in un recinto, per difendersi marginalizzando proprio chi, con capacità di argomentazione «irrituale», potrebbe minare i princìpi fondativi della sua egemonia.
Oggi mi dicono sia diventata molto frequente la richiesta spontanea di una diagnosi di autismo da parte di persone già avanti negli anni. C’è molta più conoscenza generica sulla neurodiversità rispetto a solo pochi anni fa, ma non altrettanto sedimentata è una cultura equivalente, e quindi potrebbe cominciare a diventare preoccupante il dilagare dell’idea che la patente di Asperger possa corrispondere a una sorta di attestato di genialità.
Può capitare di leggere accesi dibattiti in gruppi Facebook tra persone neurodiverse dichiarate che si rinfacciano il reciproco QI, con sfide a «tirarlo fuori e farlo vedere» che tanto somigliano all’antico confronto maschile su chi l’avesse più lungo.
Di conseguenza si allarga ancora di più la forbice tra le due grandi categorie di un medesimo modo d’essere. I matti del tipo Tommy e dintorni continueranno a essere considerati matti, anche se con definizioni più ammorbidite, formalità che in sostanza cambiano ben poco del loro destino a finire rinchiusi. Per loro, al massimo, si può conquistare uno spazio di dignità che salvaguardi la loro serenità e il loro diritto di trascorrere una vita il più possibile soddisfacente. Questo che potrebbe sembrare un obiettivo minimo, in realtà è la montagna che ogni genitore tenta di scalare con immensa fatica e scarsi risultati tangibili.
Poi ci sono gli altri, gli strambi, i chiacchieroni, gli introversi, i fissati, gli asociali, i nerd, i geni matematici. È una popolazione immensa e sempre più mimetizzata dietro funzionamenti mentali che permettono di trascorrere vite, solo all’apparenza, abbastanza normali.
Continuando nella metafora del girotondo degli autistici, se includiamo anche questi ultimi dovremmo metterci dentro, secondo me, una parte cospicua delle persone che siamo abituati a considerare «normali», al massimo portatori di qualche stranezza caratteriale.
Be’, tra questi c’ero anch’io, considerato estroso, originale, ma non certo portatore sano di una diagnosi di mezzo matto, per cui se mi accanissi potrei persino provare a chiedere che mi siano applicate le garanzie della 104.1 Immagino che la gradualità dell’«essere autistici» sia rappresentabile come un impulso elettrico che attraversi tutte le persone del cerchio, valutando che l’intensità di corrente sia avvertita da ogni componente della catena umana in maniera proporzionale alla propria «resistenza» alla normalità. Se potessimo misurare quello che ognuno sente di fastidio o dolore, potremmo considerarlo come una scala equivalente alle sollecitazioni che subisce nel suo quotidiano, che di conseguenza provocano reazioni e comportamenti diversi a seconda della posizione occupata dal soggetto in questo nostro ipotetico girotondo.
Tradotto in termini «operativi», questa situazione «fluida» nelle persone autistiche impedisce di elaborare modelli di vita personalizzati che vadano bene per tutti. Quindi le richieste di ogni genitore sono calibrate sul «suo» problema di famiglia.
Se per me la richiesta che considererei «un sogno» per Tommy è una concreta città dell’utopia, pensata e progettata per la serena osmosi tra cervelli ribelli e cervelli «che va bene come va», per altri con figli più intelligenti, e soprattutto in grado di sostenere una conversazione, è quella di un inserimento lavorativo in un ambiente protetto, la speranza di una vita autonoma il più possibile felice, ecc.
Per altri ancora che sono in quello spettro, ma non lo sanno, la richiesta non viene espressa, non è ascrivibile a un’associazione, a un gruppo di pensiero, anzi proprio perché sono autistici non riescono nemmeno a farsi accettare per quello che hanno di diverso. Magari si assemblano inconsapevolmente, ritrovandosi a condividere interessi comuni, professioni particolari o a coltivare predisposizioni artistiche di vario tipo.
Tutto questo s’immagini non con i limiti di un girotondo in una piazza, ma piuttosto come un’interminabile catena umana che si snoda ovunque, entra in ogni quartiere, in ogni casa, in ogni luogo dove ci siano persone.
