VII

Il Gigante di ferro

È una vita che molti di quelli che mi ascoltano alla radio e non condividono quello che dico, o alcuni dei punti di vista che esprimo, mi scrivono: «Tu devi farti vedere… Ma da uno bravo…». Ora li ho presi in parola e sono andato finalmente a farmi vedere. È stato un impeto maturato in pochi giorni e messo in atto all’istante, ma ripensandoci a distanza di un paio di mesi mi sembra strano che abbia deliberatamente passato ore e ore a farmi sconquassare la testa senza che nessuno me l’avesse prescritto.

È ancora più lontano da tutto quello che ho sempre sostenuto il fatto che abbia accettato di ragionare con uno psichiatra degli aspetti più riservati della mia vita, come dei pensieri che giudicavo appartenere solo a me. Infine è paradossale, per le mie abitudini, che mi sia sottoposto a tutta quella sequela di test storici che ho già citato, tipo VAIS, Minnesota, macchie di Rorschach, più altri giochini con cubetti o figure di legno. Mentre lo facevo, a un certo punto ho persino ricordato che mi stavo sottoponendo a prove su cui ho sempre sorriso e ironizzato.

Ai tempi in cui lavoravo nell’azienda di servizio pubblico radiotelevisivo, in una fase «avveniristica» dei responsabili delle risorse umane, fu introdotta, anche se con ritardo di anni rispetto ad altre aziende, la prassi di sottoporre a un assessment ogni nuova risorsa umana da assumere. Incaricata di fare le valutazioni dei candidati era una giovane signora, al tempo molto rampante, che somministrava a tutti questi test con molta convinzione.

Una volta, un amico con grande esperienza si era proposto per un progetto, ma al colloquio con la signora del personale, che lo avrebbe valutato se idoneo all’incarico, vide che lei tirava fuori la scatola delle macchie di Rorschach. L’amico si alzò come se avesse ricevuto un’offesa e la mandò a quel paese sbattendo la porta. Allora io ero d’accordo con lui… Pensavo fosse una vera cazzata mostrare delle macchie d’inchiostro a un ingegnere che avrebbe dovuto occuparsi di un progetto informatico, e da quelle macchie stabilire se fosse adatto a svolgere l’incarico. Non avrei mai immaginato, prima delle mie diagnosi, che ci fosse un nome preciso per designare la mia attitudine ad avere affinità solo con persone definibili come «socialmente problematiche».

Un problema ricorrente, che ho sempre avuto passeggiando per strada, è stato quello di «attirare i matti». Ricordo che è sempre stato lo spauracchio di mia moglie, che è molto apprensiva, al punto da esortarmi preventivamente a non guardare quando nei paraggi passava uno di quei soggetti che urlano, inveiscono e fanno stranezze. Ma fatalmente quel soggetto, anche se era dall’altra parte della via, veniva verso di me come se avessi una calamita addosso.

C’è un aspetto del mio cripto (manco tanto) autismo che invece mi piace molto, perché non mi ha mai dato problemi, anzi mi ha sempre fatto molta compagnia: mi piace stare da solo e raccontarmi delle storie.

Di storie me ne sono raccontate sin da bambino. Ora le racconto agli altri, ma allora che ero molto timido era il mio gioco preferito. Salivo su un albero e mi raccontavo storie di cui ero protagonista, belle avventure con scenari che costruivo servendomi di supporti concreti, come le foglie di quello stesso albero, la corteccia, le ghiande o altri frutti. Il mio videogame, infatti, era in prevalenza a componente vegetale.

Vivevo in campagna e non era difficile raccontarsi storie con la faccia a terra, rasente ai cretti dei campi di pomodoro, nei tramonti d’estate in cui ci si poteva confondere tra gli odori decisi di quel bel terriccio rossastro e scaldato dal sole. Sento ancora l’aroma pungente dei gambi delle piante di pomodoro, l’odore aspro del verde che ti fa vibrare di solletico le narici, finché arrivava il profumo della polpa dei Sammarzano maturi, tutto concentrato nel loro culmine appuntito, come se da quella specie di beccuccio trapelasse quanto serviva per la rituale preparazione e imbottigliamento della salsa in quantità quasi industriale. Era l’oro rosso domestico, che sarebbe rimasto in dispensa assieme alle riserve invernali d’insaccati, strutto, cereali e quant’altro occorreva alle bisogna di una famiglia molto allargata. Alla cerimonia dell’ammazzamento e smontaggio del maiale noi bambini eravamo d’impiccio e ci tenevano ai margini, però il lavoro sui pomodori era un’attività in cui eravamo coinvolti, e nei giorni seguenti ci avrebbe lasciato ovunque tracce di sugo semi-indelebili.

