XVIII
I nostri ammortizzatori emotivi
La qualità delle nostre relazioni ha subìto un cambiamento radicale, anche solo rispetto a come eravamo abituati a gestirle un decennio fa. La mediazione delle protesi elettroniche è ormai la condizione base per ogni rapporto, non sarebbe possibile farne a meno, sarebbe come dire a un miope di leggere senza occhiali. Ogni relazione equivale a una connessione, a una voce nella personale rubrica telefonica, a un contatto WhatsApp, o a qualsiasi altro mezzo ognuno preferisca usare, di applicazione in applicazione.
Questa situazione crea una sensazione generale di facilità nel rapportarci con gli altri che non ha precedenti nella storia dell’umanità. È immediato assemblare e connettere tra loro le persone con cui abbiamo rapporti, nel database del nostro telefono si accavallano le amicizie e gli affetti sedimentati in una vita, assieme ai contatti memorizzati velocemente solo per una necessità estemporanea. Allegare un contatto è immediato come allegare una foto, ma di fatto rappresenta molto di più: si crea istantaneamente una connessione tra due persone che non si conoscevano e non avrebbero avuto altrimenti una possibilità così immediata di relazionarsi. Nel compiere un’operazione così semplice come condividere un contatto, in realtà creiamo delle mutazioni, non solo nell’assetto della vita dei nostri interlocutori, ma anche in maniera più estesa nella società che precedeva questa nostra azione. Per tale ragione oggi si stanno ridefinendo tutte le categorie finora conosciute per classificare secondo una gerarchia d’importanza le nostre relazioni.
Il numero di telefono, l’indirizzo, le foto, il diario quotidiano dell’elettricista che abbiamo chiamato per una riparazione si collocano sullo stesso rango di quelli della persona con cui abbiamo condiviso i due terzi della nostra vita. Appaiono entrambi con una piccola icona del viso e i dieci caratteri con cui li abbiamo memorizzati, resteranno in eterno se non li cancelliamo e, di cloud in cloud, migreranno in tutti i successivi smartphone della nostra vita. Riappariranno quando ci saremo già dimenticati di loro, se per qualunque ragione ci cercheranno anche a distanza di anni, forse nemmeno ci ricorderemo per quale ragione li abbiamo collocati nella periferica da 36 gigabite della nostra memoria sociale.
Questa fase di passaggio ci obbliga a muoverci come funamboli sull’abisso che separa una realtà relazionale codificata da una che ancora è in fase di riscrittura; qualcuno corre spedito in perfetto equilibrio su questa fune sospesa, altri fanno più fatica, in ogni caso nessuno sa con certezza cosa ci sarà esattamente all’altro capo della fune. È un mondo ancora non ben chiaro a nessuno, come nessuno aveva previsto che il futuro sarebbe stato molto diverso da quello delle macchine volanti e del cibo in pillole che aveva immaginato la fantascienza. In un istante ci siamo ritrovati in una realtà imprevedibile di umani che, senza nessuna preparazione, si sono abituati all’idea che per il resto della vita avrebbero condiviso la loro esistenza con un telefono, attimo per attimo, senza nemmeno conoscersi di persona.
In questa realtà sembra ancora più paradossale lo sforzo che molti compiono per indurre un autistico a costruirsi una rete di relazioni «normale»: già, ma ci siamo chiesti cosa s’intenda oggi per una maniera tipica di relazionarsi? Forse corrisponde a restaurare comportamenti codificati e usuali nella società predigitale? Oppure significa riuscire a stare in equilibrio stabile sulla tavola da surf del nostro smartphone e cavalcare senza farsi troppe domande le onde anomale del mare in cui ci siamo buttati?
Il discrimine tra queste due opzioni non è banale. Dovremmo capire e decidere se per caso la mente autistica non sia già programmata anticipatamente per riuscire a sopravvivere, anche se con il motore al minimo, allo stress emotivo che sta attraversando l’umanità e ancor più sarà evidente quando diventeranno elementi dominanti della società individui che non hanno più memoria di come «funzionava» una volta, quando gli umani si mettevano in relazione tra loro, quando esisteva il concetto di vita privata, quando si era più limitati nel condividere comportamenti affettivi, tutte funzioni che in realtà per la mente autistica sono irrilevanti, perché le ha già classificate come fastidiose e obsolete. Forse la selettività dell’autistico nelle relazioni non è razionale, ma di fatto sembra programmato per poter vivere senza quegli ammortizzatori emotivi che agli uomini che camminano sulla fune sembrano ancora indispensabili alla serenità, ma che per lui sono soltanto inutili cascami di precedenti fasi dell’evoluzione che necessariamente è salutare lasciarsi dietro le spalle.
