XI
Insieme nel buio
Vieni,
inseguimi tra i cunicoli della mia mente,
tastando al buio
gli spigoli acuti delle mie paure.
Trovami nell’angolo più nero,
osservami.
Raccoglimi dolcemente,
scrollando la polvere dai miei vestiti.
Io ti seguirò.
Ovunque.
La diva Saffo scrisse più di due millenni e mezzo fa questi versi, pensando di sicuro a una creatura di cui era innamorata. A me sono apparsi per la banalità del caso una notte, in uno dei tanti post che mi segnala Facebook, in alto a destra del mio monitor. Stavo scrivendo questo capitolo e ne sono rimasto fulminato.
Sarebbe difficile rendere in maniera altrettanto efficace il rapporto tra me e mio figlio, come lo sto elaborando in questo preciso momento. Devo dire che me la sono cercata, potevo anche accontentarmi di fare il padre e occuparmi di lui come nella migliore delle ipotesi fanno tutti, o quasi. Sono voluto andare oltre la linea di confine convenzionale che, tutto sommato, mi tutelava. Nessuno avrebbe mai messo in dubbio il mio ruolo paterno di guida assoluta di un figlio con poco cervello, invece sono andato a imbucarmi in un vicolo che non so dove mi potrà condurre. Già qualche giorno dopo la «restituzione», le poche persone cui ho accennato il fatto di essere autistico anch’io mi guardano con un certo imbarazzo; comincio a capire cosa si prova a sentirsi ufficialmente «diverso» e penso che questo valga per ogni forma di alterazione dichiarata, almeno rispetto alle certezze che cementificano il consenso e ci fanno sentire come minimo tollerati. Già nei primi anni di convivenza ravvicinata con Tommy mi ero reso conto di quanto fosse esemplare il suo totale disinteresse a adeguarsi ai pensieri altrui.
Mi resi conto della fatica immane che comporta l’essersi ipercivilizzati nel rispettare le opinioni non condivise. Gradualmente perdiamo la consapevolezza del nostro punto di vista, tanto siamo abituati a smussarne quotidianamente gli spigoli più taglienti per paura che possano ferire qualche nostro interlocutore. Tommy non si pone il problema di entrare in contrasto con modi di pensare diversi dal suo, a meno che abbia la consapevolezza di poter ottenere un rifiuto che scombussolerebbe il suo fragilissimo equilibrio emotivo. Non ha il coraggio a volte di fare una richiesta solo per paura del rifiuto, si tiene tutto dentro e magari sbarella.
Ora io, diversamente da lui, ho abbassato ancora di più il mio già infimo livello di tolleranza per i pareri che non condivido o che semplicemente mi annoia ascoltare.
Nel giro di pochissimo tempo, quel fascicoletto arancione con dentro tutti i test che mi consegnano allo spettro dell’autismo è diventato il mio salvacondotto alla sfrontatezza; esagerando sicuramente, l’ho immaginata come la mia patente di matto a cui tutto è consentito, patente che ho autonomamente allucinata in quelle poche decine di pagine dove, tra grafici e disegnini in bianco e nero, è descritta in sintesi la storia della mia vita interiore.
Il risultato un po’ mi spaventa, ma mi adatterò. Non riesco più a mediare tra quello che penso e quello che dico. Devo dire che il flusso dei pensieri che diventano linguaggio senza un mio razionale intervento rettificatore è una mia «malattia professionale», che ho cronicizzato in più di trent’anni di quotidiana diretta radiofonica, in cui parlo di tutto, interagisco con decine di persone nuove ogni giorno, lascio che i miei pensieri saltellino liberi davanti al mio microfono.
Ora, però, mi comporto nella stessa maniera anche ogni volta che devo interloquire con persone il cui contatto mi provoca qualche minimo fastidio; possono essere frequentazioni abituali, affetti, amicizie, rapporti di lavoro, verso cui ho ridotto a zero i margini di tolleranza e spesso dico cose o assumo atteggiamenti che stupiscono persino me. Tanto che è sempre più frequente che mi senta dire: «Non sei più lo stesso!». Alla fine basta così poco per essere percepito come sospetto folle? Un po’ meno ipocrisia nel fingersi interessato alle vicende altrui? Meno indulgenza a sopportare le molestie di chi pensa di poterti riversare addosso parole e pensieri che non ti interessano, non ti stupiscono, non ti divertono, non ti intrigano?
Mi rendo conto che continuare lungo questa china comporterebbe il rischio di essere considerato asociale. Ho ben presente quello che mi ha detto lo psichiatra che mi ha fatto la valutazione, quando gli ho chiesto se avrei potuto pubblicarla in un libro: «Faccia molta attenzione, sta correndo il rischio che poi le affibbino un pregiudizio sulla sua lucidità, magari a qualcuno verrebbe il sospetto che quello che scrive o ha sempre scritto sia il frutto di una mente malata. Lei non ha nessun male, nessuna patologia psichiatrica, ha solo una mente autistica».