Chi mai altro dovrebbe prendersi a cuore un problema simile? Perché mai dovrebbe essere percepito come oggetto di riflessione generale il fatto che anche i cervelli ribelli dovrebbero avere dignità di cittadinanza, in qualsiasi gradualità questi dovessero presentarsi? È persino difficile far percepire come un problema il diritto all’inclusione di autistici il cui disagio è evidente come quelli del tipo Tommy, che alla fine si vedono in giro per un periodo molto limitato della loro vita. «Tollerati», nella migliore delle ipotesi, il loro destino è tuttora e fatalmente quello di dissolversi. Spariscono, non si vedono più, la società si dimentica prestissimo della loro esistenza. Restano piombati nelle mura di casa, finiscono rinchiusi da qualche parte, o a sorreggere la gloria dei «fondatori» di strutture modello, che alla fine stanno alla vita reale come un’esposizione dell’Ikea sta alle case in cui viviamo.
Quelli invece capaci di parlare, che possono anche essere sorprendenti nei loro ragionamenti, dovranno comunque vivere sul filo di un rasoio, con sempre maggiori possibilità di farsi male in ragione del livello di socializzazione in cui dovranno impegnarsi.
Fino a questo mio momento di consapevolezza consideravo poco questa fetta dell’autismo dei cosiddetti «ad alto funzionamento». È comprensibile, immagino che possa sentirmi assolto per questo. Provate a immaginarvi come possa porsi problemi per una persona apparentemente nella norma il genitore di un figlio che, se non si attiva lui, potrebbe passare l’intera giornata steso su un divano con l’iPad in mano.
Nel mio specifico caso di genitore che, suo malgrado, è diventato un «testimonial» dell’autismo per la sua specifica attività giornalistica, è veramente difficile entrare in empatia con genitori con problemi simili ai miei, ma che mi guardano con sospetto o addirittura con ostilità solo perché, secondo loro, la mia è una lettura parziale dell’autismo che potrebbe creare dei problemi ai loro figli con vite ed esigenze molto diverse da quelle di Tommy.
Una volta ho passato un’intera domenica mattina a chattare con una madre che mi aveva pesantemente insultato in alcuni commenti a un mio articolo e alla quale avevo chiesto ragione della sua violenta reazione. Ho così capito che esiste un fronte esteso di famiglie che hanno una visione molto diversa dalla mia dell’autismo che le coinvolge.
Io mi sono sempre schierato dalla parte della denuncia di ogni disfunzione o malessere sociale, e ancor meno mi rassegno alla condanna di ragazzi come Tommy all’invisibilità. Altri genitori, al contrario, hanno come scopo il rendere meno visibile possibile il discrimine che separa i loro figli dalla società neurotipica.
Più io davo la parola a genitori con esistenze massacrate da una gestione difficilissima e dolorosa dei loro figli autistici, più questo è stato visto con fastidio da chi vorrebbe che la parola «autismo» fosse ammorbidita, soprattutto smettesse di pesare come uno stigma su persone che potrebbero, comunque, avere vite con livelli di autonomia molto più ampi. Probabilmente dal loro punto di vista hanno ragione, non discuto e non pretendo attenzione ulteriore da chi ha già i suoi problemi, ma chiedermi la sordina no… Forse sarebbe meglio se smettessimo di considerarci tutti una grande famiglia, includendo nella categoria di «autistico» persone che in realtà sono molto diverse.
La disputa si accese quando pubblicai la lettera con foto di una madre che era stata realisticamente «scalpata» dal figlio autistico molto grave e ultraventenne, che era stato colto da una crisi oppositiva mentre lei guidava. Per averlo fatto fui attaccato in maniera violentissima, anche se era stata la madre a chiedermi esplicitamente di pubblicare la foto di lei scotennata.
Voleva denunciare il suo essere totalmente sola, senza alcun tipo di supporto e, soprattutto, senza nessuno reperibile su piazza che avesse competenze specifiche per poter attuare un intervento efficace a gestire i problemi oppositivi di suo figlio. Si trattava di un autistico maggiorenne pieno di stereotipie molto invalidanti, che però per tutto e tutti era «guarito» dall’autismo e quindi non meritava specialisti che potessero aiutarlo. Per lui c’erano al massimo generici prescrittori di farmaci, camicie di forza chimiche buone per tutti, e nulla più.
Mi sono reso conto di aver scatenato nella persona indignata con cui avevo chattato un magone indicibile, una rabbia profonda condivisa da molte altre persone, tutte con figli autistici ad alto funzionamento. La sintesi dei suoi discorsi era un invito a smetterla di raccontare in maniera così realistica gli aspetti più crudi dell’autismo:
La prego di finirla di innescare tifoserie fra grullautismo e genialoidautismo, perché altro non fa che indebolire i diritti di tutti e negare i bisogni di chi, considerato più fortunato di altri, rischia di essere abbandonato nel limbo delle sue non autonomie di sopravvivenza.
