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«Oh, ciao, Lulu!» disse Kate sorpresa, quando le porte dell’ascensore si aprirono su un volto familiare. «Va tutto bene? È tardi, pensavo fossi andata a letto.»

Kate era ancora scossa per la sua nuova teoria su Sydney ed elaborò la presenza di Lulu più lentamente del normale. Era tornata nella sua stanza per iniziare la sua routine di prevenzione dei postumi della sbornia dopo la sua sosta alla reception per prendere i cuscini per Sydney. Kate aveva imparato presto che anche gli happy hour eleganti portavano a un mattino molto poco elegante se non si eseguiva un attento contenimento dei danni.

Anche nelle sue notti alcoliche più terribili, Kate era orgogliosa del suo rituale: aspirina, crema per il viso, un litro d’acqua, una tisana e una maschera per capelli. Magari per qualcuno sarà stata ossessiva, ma mentre tutti i colleghi si presentavano al lavoro con gli occhi cisposi e il mal di testa dopo la festa di Natale, Kate era sempre fresca come un fiore. Era particolarmente utile avere una routine così diligente in notti come questa, quando la sua mente era occupata da pensieri di identità nascoste e stanze d’albergo pagate in contanti.

Lulu espirò lentamente. «Vado fuori a schiarirmi le idee per un po’.»

Kate lanciò uno sguardo impaziente all’orologio. Se non avesse iniziato presto, domani sarebbe stata un disastro, e Kate voleva essere in forma nel caso in cui avesse incontrato Max dopo la rottura. Non per cercare di riconquistarlo, ma per ostentare ciò che lui aveva perso.

«Oh, Lulu» disse, invece della scusa concisa che si era preparata per scappare nella sua stanza. Questa volta si sforzò di aggiungere solidarietà alle sue parole, nonostante la routine rinviata. «Sei sicura di sentirti bene?»

La donna sembrava più vecchia di prima, decisamente più anziana. Lulu vestiva con un’eleganza appariscente: anelli, splendidi orecchini, una meravigliosa collana, ma ora sembrava così stanca. Il trucco sul viso si era sbiadito e le spalle erano curve. Non sembrava che le importasse del suo aspetto.

«Possiamo prendere un bicchiere di vino, magari?» Kate suggerì, combattendo l’impulso di guardare di nuovo il suo orologio. Avevano già passato ore al bar. Cos’altro potevano dirsi a quest’ora? «Potrebbe essere utile?»

L’offerta di Kate veniva dalla cultura che si era fatta leggendo libri sui rapporti umani, nella speranza di capire meglio il resto della popolazione. Voleva relazionarsi con gli altri in maniera normale, simpatica, ma non le veniva naturale. (La gente provava davvero così tante emozioni in continuazione?) A volte, Kate doveva inventarsela, la simpatia per gli altri.

La donna più anziana alzò lo sguardo speranzosa, ma dopo un attimo scosse la testa. Un’ondata di senso di colpa si riversò su Kate. Sicuramente i rituali a base di aspirine e creme avrebbero potuto aspettare mezz’ora per dare conforto a… un’amica. Kate non era sicura di cosa fosse l’amicizia, ma di sicuro sentiva che tutte e cinque avevano sviluppato o ristabilito una sorta di legame nel bar all’inizio della serata.

«No, non voglio rubarti altro tempo» disse Lulu. «È tardi, e questo non è un tuo problema. Vado a leggere un po’ nell’atrio e poi vado a letto.»

«Bene, ma se cambi idea, sono al nono piano, stanza 913. Bussa se vuoi bere un drink sul mio balcone e parlare… starò sveglia per almeno un’altra ora.»

«Ti ringrazio» disse Lulu. «Ma starò bene. Buonanotte, Kate.»

«Buonanotte.» Kate entrò nell’ascensore e premette il pulsante due volte prima che Lulu avesse il tempo di salutarla.

Mentre l’ascensore saliva, Kate rifletté su Lulu. In un certo senso, riusciva a vedere delle somiglianze tra se stessa e lei, e l’idea la spaventava un po’. Lulu era meravigliosa, non c’era niente da dire sulla sua personalità. Era una donna di classe e ricca, squisita, una donna da ammirare, senza dubbio.

Ma quale donna voleva essere da sola a quasi settant’anni? Lulu non l’aveva detto apertamente, ma era chiaro che era turbata da qualcosa, e sulla base della loro precedente conversazione, Kate immaginava che c’entrasse suo marito. Se Pierce l’avesse lasciata, Lulu non avrebbe avuto più un marito, niente figli, probabilmente pochi familiari. E anche se grazia, fascino e ricchezza l’avevano portata lontano nella vita, che cosa importava ora che si ritrovava da sola?

