XII

Padri assassini

Spesso si legge che qualcuno, alla fine, lo fa veramente. Sono stati tanti a strozzare, scannare, affogare la persona per cui si è consumata ogni energia. È un pensiero crudele, ma assicuro chi legge, e magari s’indigna, che ci accompagna con costanza. A volte saltella dietro le nostre orbite come un’emicrania. Altre, invece, ci sembra persino impossibile averlo lambito, quando ci capita una di quelle belle giornate in cui lui è tranquillo e magari ti sorride pure, o ti tiene una di quelle sue manone appoggiata sulla fronte, in una carezza che ti fa sprofondare.

Almeno che io sappia, non sono malato terminale, non sono stato incarcerato innocente, non ho subìto stermini familiari, disastri economici. Nemmeno ho mai avuto la delusione di vedere crollare ideologie in cui m’identificavo, sbriciolarsi pezzi di società in cui ero parte. Non ricordo d’importanti eclissi sentimentali, amori intossicanti, tradimenti lancinanti. Direi una percentuale di sfiga assolutamente nella norma, nulla di epico, comunque, o da farne materia di racconto memorabile. Almeno, questo io sento.

Tutto il mio problema alla fine è stato avere un figlio autistico, a cui un giorno qualcuno cercherà di spiegare che io sono morto. Per lui quello sarà il giorno del giudizio universale, il cosmo che lui conosce potrebbe tracollare come inghiottito da un buco nero.

Saremo così, più o meno nello stesso istante, entrambi rapiti da oscurità diverse.

Quella che sarà la mia oscurità postuma, nessuno l’ha mai raccontata per esserci passato. Posso quindi anche immaginare angeli sulle nuvole e altra robina, forse noiosa, ma sempre meglio che pece, fuoco e forconate nel sedere.

Di quella tenebra in cui cadrà mio figlio, senza punti di riferimento familiari come stare con me a «casa papà», invece io so molto. Lo so per aver visto quell’oscurità che fora i timpani baluginare anche negli occhi di altri esseri silenziosi come lui. Persone destinate alla sopravvivenza in un limbo di pensieri insondabili, in perenne attesa di ritrovare un filo che possa riallacciarli a dei frammenti di mondo familiare. Poche cose; come una finestra che affacci su un trancio di muro conosciuto, una voce distinguibile, l’odore di una persona il cui abbraccio sia sopportabile.

Mi è stato chiesto dal mio giornale di scrivere un commento della vicenda dell’ennesimo padre che ha ucciso il figlio autistico soffocandolo nel sonno, per poi tentare il suicidio. Ne ho scritto perché di quell’uomo avevo sentito parlare da persone che lo frequentavano prima della tragedia: era un uomo solo e allo stremo con un figlio di difficilissima gestione. Ho semplicemente scritto che dietro quel gesto c’è un pensiero molesto che ogni tanto è passato per la testa anche a me, come pure tutte le persone nella mia condizione mi hanno detto di averlo pensato almeno una volta. Qualcuno dei lettori ha definito raccapricciante il mio pensiero, quasi fosse interpretabile come una giustificazione dell’omicidio di un figlio disabile, ma è chiaro che noi lo diciamo perché mai ci succeda. Percepiamo che esiste sempre qualcosa di orribile alla base di ogni rassegnazione, quindi tiriamo fuori quello che pensiamo sia il fondo più oscuro dell’abisso, lo facciamo per incoraggiarci a vicenda per continuare a combattere, ogni giorno con il coltello tra i denti, ogni giorno capaci di inventarci qualcosa.

Non mi riesce tuttavia d’abbandonarmi al pensiero di cosa possa accadere al mondo di mio figlio Tommy quando io non ci sarò più. L’immagine che prevale è lo scenario di Inception,1 in cui le città implodono, tutto crolla, si rovescia, si avvolge in se stesso. È quel film con Leonardo DiCaprio, che con un’indescrivibile diavoleria s’innestava nelle menti altrui, condividendone la vita onirica e condizionandola. Per farlo doveva naturalmente entrare anche lui in una dimensione di sogno. Per non perdersi nel sogno di lui che sognava un altro che sogna, doveva concentrarsi su un oggettino familiare che lo riportasse alla realtà: «il totem». Ecco, io penso di essere il totem di Tommy: se mi perde, il mondo potrebbe per lui sgretolarsi come accadeva a DiCaprio quando si perdeva nel sogno dei sogni.

Non è una bella cosa essere trafitti dall’angoscia quotidiana, solo perché un figlio è naturalmente destinato a sopravviverci. Perché non è concesso che per lo meno ci si possa liberare da un rovello che abbiamo tutti. È vero, per questo spesso alluciniamo la tentazione di sperare che la vita per entrambi finisca nello stesso istante. Non sembri una bestemmia, il pensiero arriva quando siamo sopraffatti dall’immaginare quale apocalisse sarebbe per lui vedere improvvisamente scomparire il mondo a cui era abituato, solo perché noi siamo morti. Potrebbe sembrare sicuramente un abominio agli occhi di tutti quelli che augurano ai propri figli una vita più lunga possibile. Quelli che, fortunati, vivono con rammarico anche il normale conflitto con i figli cresciuti che ti danno del rimbecillito e reclamano, anche con strafottenza, la loro autonomia.