Verrebbe quasi da azzardare un approccio diverso rispetto al diktat primario di dover dare al figlio autistico istruzioni per il suo, necessario, adattamento alle consuetudini altrui. Sia chiaro, non intendo mettere in discussione quanto si sta facendo e studiando per abilitare i nostri ragazzi a una vita il più possibile inclusiva; anzi, considerato che per molti genitori questo non è ancora nemmeno un obiettivo contemplato, è il caso di continuare il più possibile a combattere le approssimazioni e le fumosità – davvero molto presenti in Italia – rispetto a un approccio razionale all’autismo.
Non sono un medico, né tantomeno uno scienziato, ma sono convinto che rispetto a uno stato di scarsa conoscenza dei meccanismi che producono la mente autistica, almeno quel poco che ha evidenza scientifica deve essere considerato l’unico punto di partenza possibile, sia per capire le reali esigenze degli autistici sia per fare in modo che abbiano una vita il più possibile inclusa nel mondo in cui sono nati, pur senza pensare di alterare il loro stato forzandoli a una «normalità» che non fa parte dei loro orizzonti.
Mi sono fatto un mucchio di nemici per avere sostenuto battaglie a favore di associazioni di familiari che erano stanche di essere messe in mano a ciarlatani e millantatori di ogni tipo. Nei miei libri precedenti ho ampiamente parlato delle cure miracolose, delle teorie strampalate dell’autistico imprigionato, delle terapie sciamaniche. Durante la realizzazione del film con Tommy ho conosciuto di persona parte dell’universo dei poveri genitori impegnati nei viaggi della speranza verso fantomatici luminari che suggeriscono disintossicazioni, diete, lavaggi del sangue dai metalli pesanti, camere iperbariche, terapie staminali all’estero, o pronti ad affidarsi ancora a specialisti con approcci all’autismo scientificamente smentiti, ma comunque sostenuti dal servizio sanitario nazionale.
Anche un quotidiano come «il manifesto»,1 che della difesa delle minoranze ha sempre fatto una bandiera, ha pubblicato la lettera di uno psicoanalista che rivendicava il diritto di trattare l’autismo, ma dalla quale trapelava, nemmeno troppo velatamente, che il vero scopo di tale rivendicazione di competenza era la speranza che in una legge regionale sull’autismo ci fosse spazio anche per la sua scuola di pensiero, che continua a illudere le famiglie con terapie inutili. L’importante, insomma, è che chi ancora si arrovella sulle madri frigorifero possa continuare a mettere mano nei trattamenti erogati dal servizio sanitario pubblico. Pregai lo psicoanalista che, per gentilezza, non venisse a frantumarci con la sua «apatia del vivere», la nostra vita è tutt’altro che apatica. Non si sarebbe dovuto permettere di darci degli «addestratori di automi», come scriveva nella sua lettera: noi facciamo per i nostri figli quello che, risultati alla mano, ci dimostra essere per loro la migliore maniera per avere una vita il più possibile autonoma e dignitosa. Abbiamo alle nostre spalle troppe generazioni di esseri umani buttati in discarica dai suoi colleghi per compiacere il pippamentalismo psicoanalitico di quella che chiamava la «cultura del vivere».
Lui ci dava degli «ipocriti», attribuendoci «sensi di colpa» se preferiamo affidarci all’evidenza scientifica piuttosto che a uno sciamano che mette le madri sul lettino per «curare» i figli. Se mai gli capitasse di incontrare una di quelle donne che vedo ogni giorno arrabattarsi con i loro giganti al seguito, una di quelle madri che, come scriveva, «quando sono ferite nella loro femminilità, anche la maternità si fa molto vulnerabile, con conseguenze nefaste per i figli», costei sarebbe ben contenta di consigliare al signore psicoanalista in maniera molto esplicita soluzioni fantasiose per rendere anche la sua vita meno apatica.