Chissà perché, ma di tutto questo conservo un ricordo incancellabile, nemmeno avessi assistito agli esiti sanguinosi di una bomba esplosa in mezzo a una folla. Non saprei perché ora io mi stia dilungando sui pomodori. I vegetali evidentemente, ora come allora, mi forniscono più stimolo a essere osservati e ricordati che gli umani.

È un problema? Giocavo con le piante come gli altri giocavano con i loro simili, mentre io avevo al massimo mio fratello. Vivevamo abbastanza isolati e ricordo i confini del giardinetto dei nonni come le colonne d’Ercole, oltre le quali c’era un mondo considerato pericoloso o inadeguato alla nostra età. Anche quando cominciai ad avventurarmi fuori di casa, non cambiò la mia attitudine a provare più interesse per le cose inanimate che per le persone. Continuavo a giocare con le piante, e ho combattuto guerre infinite schierando e massacrando, come fossero soldati, le foglioline carnose di crassula che erano nei vasi disposti sul muretto del terrazzo di casa di alcuni zii romani, quando venivo allontanato dalla campagna per respirare un po’ di aria della capitale.

A proposito, mi ricordo l’odore della pizza bianca appena sfornata, che arrivava fino alle colonne del Pantheon dove si mischiava con l’aroma del caffè tostato proveniente dalla «Tazza d’oro» dall’altra parte della piazza. Oggi non si sente più, ma per me era quello il ricordo di Roma.

Attribuisco ancora a molti oggetti una vitalità ispiratrice di storie. Anche se non è più un gioco, ci faccio caso solo ora che mi capita di classificare un mio possibile comportamento autistico. Faccio un esempio: mi è arrivata via WhatsApp una foto delle vacanze di Tommy, che è assieme a Bobone, Alberto e Jose, i suoi amici di sempre. Nella foto, i quattro sembrano aver espugnato un’antica torre sbilenca nella zona di Tharros. Forse, invece, è il rudere che sembra guardarli e sorridere, riconoscendoli suoi fratelli nell’asse eccentrico. Quel relitto di bastione di guardia potrebbe essere il testone di un gigante di pietra interrato fino al collo, che li fissa da due feritoie che paiono piccoli occhi, un tratto diroccato gli disegna il naso e, alla base, i mattoni sbrecciati sembrano proprio una bocca aperta in un sorriso. Somiglia al «Gigante di ferro», il personaggio di un cartoon che ogni tanto Tommy ancora guarda.1 È la storia di un bambino che diventa amico di un gigantesco automa, una sofisticata macchina da guerra che alcuni militari vogliono eliminare con le bombe atomiche, perché sospettano possa appartenere a potenze nemiche. Lo fanno a pezzi, ma il lieto fine è che i frammenti si ricompongono e il Gigante di ferro riprenderà vita. L’ultima sequenza del film è proprio la testona sbilenca dell’automa che, sepolta nella neve, si riaccende.

Mentre il torrione li osserva, però, ognuno dei quattro ragazzi ha gli occhi rivolti verso un punto diverso dell’orizzonte; fa parte della loro natura non avere punti di vista omologabili. Ciò che attira gli sguardi autistici è invisibile alle nostre pupille annebbiate, corrotte per il continuo sforzo di mantenersi accordate all’unisono visionario.

Potrei immaginare i quattro in un’isola sperduta, al culmine di una cima a picco sul mare, sulla duna più superba di un deserto sterminato. Qualunque luogo pensassi sono certo che lì starebbero bene, anche se desolatamente soli. Nella foto, almeno è chiaro e visibile il vuoto che hanno attorno per tutta la vita. È come se in questa immagine qualcuno avesse reso invisibili gli scenari quotidiani che circondano quei ragazzi; invece che tra quella sterpaglia salmastra potremmo vederli, con gli stessi sguardi divergenti, stare seduti in silenzio tra i banchi di scuola, a passeggio per le strade della loro città, stesi sul divano di casa, nella camerata del centro caritatevole che li accoglierà quando noi non esisteremo più. Nulla cambierebbe per loro, guarderebbero con interesse sempre e soltanto quel punto perduto nell’orizzonte remoto, ma sarebbero comunque soli come in quella foto.

Il resto del mondo è sempre fuori campo, proprio come in quella foto, anche se continua a esistere. È il mondo fatto di gente che parla, si abbraccia, si cerca, si sfugge, si spia, s’invidia, si seduce, s’insulta, si confida, si conforta, si tradisce, ma sempre oltre un diaframma trasparente dove gorgoglia il bulicame che a loro non appartiene.

