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Sharleen aveva detto a Emily di andarci piano finché non fosse tornata a casa.

Naturalmente, lo aveva detto in termini più professionali.

Emily prese il suo quarto champagne al bar, pensando che Sharleen non capiva proprio. Era più facile dimenticare, così. Quale modo migliore per aiutarla a dimenticare se non un open bar? Gli antipasti avevano a malapena iniziato a fare il giro che Emily aveva già fatto amicizia con il barista: una buona mancia in contanti garantiva un bicchiere pieno per tutta la sera.

Al diavolo Sharleen, pensò Emily. Fanculo Henry, fanculo Daniel, fanculo tutti. Emily era fuggita da una relazione orribile e pericolosa e stava lavorando per lasciarsi tutto alle spalle. Solo di recente aveva fatto i conti con la parola “abuso”. Non aveva voluto pensare a se stessa come a una vittima, eppure lo era stata. Una povera vittima indifesa.

Le vittime erano sempre persone deboli. Kate Cross, con il suo bel vestito, non sarebbe mai stata una vittima. Sydney con la sua bambina non era una vittima; era una guerriera che si prendeva cura di sua figlia da sola. Ginger non era una vittima: avrebbe rimesso in riga il marito non appena avesse oltrepassato il limite, Emily ne era sicura. L’aveva già visto. Emily non aveva mai voluto essere debole. Ma lo era stata, questa era la verità. Tutti quegli anni fa al college, da quella prima volta che Daniel l’aveva vista, era crollata. Aveva fatto le sue scelte. Era tornata da lui più e più volte, anche quando aveva visto crepe nella sua facciata che lasciavano intravedere la crudeltà che si nascondeva al di sotto. Anche quando avrebbe dovuto saperlo.

Emily si sentiva la bocca amara. Ordinò un whisky e lo bevve. Ne ordinò un altro. Ordinò una tequila e vide il barista accigliarsi mentre faceva scivolare verso di lei il bicchierino, un po’ meno pieno del precedente.

«Un’altra tequila, per favore» disse Emily. «Stavolta non in un ditale.»

«Ehm, signora…»

«Dammi da bere» disse. «E io ti lascio in pace.»

Emily tornò al presente pensando alle parole di Henry. Lui credeva di darle una mano, la verità era che le aveva fatto del male. Nel cercare il necrologio di sua figlia, tirando fuori un’immagine dell’uomo che aveva rovinato la vita di Emily, confrontandola con gli sporchi dettagli del suo passato, quando la loro non doveva essere altro che un’avventura nel presente. Le aveva fatto molto male.

Henry era andato dove non sarebbe dovuto andare; aveva scavato in profondità, riaperto vecchi graffi e ferite, facendole sanguinare di nuovo. E poi l’aveva lasciata lì, a soffrire da sola. Certo, perché lei glielo aveva chiesto.

Emily sorseggiò il suo champagne e si guardò intorno nella sala addobbata d’amore e di cuori e cibo da buffet schifoso (il cibo in realtà era buono, ma l’umore di Emily rendeva tutto simile a un piatto di spinaci al vapore senza burro). Si chiedeva se Daniel avesse già una nuova moglie. Una nuova donna da maltrattare, un nuovo bambino da distruggere. Forse doveva fare qualcosa… ma cosa? Cosa avrebbe potuto fare una donna debole come lei contro una forza come Daniel?

Emily chiuse gli occhi, sprofondando nel ricordo della notte in cui lo aveva lasciato. L’aveva già fatto prima, più volte, di solito quando beveva. Se si lasciava andare abbastanza, poteva quasi visualizzare la scena come se fosse stata di nuovo lì in quel momento.

Era una notte torbida e nera, le sue visioni iniziavano sempre così. Ricordava solo dei frammenti: non beveva a quei tempi, nemmeno prima di rimanere incinta di Julia. Emily non aveva mai bevuto tanto alcol prima di Daniel. Non aveva mai bevuto più di un bicchiere di vino a cena. Gli alcolisti le erano sembrati così indisciplinati. Perché non smettevano di bere? Aveva pensato tra sé e sé. Non può essere così difficile!