Quindi mi ha subito prescritto una risonanza magnetica, così avremmo avuto anche la prova visiva dell’assenza di qualsiasi alterazione organica al cervello, come ad esempio una forma di Alzheimer. Ecco quindi che mi ritrovo a dover cercare difese preventive dalla possibile accusa di essere matto, e solo perché ho voluto farmi un esame al cervello. Nel frattempo ho fatto una gastroscopia per problemi di gastrite, un’ecografia all’addome per un po’ di renella ai reni, una visita cardiaca accurata, radiografia al ginocchio per problemi di menisco… Ne posso parlare tranquillamente con chiunque, anzi sono ottimi argomenti di conversazione, la gente ama parlare dei malanni e prova un sottile godimento nel confrontarsi su sintomi e terapie. Sulla risonanza al cervello, invece, sono sicuro che non troverò qualcuno che abbia voglia di chiacchierarci su. Anzi, mi guarderanno ancora di più come se fossi uno strambo da tenere a distanza.
Per tutte queste ragioni i versi di Saffo mi rimbalzano nelle orecchie come se fossero le parole di Tommy che non ho mai udito… «Inseguimi tra i cunicoli della mia mente, tastando al buio gli spigoli acuti delle mie paure.» Mi confermano che non poteva che essere Tommy il traghettatore verso quest’ultima fase della mia vita. Dico «ultima», solo perché sono avanti negli anni; se non facessi caso all’anagrafe, sarebbe un passaggio come altri in cui si fanno nuovi pensieri, e di conseguenza nuovi progetti.
Mi sento sempre di stare con Tommy «assieme nel buio», sempre di più mi convinco di avere perso il senso di chi insegua e di chi sia inseguito tra noi due, di fatto ci muoviamo entrambi a tentoni nei medesimi cunicoli mentali. Non saprei dire chi accudisca e chi sia l’accudito. Arriverà davvero quel giorno che ho già paventato, in cui lui mi porterà sulle spalle, proprio come Enea fece con il vecchio padre Anchise. È probabile che possa accadere e tuttora non posso che immaginarmi che potrebbe anche essere l’ultimo per entrambi.1
Nessuno s’inalberi, è un pensiero orribile, ma lo facciamo tutti, tanto vale ammetterlo. Diciamoci che è l’esorcismo più potente che conosciamo per tenere il più lontano possibile l’eventualità che possa accadere.
Tommy, in cambio della mia attenzione, mi ha già regalato l’idea stabile di essere immortale e indistruttibile; se mi abbandonassi allo sconforto per l’invecchiamento, per lui sarebbe finita. Di sicuro il mio miglior destino sarà quello di tracollare di colpo per sfinimento, pur sentendomi, un istante prima, vitale come un ragazzo. Tommy è stato la mia droga pesante. L’ho già scritto, e qui è importante che lo ribadisca.
Non ricordo quante volte ho sentito affermare dal genitore di un ragazzo autistico che mai permetterebbe al figlio di sopravvivergli. Lo dicono spesso e con pudore, ma consapevoli che sia comunque una scelta possibile, e solo a chi con certezza possa capirli, che alla fine sono solo quelli con cui dividono il problema.
È proprio così. È una storia che ci raccontiamo tra noi, ogni altra persona a sentirla ci rimarrebbe male; invece no, è la lucida e disperata scappatoia da un pensiero che ci tormenta l’esistenza. Quale sarà la vita di un figlio così fragile, quando non ci saremo più noi a sbatterci ogni minuto per la sua impalpabile felicità?
Qualche volta lo penso anch’io.
Accade proprio nei momenti in cui, quel figliolo con tanti problemi, lo vedo sereno. È strano, ma pensarlo non atterrisce più di tanto, anzi mi dà quasi un senso di leggerezza, considero che sarebbe bello restare sempre assieme, senza angustie senza afflizioni senza paure.
Ma, diciamo la verità, lo pensiamo tutti noi genitori di figli indicibili. È la nostra maniera di esorcizzare il presente che non cambia. Ci dissolve ogni inquietudine immaginare di fare assieme il salto finale dall’altra parte. È di sicuro una sconfitta, ma in certi giorni ci viene da pensare che può essere anche una soluzione.
Poi magari, invece, ci viene voglia di ributtarci nella mischia quotidiana, di inventarci ancora qualcosa, di non mollare. Però il tempo passa anche per noi. È un tempo vigliacco, perché invece di rendere sempre più evidente la differenza tra noi che invecchiamo e i nostri figli che crescono, come accade per il resto dell’umanità, ci avvicina sempre più a loro. Diventiamo fragili come loro, svampiti come loro, sempre più soli come loro. Ci si rende conto di non essere più all’altezza del proprio compito, di non essere eroi eterni e invincibili.