Noi lo vediamo e noi ne siamo coinvolti, loro lo attraversano come se fosse una scossa elettrica che pizzica sulla pelle. Della presenza leggera di quattro ragazzi balzani si è sicuramente accorta l’antica torre, forse perché è nata per essere sentinella. Magari non si ricorda più che il suo compito è avvistare i saraceni devastatori, c’è da capirla, da secoli può guardare solo le devastazioni che stanno avvenendo alle sue spalle, di cui quei ragazzi sono placidamente gli inconsapevoli esiti.

Non si pensi che, perché ho un figlio autistico, la mia debba essere per forza una vita triste. Grazie alla presenza di Tommy e dell’indotto che si è creato attorno all’esistenza sua e dei suoi simili ho riflettuto molto in profondità, ho scritto, ho parlato, ho persino fatto un film.

Ho molte occasioni di vedere persone che mi esprimono affetto e amicizia, e oggi mi rendo conto che forse lo apprezzo poco per il mio cervello differentemente programmato. Alla domanda che mi sento rivolgere spesso: «Ma a te che piacerebbe fare?», rispondo sempre che vorrei stare in un posto con Tommy. Entrambi dovremmo poter fare quello che più ci piace: io scrivere, parlare con persone curiose, con alcune di loro farmi qualche bevuta di Margarita e lasciarci stordire un po’. Poi di nuovo inventare, affastellare pensieri, scriverli, raccontarli, elaborarli. Intanto vorrei vedere Tommy sguazzare nell’acqua, in compagnia dei suoi amici balzani e più o meno nella norma, starsene bello beato a seguire le sue derive fantastiche sull’iPad. Una piscina e poter mangiare pizza, patatine e gelato fragola cioccolato… Poi penso che non ci servirebbe altro.

È così, non posso farci nulla. Questo mi renderebbe forse sereno, più che la pace nel mondo e ogni altra utopica esposizione di virtù altruistiche. Tuttora mi chiamano a parlare di autismo ovunque, come se io avessi la formula per alleviare le afflizioni altrui, non so più cosa dire se non ammettere che ancora sono al punto di partenza per una soluzione accettabile per il futuro di Tommy. So benissimo che queste mie affermazioni creeranno delusione e disprezzo nei miei confronti, ma sono stanco di alimentare tabernacoli di rettitudine come quei principi reggenti che dovevano sempre mostrarsi in divisa e alamari per mantenersi nel ruolo e non scontentare il popolo.

Cari signori e signore che siete tentati di giudicarmi, volete capire che un figlio che resterà con le fragilità di un bambino per tutta la vita è come un’ombra nera che vi cresce alle spalle? Ogni giorno più densa e incombente. Alla fine esiste solo quello per voi. Forse quando scelsi quel nascondiglio in cui divido le mie ore più serene con Tommy, era già partito il conto alla rovescia per il big bang della mia vita di neurodiverso consapevole. Trovo irrinunciabile la sensazione di chiudermi una porta alle spalle e avere la certezza che nessun altro passerà per quella porta se non io quando la riaprirò. Questo mi permette di trovare, a distanza di ore e persino di giorni, sempre tutto congelato come la scena di un crimine. Nessuno ha toccato nulla, tutto è esattamente come io l’ho lasciato. È difficile spiegare cosa questo possa significare per chi non sopporta di vedere un asciugamano fuori posto o il tubetto del dentifricio senza il suo tappo.

Non è stato facile, non lo è nemmeno adesso mentre scrivo, mi si creda. Non ha nulla a che fare con una fuga dai propri doveri, con la voglia di rifarsi una vita. Di tutti i motivi per cui le persone scappano di casa non saprei indicarne uno in particolare, forse li ho lambiti tutti, ma la vera ragione è soltanto una… Io non avrei mai dovuto pensare a farmi una famiglia, o per lo meno il mio cervello non è mai riuscito a gestire questa soluzione di vita come stabile e appagante.

Penso che il miglior compromesso possibile sia proprio questo, la dislocazione emotiva in un altrove sensoriale e territoriale, oltre che mentale. Tommy me l’ha insegnato come medicina contro il sovraccarico delle presenze altrui, lui è la sentinella che presidia la mia quotidiana uscita dal mondo. Spero che questa fuga autistica non mi distragga troppo dal quotidiano e mi permetta comunque di poter essere sempre di più un buon padre, o per lo meno accettabile anche per il figlio maggiore Filippo, di cui anelo l’autonomia e l’affrancamento da ogni debito familiare, compreso il pensiero di doversi un giorno occupare del fratello autistico quando i genitori non ci saranno più. Filippo ama l’Estremo Oriente, ha vissuto mesi in Corea, ha visitato da solo il Giappone quand’era ancora minorenne, è proiettato verso la fuga in paesi differenti e si trova più a suo agio in società diversamente strutturate rispetto alla nostra, non vorrei mai ostacolarlo ponendogli l’imperativo di farsi carico di un fratello così impegnativo.