Ora, i suoi ricordi erano spesso frammentari per colpa dell’alcol, ma i ricordi di quella notte lo erano per via del puro terrore e del dolore che li accompagnava. I dettagli non li ricordava più. Sapeva che aveva un coltello. C’era stata una lotta. Si ricordava di aver tentato di uscire attraverso le porte scorrevoli del patio quando lui era tornato a casa ubriaco fradicio e aveva iniziato a prendersela con lei. Aveva cercato di proteggere se stessa, la bambina. C’erano state delle scale, delle cadute, del sangue.

Lui si era fatto prendere dal panico, l’aveva gettata nella vasca da bagno.

Emily aveva sempre sospettato che volesse provare a farlo sembrare un suicidio.

Quando si era reso conto che non ci sarebbe stata alcuna spiegazione per i lividi sulla testa, doveva aver cambiato idea perché aveva cercato di portarla in ospedale. Quando Emily si era ripresa, però, era corsa a prendere Julia. «Basta» aveva detto. «Prendo la bambina.»

Lui l’avrebbe lasciata andare. Lei l’aveva capito. Aveva visto l’orrore nei suoi occhi per quello che aveva fatto. La paura che Emily lo denunciasse, rovinando la sua carriera di successo, distruggendo la sua vita.

«Se ti avvicini ancora a me o alla bambina, ti uccido» aveva detto mentre prendeva Julia, e diceva sul serio.

Una lacrima scivolò sul viso di Emily. Stava sprofondando, sprofondando a spirale nel buco nero, uno sciacquone che la trascinava nelle fogne del mondo, nel letame e nella sporcizia che era diventata il suo subconscio. Non c’era via di scampo. Era troppo tardi. Aveva già perso Julia, il suo cuore, la sua stessa anima. Aprì gli occhi, vide le sue nocche bianche che stringevano il gambo di una coppa di champagne (quando gliel’avevano dato?).

E capì esattamente cosa doveva fare. C’era un solo modo per uscire da quel casino.

Emily si allontanò dal bar, fermandosi un attimo a guardarsi intorno nella sala. Sembrava tutto troppo. Come in un matrimonio di Barbie, la sposa Whitney era davvero bella con un lungo abito bianco che le scivolava sui fianchi assurdamente snelli.

La coordinatrice, Miranda qualcosa, si agitava con una penna incastrata dietro l’orecchio che probabilmente aveva dimenticato lì, abbaiando ordini come se la sua vita fosse dipesa dal fatto che la cena si svolgesse senza problemi. I fiori, rose bianche, occupavano il centro di ogni tavolo, e coprivano il pavimento di petali freschi.

Diversi chef lavoravano in fretta per mantenere sempre fresco l’aroma appetitoso dei cibi costosi: i fiori di zucchina ripieni, le sottili strisce di prosciutto, un piatto di formaggi disposti con tanto amore da rendere impossibile mangiarli. I fiori, i profumi, mescolati con le stoffe morbide e leggere e lo scintillio fioco delle luci, rendevano il patio un luogo ultraterreno, squisito… perfetto. E questa era solo la cena di prova.

Questo non è il mio posto, pensò Emily con un sorriso.

Lei non aveva un suo posto.

«Sharleen…» mormorò Emily mentre tirava fuori il cellulare e componeva il numero. «Sharleen, rispondi al telefono.»

La segreteria telefonica di Sharleen si avviò mentre Emily si faceva strada in mezzo alle foto a forma di cuore degli sposi. Non aveva nessuno a cui dire addio, se non alla sua terapista. Doveva far sapere a Sharleen che non c’era niente che avrebbe potuto fare.

«Mi dispiace» disse Emily al telefono. «Ma è meglio così.»

***

DETECTIVE RAMONE: Grazie per avermi raggiunto al telefono, dottoressa Love.

SHARLEEN LOVE: Di che cosa si tratta? Emily sta bene?

DETECTIVE RAMONE: Sta… bene. Ma la situazione è un po’ complicata. Abbiamo scoperto che ha chiamato il suo numero più volte nelle ultime quarantotto ore. Ha parlato con la signora Brown durante una di queste chiamate?

SHARLEEN LOVE: Di che cosa si tratta? Non risponderò alle domande senza aver parlato con il mio avvocato. C’è il segreto professionale tra medico e paziente.