Kate rifletté sulla propria vita, su ciò che era effettivamente cambiato negli ultimi quindici anni dall’ultima volta che aveva visto le sue amiche. Non lei, questo era sicuro. A parte un gusto crescente per il lusso e una casa più bella, Kate non era esattamente dove era già a venticinque anni? Single, senza figli… da sola.

Il prossimo decennio prometteva di essere ancora più cupo, semmai. A venticinque anni, aveva cercato il successo. Ora l’aveva, più di quanto si sarebbe mai immaginata. Era già diventata socia e, anche se poteva raccogliere più soldi, più clienti, più fama, era davvero solo questo che le interessava?

Per la prima volta, quel pensiero fu estenuante. Era da anni che andava a caccia di soldi. Li aveva presi, catturati, conservati.

Mentre Sydney (o chiunque fosse) desiderava i soldi per far sparire i suoi problemi, Kate desiderava i problemi che il denaro poteva risolvere. Più soldi, più problemi: così diceva il proverbio. In un certo senso, i problemi di Sydney sono così semplici, pensò Kate quando l’ascensore arrivò al nono piano. Uscì, entrò nella sua stanza e crollò sul letto.

I problemi di Sydney erano reali, concreti. Non ci sono abbastanza soldi? Trova un lavoro. Non c’è abbastanza cibo? Comprane di più. Sì, naturalmente Kate si rendeva conto che le cose non erano così semplici, ma in un certo senso lo erano. Erano bisogni primordiali che dovevano essere soddisfatti con un percorso chiaro.

Ma i fogli di calcolo e le risposte non c’entravano niente con l’incapacità di Kate di rimanere incinta. I medici non avevano risposte. Avevano tutti i test ma nessuna risposta. Tutte le iniezioni, tutte le medicine e nessuna soluzione. Potevano trasferire gli embrioni nel suo corpo e costringerla a ovulare fino a farla diventare blu, eppure nessuna somma di denaro poteva riparare i pezzi rotti di Kate. Anche se era il suo sogno. Accidenti, se lo era. Cosa avrebbe dato per una soluzione facile e semplice. Immaginava già l’annuncio: Il tuo utero ti sta dando problemi? Aggiustalo con tre comode rate da $999,99!

«Maledizione, utero!» disse Kate. «Perché cazzo sei così inospitale?»

Lo sfogo la riportò alla realtà. Cercò nella borsa l’aspirina e l’acqua e si sedette sul letto.

Prese una pillola e la mandò giù, sentendo a malapena il peso della medicina sulla lingua.

La luce blu del suo computer lampeggiava dalla scrivania, e pensò di dare un’occhiata alle e-mail; aveva detto a qualche collega che avrebbe controllato ogni tanto, ma si era lasciata trasportare al bar e aveva ignorato tutto il resto.

Aprì il portatile, ma invece di cliccare sulla cartella di Outlook che le avrebbe mostrato le solite rotture di scatole da parte dei suoi colleghi, si mise a digitare un nome nuovo e familiare. Il nome di Sydney Banks apparve sulla barra di Google.

Kate esitò, con il dito sul tasto Invio, poi lo premette e si appoggiò allo schienale. Magari non esce niente, pensò. Se Sydney avesse dato a tutti loro un nome falso, non ci sarebbe stato nulla da trovare. Ci vollero solo pochi millisecondi perché Google restituisse i risultati, e scoprì che c’erano più donne di nome Sydney Banks, e anche un uomo (molto bello) in Australia. Kate fece una rapida scrematura dei risultati che non corrispondevano alla donna che aveva conosciuto. Tuttavia, quando cliccò sulla scheda Immagini, i risultati furono più sorprendenti.

Infatti, eccola lì, Sydney Banks, sorridente sullo schermo. Certo, non c’erano molte foto di lei, ma ce n’erano abbastanza. Mentre l’immagine di Kate era ovunque nel web, rimbalzava da articoli di giornale al sito web del suo studio legale, lei sapeva che tanti altri preferivano una maggiore privacy, e Sydney sembrava essere una di loro.

