84.
La mattina seguente l'equipaggiamento era sparito. Ora non avevano più nulla.
Eppure avevano preso la precauzione di riporre tutto all'interno della tenda. Perciò qualcuno doveva averla aperta per introdursi e rubare gli zaini. Ma perché? Se erano stati gli «Altri», perché non li avevano uccisi?
Féraud stava zitto, con lo sguardo nascosto dagli occhiali scuri.
Jeanne aveva recepito il messaggio. Dovevano arrivare sulle terre di Alfonso Palin senza protezione, puri.
Lei era ormai convinta che i non nati sottostessero agli ordini del vecchio Centauro. E veneravano suo figlio: Joachim.
«Usciamo», disse.
Prima di farlo lanciarono un'occhiata all'esterno. Tutto era avvolto in una foschia verdastra. Erano spariti anche i loro vestiti stesi sui cespugli. Nessuna impronta. Nessun segno di passaggio. Niente fronde strappate né ramoscelli spezzati. Pareva che i ladri fossero creature di fumo, immateriali quanto la nebbia che li circondava.
Jeanne raggiunse il sentiero pochi metri più in là. Nessuno. Se non erano già morti, rifletté, significava che sarebbero potuti giungere a destinazione.
E la destinazione era vicinissima...
Seguire il sentiero di laterite, sulla destra.
Il filo rosso fino alla porta degli inferi.
Si misero in cammino, tremanti, a stomaco vuoto, senza curarsi di ripiegare la tenda. Un'ora. Forse due ore.
Non guardavano l'orologio. Procedevano come sonnambuli attraverso la coltre di nebbia. Jeanne immaginò che fosse il fiato di un terribile mostro. Loro si muovevano nelle sue fauci a forma di cratere...
All'improvviso apparve un grande terreno piatto e diboscato, ombreggiato solo da qualche palma. Il luogo ricordava l'estancia di Fernando ma, dopo tutti quei chilometri di giungla, dava l'impressione di essere un enorme cerchio nel grano. Un segnale evidentissimo, un avvertimento che rivelava una potenza superiore.
Con prudenza, presero ad avanzare su quel terreno, allo scoperto. Da quando erano partiti non avevano scambiato una parola. La giungla aveva reso superfluo l'uso del linguaggio. Ben presto, in fondo alla radura apparve un gruppo di edifici. Rustici di mattoni rossi. Steccati di legno chiaro. Qualche cavallo con la criniera rasata.
Uno scenario inoffensivo.
E una calma assoluta.
Niente cani. Niente sentinelle. Non un segnale di minaccia. Jeanne si guardò intorno alla ricerca della pista di atterraggio. La scorse sulla destra, attraverso dei cespugli di eucalipto. Nessun aereo in vista. Dunque l'ammiraglio e suo figlio non c'erano... Impossibile.
Le erbe selvatiche cedettero il passo a prati tosati di recente. Jeanne individuò la villa in mezzo agli altri edifici. Imponenti muri imbiancati a calce e tetti di lamiera. Si girò verso Féraud, che fece segno di sì con la testa. Erano arrivati. Buon Dio, l'avevano fatto...
Jeanne lanciò un'ultima occhiata tutt'intorno. Non il grido di un uccello. Non il ronzio di un insetto. La solitudine del luogo era opprimente. Tutto sembrava pietrificato da una minaccia incombente...
Lei salì i gradini. Girò la maniglia di una porta protetta da una zanzariera: non era chiusa a chiave. Si ritrovò nel soggiorno tipico di una fattoria padronale. Piastrelle di terracotta sul pavimento. Alto camino con cornice di legno. Pelli di coccodrilli e di cervi appese alle pareti. Poltrone e divano attorno a un tavolino di legno nero su cui erano appoggiati telecomandi orientati verso un grande schermo in un angolo. Cosa poteva esserci di più normale? Jeanne non aveva immaginato così l'antro del Centauro.
Si diressero verso il corridoio. Jeanne s'imbatté in uno specchio e non si riconobbe. Uno scheletro che nuotava nei vestiti di tela cachi. Il viso scavato era grigio, gli occhi cerchiati di nero. Lei, che si sentiva soltanto stanca, e stranamente al sicuro da ogni pericolo, non era che un cadavere pronto per la sepoltura.
Féraud la superò nel corridoio. Jeanne lo seguì. Provava, a ogni passo, una strana sensazione. Qualcosa non andava. Tutto era troppo facile. Una porta aperta. Féraud si fermò. Jeanne lo raggiunse sulla soglia.
L'ufficio di Alfonso Palin.
Jeanne oltrepassò Féraud ed entrò. Pareti intonacate di bianco. Pavimento di rovere lucidato a cera. Mobili in stile castigliano. Una scrivania disposta in diagonale faceva angolo con un camino di pietra. Le portefinestre si aprivano sul terreno recintato. Il sole mattutino penetrava con violenza nella stanza, suggerendo piacevoli colazioni, giornate promettenti, passeggiate a cavallo...
L'impianto di climatizzazione funzionava a pieno regime. Da ghiacciare le ossa. Jeanne avanzò. Un dettaglio la incuriosì. Sugli scaffali che correvano lungo le pareti erano disposte numerose fotografie incorniciate.
C'erano scene di famiglia raffiguranti sempre un uomo e un ragazzino o il ragazzino da solo.
Jeanne faticava a respirare, come se un peso le schiacciasse il petto.
Sapeva che la chiave di tutto era in quelle foto.
Alfonso Palin e Joachim.
Il Centauro e suo figlio.
Fece un passo e afferrò una cornice.
Solo allora capì la verità.
Era lampante, eppure l'idea non l'aveva mai nemmeno sfiorata.
Dietro di lei echeggiò la voce di Joachim.
La cosa che era in lui cantava: ...
se iran contigo
Me olvidaras, me olvidaras
funto a la estación lloraré igual que un nino
Porque te vas, porque te vas,
Porque te vas, porque te vas...
Con una calma incomprensibile, inumana, Jeanne ripose il ritratto del padre con il figlio. Senza voltarsi.
Alfonso Palin disse con la sua voce rauca, in spagnolo: «Zitto, Joachim. Jeanne deve sapere la verità».
Lei strinse i pugni e finalmente si girò.
Non c'era nessuno davanti a lei.
Nessuno, a eccezione di Antoine Féraud.
Antoine Féraud che era anche, adolescente, su tutte le pareti: in tenuta da polo, in uniforme scolastica, su una barca a vela, con gli sci...
O fra le braccia del padre.