Ho letto considerazioni analoghe a quelle contenute nella lettera al «manifesto» addirittura in un documento ufficiale elaborato dalla Commissione Bicamerale per l’infanzia riguardo all’autismo,2 che riportava i verbali di un’indagine conoscitiva sulla tutela della salute psicofisica dei minori, finalizzata ad analizzare le situazioni che possono compromettere una sana crescita psicofisica dei bambini e degli adolescenti, come quelle legate al disagio mentale, ecc.
Di solito funziona così: la Commissione ascolta esperti qualificati del settore, poi compila il documento che dovrebbe rappresentare un punto di vista istituzionale su un problema relativo alla salute pubblica e quindi si presume corroborato da una visione strettamente basata sulle evidenze scientifiche. Invece no. Pare che la Commissione abbia scelto di dare rilevanza alla vecchia scuola psicodinamica che promette straordinarie «uscite dall’autismo», facendo passare per di più una lettura terrorizzante dell’ABA3 con termini che potrebbero far pensare che si tratti di una sorta di tortura brutale a base di scosse elettriche… Ma c’è di più. Riguardo ai trattamenti che la scienza reputa più efficaci, che spesso le famiglie pretendono a prezzo di estenuanti battaglie legali, nel documento della Commissione parlamentare passa il concetto dispregiativo che siano metodi di «addestramento», quasi suggerendo l’idea che gli umani siano trattati da animali che devono essere ammaestrati, paragonando le terapie comportamentali a un supplizio medievale e facendo balenare come alternativa terapeutica gli asinelli, animali «intelligenti e affettivi».
Ho messo da parte questi cascami, ma un’idea che mi tormenta, devo confessare, è quella che vorrei io farmi «addestrare» da Tommy, capire attraverso di lui come muovermi in percorsi mentali meno condizionati, rispetto a quelli in cui giocoforza mi sono dovuto arrabattare, dall’età della ragione a quando ho cominciato coscientemente ad averlo accanto. Non lo dico per cercare di elaborare un disagio, o un senso di colpa, come mi stanno spesso scrivendo sui social gli antivaccinisti che mi vedono come pericoloso testimonial delle multinazionali del farmaco, ma proprio perché sono sicuro che con un cervello autistico come modello vivrei veramente più intensamente questa fase della contemporaneità.
Sembra un ragionamento folle? A supporto del fatto che stiamo cambiando più velocemente di quanto possiamo percepire, si rifletta solo sul fatto che oggi sembra diventato necessario estrarre in maniera preventiva i quattro denti del giudizio, solo perché non ci servono più, visto che mangiamo diversamente e verrà un giorno che spariranno da soli, come ci sono già scomparsi il vestitino di peli, forse anche la coda e persino il baculum o osso penico, residuo di un nostro passato di primati che molti rimpiangeranno, ma se ne facciano una ragione: averlo perso fa parte della nostra evoluzione. Non storcete il nasino politicamente correttino, non mi veniva in mente un altro esempio evolutivo in cui qualcosa di fisico cambia per l’uso sociale che ne facciamo. Non immagino un concetto che sia un po’ meno discriminatorio del rimpianto di quel gadget che ci è cascato circa 1,9 milioni di anni fa, quando la monogamia si è consolidata come espediente per riprodurci: avevamo sempre una donna al fianco e l’osso, che doveva essere l’arma di multipla rapina amorosa, si è reso inutile e si è volatilizzato.
Proviamo dunque a immaginare un autistico come prototipo, di sicuro molto perfezionabile, di un’evoluzione anche «fisica», testimone di quello che diventeremo per il nostro modo di vivere le relazioni e che ancora non è facile accettare come possibile, almeno da chi è neurotipico al cento per cento, e quindi sorretto dalla sua certezza di rappresentare l’unica misura della «normalità».
Potrebbe essere che chi viene ritenuto oggi nella norma in realtà sia solo un modello già superato di umano, proprio per il turbinio irrazionale di nostalgie che lo ancorano alle sue sicurezze sul valore d’esser savio.