Ogni simile pensiero, inquietante proprio per non essere attribuibile all’esperienza maggiormente condivisibile, è classificato come «follia». Anch’io l’ho frettolosamente giudicato sempre come tale, solo ora ci sto ripensando con una percezione diversa. Non credo che i genitori anziani di neurodiversi pensino unicamente ai problemi materiali del figlio quando non potranno essere più loro ad accudirlo. Sarebbe limitativo della complessità di questa costante ossessione. Noi pensiamo molto più profondamente che, anche se fossimo certi che lui sarebbe comunque seguito alla perfezione per ogni ora della sua giornata, resterebbe comunque ostaggio di un mondo popolato da esseri alieni. Immagino che questa riflessione la faranno non solo i genitori dei cosiddetti «bassi funzionamenti», come Tommy appunto, ma anche quelli che hanno figli che parlano e sono capaci di articolare ragionamenti complessi. Anzi, sono proprio loro che si potrebbero sentire più consapevolmente esposti a un’epurazione radicale dalla società neurotipica per il principio di eccentricità contaminante di cui sono portatori.

Io posso anche illudermi che Tommy potrebbe essere abbastanza sereno se avesse nell’ordine:

  1. casa papà
  2. iPad
  3. piscina
  4. pizza rossa, patatine, supplì, gelato fragola cioccolato
  5. La Sirenetta della Disney in dvd
  6. una camera con la porta e un letto comodo per «rilassarsi»
  7. una sedia girevole da ufficio per fare il dervisho (leggi drogarsi)
  8. qualcuno che lo porta a spasso in auto, treno, aereo, barca.

Alla fine, paradossalmente, sono beni di consumo abbastanza semplici da procurare; se a questi si aggiunge una sorveglianza attiva e costantemente «abilitativa» che stimoli anche la sua socialità e autonomia, potremmo concludere che la soluzione del «problema Tommy» è solo questione di budget. Io, però, parlo come se il problema generale fosse la sua felicità. Figuriamoci, di Tommy ci si accorgerà quando entrerà nella sua fase produttiva, suo malgrado naturalmente, allora sarà misurato come un valore sociale quando lui corrisponderà a una retta, e varrà esattamente quanto la cifra mensile che verrà corrisposta a chi ha come core business la presa in carico dei cervelli diversi. Non mi venite ora a mostrare gli esempi eccelsi, sono pochi e non riproducibili. La stragrande maggioranza dei disabili psichici ha l’ineluttabile destino di finire nelle mani di organizzazioni pagate per renderli inerti, come fossero rifiuti tossici da stoccare in sicurezza, perché non inquinino l’ecosistema. La procedura è tollerata, non se ne parla, ma chi dovrebbe preoccuparsi del progressivo spegnimento in vita di menti che non hanno legami, se non con i loro genitori? Pensate quanto vi manca alla solitudine totale, vale a dire alla scomparsa di chiunque vi abbia a cuore: dovrete comunque fare i conti con varie persone, parenti stretti, amici, affetti, relazioni. Qualcuno che prenda in carico la vostra esistenza esisterà pure. Invece gli autistici di quelli tosti, intendo quelli come Tommy, nascono già orfani, ma per paradosso hanno solo dei genitori su cui contare veramente.

Penso a come mi sentirei io se dovessi ancora fare affidamento sui miei genitori: come ho detto, da troppi anni ho calato una saracinesca sulla loro esistenza, e non riesco nemmeno a immaginare di dover loro chiedere qualcosa e che da loro possa dipendere la mia sopravvivenza. Questo lo pensavo anche all’età di Tommy? Forse no, ancora stavo in famiglia, anche se con enormi e quotidiani conflitti. Però pensavo sempre che un giorno, come poi è accaduto, me li sarei lasciati alle spalle.

Chissà se Tommy nei suoi pensieri ha già elaborato l’idea che io appartenga al suo passato? Come lo vorrei… Come mi piacerebbe poter intuire che Tommy riuscirebbe a vivere felicemente senza di me. Invece no, resto qui imprigionato nel nostro tempo comune di padre e figlio incatenati nella stessa dimensione. Ci unisce lo stato di perenne osservazione del mondo in cui siamo capitati, a cui ci sentiamo di appartenere solamente in quei pertugi di tempo in cui possiamo essere sereni, sia soli che abbracciati ai pochi umani respirabili, quelli che non ci fanno prudere i polpastrelli quando li sfioriamo, perché li percepiamo solo come sacchi di organi molli che noi sentiamo sotto la loro pelle appiccicosa, o i loro abiti cuciti con stoffe senza estro e piene di tessuto sintetico.