Ci penserò io per lui, e comunque farò in modo che almeno lui sia salvo dall’essere sorvegliante del proprio secondino. Ho conosciuto troppe situazioni in cui genitori di autistici hanno deliberatamente generato un altro figlio, solo per avere il conforto che possa essere lui a occuparsi del fratello disabile quando loro non ci saranno più. Scelta sicuramente imprudente perché, per evidenti motivi ereditari, quel secondo figlio ha forti probabilità di avere pure lui difficoltà simili a quelle del fratello, raddoppiando così il problema anziché risolverlo.

Il vantaggio dell’ansia costante che procura il pensiero di Tommy è che mi crea una barriera invalicabile a ogni velleità, o tentazione, di pensare a ricostruirmi una vita personale in contesti diversi. È un pensiero che confesso di aver rimuginato in certi momenti di abissale sconforto, ma la sicurezza di non essere un soggetto neurodisponibile a questo percorso mi ha sorretto nell’idea che preferisco così, anche volendo non posso, la mia forma mentis mi porta verso una socialità limitata e più invecchio meno riesco a scendere a compromessi con le esigenze di esseri umani a me promiscui, che non sia un figlio naturalmente.

È crudo, ma è così. La sfrontatezza di ammetterlo senza sensi di colpa l’ho pagata a caro prezzo, ma ora mi appartiene e su quella solo posso continuare a costruire, anche per Tommy e gli altri.

Il punto che più mi colpisce di tutto questo è che se non avessi avuto l’esperienza intensa e cosciente del mio annullamento in un figliolo autistico, oggi magari sarei piombato nella depressione tipica della terza età, anche perché mi sa che oltre la soglia dell’inverno della mia vita ci sono quasi: inutile che faccia salti mortali, ho 64 anni. Posso sentirmi garzoncello quanto voglio, ma un giorno dovrò ammettere di essere sulla dirittura di arrivo della mia permanenza in questa dimensione dell’essere.

In questi anni penso di essermi dedicato soprattutto al lavoro. Ho lavorato tanto, veramente tanto, perché mi sono costruito una professione, una credibilità, un’immagine pubblica contando soprattutto sulla mia frenesia autistica dell’iperoperatività. Ho sempre solo lavorato. L’essere neurodiverso mi ha permesso di non pensare a quello che avrebbe potuto farmi piacere in alternativa al lavoro.

Solamente ora, e studiando me stesso, mi accorgo di quante persone che nel loro operare professionale sembrano accaniti perfezionisti, in realtà hanno più cervelli ribelli che doti di alacrità e sacro senso del dovere. Per me il lavoro non è mai stato una fatica, piuttosto una medicina. Lavorare mi è servito a mantenermi in apparenza «normale», come le pasticchine rosa e bianche che prende Tommy ogni sera e mattina per non sbattersi e sbavare nelle convulsioni epilettiche.

A volte immagino che sarò classificato come brutta persona per questa mia ambizione di vita isolata, anche se non mi importa granché del giudizio altrui; capisco da solo che la mia appare sicuramente come una soluzione sgangherata, trascorro un’esistenza da accampato ovunque mi possa trovare, eternamente in bilico tra quello che vorrei fare e quello che sono costretto a fare. È così però, non riesco più a fingere di poter vivere rilassato con altre persone sotto lo stesso tetto. Negli anni ho capito che i miei ritmi quotidiani mi rendono pesantissimo il dover armonizzare con le esigenze altrui, dal sonno alla veglia, al nutrirsi, al lavorare. Difficilmente ho fame quando gli altri decidono che sia ora di mangiare. Quando vedo sbadigliare attorno, per me inizia la fase più attiva mentalmente della giornata. Non sopporto più discorsi su come occupare il tempo libero, organizzare viaggi, vacanze. Da quando Tommy mi è complice, posso sempre dire a chiunque che ho da fare con lui, farmi compatire da chi va alle cene, alle rimpatriate tra amici, a interessantissime conferenze, fantastici concerti… Io posso, senza dare nemmeno più spiegazioni, declinare ogni invito, per poter finalmente chiudermi dentro, scrivere, leggere, pensare, guardarmi serie di telefilm a botte di sette-otto episodi per volta.

Essere riuscito a conquistarmi quel lembo di spazio solo mio, che cerco da quando mi costruivo il mio nido sugli alberi, è la mia più grande vittoria. Ho lavorato una vita e penso di essermi meritato almeno settanta metri quadri dove ho condensato tutto il mio universo, dai ricordi di quando ero bambino ai miei convulsi progetti per il futuro. Un futuro che inseguo mentre mi corre davanti agli occhi, e intanto che scappa mi divora il presente come se avesse una bocca da squalo al posto del sedere.