DETECTIVE RAMONE: Non le chiedo di violare la riservatezza, mi basta sapere cosa le ha detto l’ultima volta che ha chiamato. Pochi minuti dopo, un uomo è stato ucciso.

SHARLEEN LOVE: Emily non ha ucciso nessuno, questo ve lo posso dire. Lei non è… Stava chiamando per qualcosa di completamente diverso.

DETECTIVE RAMONE: Dottoressa, Emily ha mai parlato di suicidio con lei?

SHARLEEN LOVE: Penso che vorrei consultarmi con un avvocato prima di continuare.

***

«Oh, Dio.» Emily si fermò bruscamente quando uscì dall’ascensore al piano di Henry. «Ginger, non mi aspettavo di vederti qui.»

Ginger aveva l’aria afflitta e trafelata, e un secchiello del ghiaccio in mano. Si fermò per un istante sentendo la voce di Emily. Si voltò, ed Emily si rese conto che doveva averla colta nel bel mezzo di un’operazione di vestizione. Aveva i sandali da spiaggia, un vestito con la cerniera non del tutto chiusa e i capelli appuntati su un solo lato della testa.

«Emily» disse Ginger in tono piatto. «Vado di fretta e non posso parlare. Poppy ha vomitato dappertutto, e tutta la stanza è un casino.»

«Questo… mi dispiace, ma non posso aspettare.» Emily si trovò a tendere le braccia a Ginger. L’alcol le offuscava la vista e rendeva difficile trovare le parole, ma desiderava chiudere con la sua vecchia amica. Ne aveva bisogno. «Ho bisogno di parlarti.»

«Hai avuto quindici anni per parlare con me, Emily» disse Ginger. «Non mi interessa una conversazione tra ex amiche in questo preciso istante. Devo badare a mia figlia.»

«Si tratta di Daniel.»

«Non m’importa più del passato» disse Ginger. «Io ho Frank, tu hai Daniel… tutto risolto. Abbiamo avuto tutti quello che ci meritavamo. È questo che volevi sentire?»

Emily si fermò di colpo. Ginger aveva ragione? Si era meritata Daniel? Si era meritata tutto quello che le era successo? Il pensiero era nauseante e cupo e si fece strada attraverso l’alcol fino al buco nel cuore di Emily. Forse sapeva la verità da sempre, e c’era voluta un’estranea per dare vita alle sue peggiori paure.

«Non sai cosa ho passato» disse Emily sottovoce. «È stato terribile. Ho pagato cento volte per i miei errori.»

«Senti, non sono felice di sentire che stai male, Emily, ma cosa posso dire? Il karma ha un modo suo per rifarsi sulle persone. Ora, se vuoi scusarmi, ho davvero bisogno di dare una ripulita a questo casino e mettere mia figlia nella vasca da bagno. Non ho finito di vestirmi e sono già in ritardo per la cena.»

«Non ho una famiglia» sussurrò Emily. «Non ho nessuno, Ginger.»

«Gesù, cosa vuoi che ti dica? Seriamente, non ho tempo per questo adesso.» Ginger si strinse al petto il secchiello del ghiaccio e superò Emily, fece qualche passo e poi si voltò. «Sei così egoista, Emily. Cos’è che non capisci? Sei chiaramente ubriaca, di sicuro di champagne assurdamente costoso, e io sono qui a ripulire del vomito del cazzo.»

Emily si sentiva debole mentre guardava Ginger, troppo preoccupata per concederle anche solo un po’ di tempo. Fu con una chiarezza sorprendente, nonostante la sua mente annebbiata, che capì che era giunto il momento.

Senza pensare, Emily si fece avanti e allungò un braccio verso Ginger. Appena le sue dita toccarono il vestito dell’altra, Ginger si ritrasse e abbassò gli occhi. Emily le sfiorò la guancia con un bacio rapido e quando indietreggiò, riusciva a malapena a parlare.

«Mi dispiace tanto, Ginger» mormorò. «Spero che un giorno capirai.»