Kate cliccò sul link in alto associato al profilo di Sydney e arrivò a una pagina Facebook. Le impostazioni della privacy la rendevano visibile solo agli amici; ma anche se non si vedeva molto, quello era chiaramente il profilo di Sydney. Qualche minuto in più di scavo portò alla luce un articolo sulle giornate delle cheerleader del liceo di Sydney e un breve saggio sul suo volontariato pomeridiano in un rifugio per senzatetto; Kate si convinse che Sydney Banks fosse esattamente chi diceva di essere. Allora perché aveva pagato in contanti e usato un nome falso per registrarsi al resort? L’unica soluzione era quella a cui Kate era già arrivata, cioè che Sydney fosse in fuga da qualcosa, o qualcuno.

Kate sospettava che il padre di Lydia c’entrasse in qualche modo. Sydney era stata vaga sui dettagli della sua separazione, e il resto delle donne era stato troppo educato per insistere. Ma era possibile che la storia si allargasse in territori più pericolosi di quanto chiunque di loro sospettasse?

Sempre riflettendo sui recenti sviluppi, Kate chiuse il browser e controllò alcune e-mail dei suoi assistenti e partner, lasciando che la monotonia noiosa del lavoro prendesse il sopravvento.

Rispose alle e-mail urgenti e dette un’occhiata a quelle che non lo erano, prima che tornassero a galla i pensieri della serata, e il dito sul mouse ricominciasse a prudere.

Kate aprì una nuova scheda di ricerca.

Non era ancora sicura di cosa stesse cercando. Tutto ciò che sapeva era che non voleva che i prossimi vent’anni fossero uguali agli ultimi. Non avrebbe potuto sopportare di finire da sola e senza figli. Come Lulu, in un certo senso, pensò tristemente. Povera Lulu.

Kate non si era mai permessa di cercare su Google la parola adozione prima d’ora. Le era sempre sembrato un segnale di fallimento. Non le faceva piacere ammetterlo, ma aveva sempre pensato all’adozione più che altro come a una forma di beneficenza: una cosa eccellente, meravigliosa. Un modo davvero magico per collegare i genitori che volevano un figlio ai bambini che avevano bisogno di una casa stabile. Kate l’approvava incondizionatamente! La sosteneva. Almeno una volta all’anno andava a un evento per le adozioni con un abito da sera strabiliante e un libretto degli assegni aperto.

Ma non l’aveva mai presa in considerazione per sé. Kate era abituata a fare a modo suo, a far funzionare le cose come dovevano. Non aveva mai pensato a sé come a qualcosa al di là di ogni possibile riparazione.

Si ritrovò a digitare furiosamente sulla tastiera mentre osava iniziare a pensare realisticamente al suo futuro.

Adozione.

Madre surrogata.

Con un respiro profondo, Kate provò un senso di avventura quasi vertiginoso. Forse era così che le cose dovevano andare, forse doveva prendere quella strada da sola. Una madre single, proprio come Sydney, ma con i soldi. E non in fuga. Okay, non era affatto come Sydney, se non per il fatto che entrambe sarebbero state sole.

Kate non era avida. Conosceva i rischi, aveva trentotto anni e non stava ringiovanendo. Non chiedeva tre gemelli o una famiglia di cinque persone come Ginger, solo un piccolo umano per sé. Qualcuno da tenere in braccio, da vestire, da nutrire e da amare.

Con una scarica di adrenalina, Kate compilò un modulo con cui richiedeva maggiori informazioni e una consulenza. Una finestra di dialogo la informò che avrebbe ricevuto una telefonata durante il giorno lavorativo successivo.

Kate si pulì le mani (che in qualche modo avevano cominciato a sudare) sul copriletto prima di alzarsi. Stava già immaginando l’incontro con l’agenzia per le adozioni: «Sì, vorrei un bell’uomo come padre, per favore! Intelligente… decisamente intelligente. Forse un professore? Un astronauta? E come madre, che ne dice di un medico?».

Sì, pensò Kate con un sorriso. Non aveva affatto bisogno di Max.

Sapeva che stava correndo un po’ troppo. Tremava per l’emozione, il che era ridicolo. Non aveva fatto altro che cercare su Google un sito web. Ma era come se una strada si fosse aperta davanti a lei, e se c’era una cosa che Kate apprezzava, era un percorso specifico e diretto per risolvere i suoi problemi.

Era ancora piena di adrenalina quando si trasferì in bagno e iniziò la sua routine. Sotto la doccia calda, Kate lasciò vagare i pensieri tra madri surrogate e adozioni e la lista sempre più lunga di cose da fare una volta tornata in città.

Fu a metà della sua routine che Kate avvertì un senso di nausea, che prontamente ignorò. Una pessima idea, visto che riuscì a malapena a uscire dalla doccia prima di arrivare al water e rimettere il contenuto dello stomaco.

Se solo avesse iniziato prima la sua routine anti-postumi.