La prego di contenere la voglia narcisistica di esporre i propri scalpi come trofei perché generano terrore innanzitutto in quelle famiglie che intraprendono il viaggio nell’autismo con i loro bambini prospettandogli un’invivibilità della malattia pericolosissima.
Io non so dov’era lei quarant’anni fa quando da quei manicomi iniziammo a tirar fuori internati. … La superficialità di chi non capisce che, generando senso di impotenza anziché complicità sociale attraverso strumenti attivi, l’unica soluzione e prospettiva sarà la riapertura di quei manicomi e questa volta con i nostri figli dentro.
Ho capito che esiste un problema di base di assai difficile risoluzione. L’autismo non è uno solo e tutti lo sappiamo, ma tra le mille difficoltà che questa circostanza comporta, c’è anche il fraintendimento di base di quando s’inizia a parlare di autismo attraverso un network o un prodotto editoriale potente, e non solo in piccoli circoli chiusi e soprattutto «omogenei». E questo indubbiamente io faccio da anni, riuscendo a farmi sentire più di altri perché comunicare è il mio mestiere da sempre e, senza falsa modestia, conosco bene i meccanismi per rendere efficace il mio lavoro. Non è una colpa, dovrebbe anzi essere considerato un vantaggio per tutti.
Ho capito però il problema: la mamma di un figlio collocato in una porzione dello spettro dell’autismo diversa da quella che io rappresento teme che il prevalere di una visione parziale possa appannare la posizione di altre persone (come suo figlio) che hanno difficoltà di sicuro gravissime, ma differentemente rappresentabili. In sintesi, ogni volta che mi esprimo vengo già identificato come portatore degli interessi di «una parte» degli autistici, non della loro interezza; e se io «rivelo» che alcuni autistici possono avere anche comportamenti eteroaggressivi, rischio che rimettano tutta la banda in manicomio, senza guardare in faccia a nessuno.
In quest’ottica, è chiaro che più mi sforzo e più sarò guardato con ostilità da parte di chi si vede erodere attenzione per causa mia. Me lo scrive con disarmante sincerità quella madre alla fine della sua chilometrica chat:
Non si devono fare gare per attirare l’attenzione ma puntare sui bisogni diversi e far muovere lo stato per questo non per differenze di gravità. Se no rischiamo la guerra. Una guerra che già sta dividendo i disabili gravi e gravissimi. Se lo facciamo anche fra autistici è la fine.
Allora ne presi atto ma mi arrabbiai, perché lo vidi come un tentativo di censurarmi o di pretendere che abbassassi la guardia nella difesa dei diritti di Tommy e degli altri, solo perché a una parte delle famiglie potrebbero venire le paturnie e le gelosie.
Oggi la vedo molto diversamente: oggi mi sento di poter riflettere con maggiori elementi su quale potrebbe essere il pensiero di quei ragazzi neurodiversi di fronte a genitori così avvolgenti.
Cresceranno, quei ragazzi, e continueranno a pensare che la soluzione di vita migliore per loro possa essere quella di restare in penombra, cercando una «morbida» via di accettazione da parte di un mondo che ragiona in maniera diversa da loro. Per sopravvivere il più possibile sereni, dovranno passare la vita a inerpicarsi su pareti rocciose a mani nude? Inventarsi stratagemmi per compensare quel dislivello ed essere considerati «socialmente accettabili»?
Oppure, al contrario, la rivoluzione è già iniziata. Mentre noi stiamo qui a segnare con un gessetto i confini tra differenti autistici, ma solo per capire cosa sia meglio fare per noi genitori, forse autistici di generazione più avanzata, al punto tale che i genitori se li sono lasciati salutarmente dietro le spalle, stanno già occupando il loro posto nella società in continua mutazione.
Mi piace pensarlo, e vorrei davvero che una scossa dalla stagnazione in cui vedo languire l’innovazione nel mio paese venisse dall’azione salutare di tanti «cervelli ribelli» che vivono e operano tra noi e aspettano solo l’occasione per farci vedere quello che sanno fare. Un po’ come la stirpe aliena dei «rettiliani» di cui favoleggia un filone fantanarrativo del più immaginifico catastrofismo social condiviso.
So che Tommy non sarà tra loro, e me ne dispiace, ma sia io che lui siamo due modelli di passaggio, dei prototipi che forse serviranno ad altri per vivere meglio. L’importante è che ci siamo riconosciuti e che io abbia capito, anche se in età avanzata, quanto possa essere leggera l’esistenza senza il fardello costante dell’angosciosa necessità di vivere sempre in ragione dell’indole del proprio prossimo, che quasi sempre si manifesta attraverso segnali così frastagliati e ambigui da non sembrarmi quasi mai abbastanza rilevanti per essere presi in considerazione.