Emily sentiva gli occhi di Ginger su di sé mentre si girava e se ne andava, ma non si guardò indietro. Se l’avesse fatto, se Ginger le avesse offerto anche un minimo segno di amicizia e di perdono, la sua risolutezza sarebbe crollata, e lei non poteva permettere che accadesse. La decisione era presa.

Emily arrivò fuori dalla stanza di Henry, vestita con l’abito rosso che aveva comprato con i risparmi di mesi, se non altro per mettere in scena un bello spettacolo per Kate, Whitney e Ginger, e bussò. La sua mente era confusa, oscura.

Chiuse gli occhi, ondeggiando contro la porta, mentre la voce del medico le risuonava in testa. Mi dispiace, non possiamo fare altro. Non poteva farci niente.

«Emily, stai bene?» Henry aprì la porta e l’aiutò a mettersi in piedi. «Mi stai crollando addosso.»

Lei alzò la testa, chiudendo un occhio per concentrarsi su Henry. «Sei… ah, vai alla cena.»

Henry era vestito di tutto punto, e si stava allacciando un polsino. «Sei ubriaca.»

Invece che solidale, sembrava infastidito. «Entra, devi sdraiarti.»

«Vorrei, ma, ah, non posso.»

«Perché no?»

Henry era decisamente irritato, notò Emily. Nonostante la mente annebbiata, si capiva che lui non era felice di vederla.

«Sono… sei arrabbiato con me.»

«Cazzo» disse Henry. «Non sono venuto qui per fare da babysitter a una donna adulta, Emily. No, non sono felice di vederti, e soprattutto non in questo stato. Riesci a malapena ad aprire gli occhi.»

Non sei molto carino, pensò Emily.

Ma era la prova di cui Emily aveva bisogno. Sharleen non aveva risposto, Ginger non aveva perdonato, Henry si era buttato alle spalle il loro flirt, e non c’era nessuno al mondo che la volesse. Nessuno che avesse bisogno di lei. Patetica, debole vecchia Emily, che rubava l’ossigeno che qualcun altro meritava di più.

«Perché non vai?» disse Emily. «Lasciami dormire sul tuo letto. Vai alla festa e dimenticati di me.»

Henry imprecò di nuovo, l’aiutò ad andare a letto. Quando lei si sdraiò, lui le lanciò un’occhiata piena di disgusto, che le fece venire le lacrime agli occhi.

«Scusa» riuscì solo a sussurrare mentre Henry usciva infuriato, e la porta si chiudeva dietro di lui.

***

DETECTIVE RAMONE: Mi dica esattamente cosa è successo nel patio.

EMILY BROWN: Ho rubato una pistola a Henry Anonimo. Le ho già detto che sono andata a letto con lui, quindi è stato abbastanza facile potermi sdraiare nella sua stanza. Voi uomini siete tutti uguali.

DETECTIVE RAMONE: Quindi, lei aveva la pistola quando è tornata nel patio?

EMILY BROWN: Sì. Mi sono un po’ persa quando ho lasciato la sua stanza, avevo bevuto, ma alla fine sono scesa di sotto. Volevo andare fuori. Pensavo che sarebbe stato terribile per Henry, o per una povera cameriera, trovarmi morta nella stanza. Ma quando sono arrivata, Sydney era già svenuta. E quel bastardo era in piedi sopra di lei.

DETECTIVE RAMONE: Che cos’ha fatto quando l’ha trovato lì?

EMILY BROWN: Ho alzato la pistola e gli ho sparato.

DETECTIVE RAMONE: Dov’era Lydia in quel momento?

EMILY BROWN: La bambina?

DETECTIVE RAMONE: Sì. La bambina.

EMILY BROWN: Non lo so.

DETECTIVE RAMONE: Signora Brown, ho un enorme problema con la sua confessione, come la chiama lei.

EMILY BROWN: Perché? Avevo i mezzi e il movente.

DETECTIVE RAMONE: Immagini allora la mia confusione, quando altre tre donne hanno tutte testimoniato che quell’uomo non è morto a causa di un colpo di pistola. Un’autopsia sarà in grado di confermare questo dettaglio abbastanza facilmente. Il che mi porterebbe a credere, signorina Brown, che qualcuno abbia sparato a quell’uomo quando ormai era già morto. [PAUSA] Perché non rivediamo la sua storia un’altra volta?