67.

La sede dell'associazione delle Madres de Plaza de Mayo si trovava a sud di avenida Corrientes. Jeanne non aveva fatto fatica a rintracciare l'indirizzo: le Madri erano conosciute. Il taxi attraversò plaza de Mayo, con il palazzo presidenziale, poi percorse avenida Julio A. Roca e sbucò in calle Piedras.

Durante il tragitto Jeanne aveva spiegato il suo piano a Féraud. Da trent'anni le Madri costituivano un fronte di resistenza compatto contro i generali. Si erano organizzate in comitati, dove prestavano la loro opera avvocati, investigatori, genetisti ed esperti di medicina legale. Grazie a queste donne i criminali non potevano dormire sonni tranquilli. Tanto più che esse si recavano regolarmente davanti alle loro residenze per gridare: La casa no es un penal! («La casa non è una prigione!») o Si no hay justicia, hay escrache popuInt! («Se non c'è giustizia, ci sono le denunce popolari!»). Durante il suo primo viaggio, Jeanne aveva seguito una di queste manifestazioni ed era rimasta impressionata da quelle donne anziane, tutte con un piccolo scialle bianco sulla testa, che cantavano, urlavano e scandivano al ritmo dei tamburi il proprio diritto alla giustizia.

Negli ultimi anni era stata fondata una nuova associazione, Abuelas de Plaza de Mayo, dedita a un compito specifico: identificare e recuperare i bambini «rubati» dalla dittatura. Fra il 1976 e il 1983 i neonati dati alla luce dalle prigioniere incinte erano stati affidati a famiglie «onorevoli», vale a dire di destra. Capitava che un ufficiale desse un neonato alla propria donna delle pulizie che non poteva averne perché sterile. Alcuni avevano organizzato un vero e proprio traffico, vendendo i piccoli a famiglie ricche. Accolti nel mondo dei carnefici dei loro veri genitori, centinaia di bambini avevano di conseguenza perso sia l'identità sia l'origine.

Le Nonne avevano organizzato una vasta campagna di sensibilizzazione, esortando tutti i trentenni argentini che avessero dubbi sulla propria origine ad andare a farsi prelevare il sangue presso le loro sedi, in modo da confrontare il DNA con quello dei desaparecidos del regime, ossia con il sangue delle nonne, tutte parenti delle vittime. Grazie a questi confronti era stato possibile identificare numerosi bambini rubati e restituire loro i veri genitori o, almeno, il vero nome.

Madri e Nonne dell'associazione conoscevano molto bene i loro nemici. Avevano messo insieme fascicoli, creato archivi e ricostruito organigrammi. Sapevano dove abitavano a Buenos Aires. Erano al corrente delle loro manovre per sfuggire alla giustizia, degli intrallazzi finanziari, delle schiere di avvocati. L'associazione era il contatto ideale per rintracciare Vinicio Pellegrini. Il problema era sempre lo stesso: di domenica l'ufficio poteva essere chiuso.

Il taxi si fermò davanti al numero 157 di calle Piedras. Di nuovo Jeanne pagò la corsa e lanciò uno sguardo irritato a Féraud. Ciò che vide la calmò. Livido, teso, spettinato, lo psichiatra appariva sfinito. Pareva avere dieci anni di meno rispetto a quando lo aveva conosciuto, quella sera al Grand Palais. Sembrava una recluta dell'accademia di polizia che avesse appena ricevuto un colpo di manganello sul cranio. Si ricordò che la mattina, sull'aereo, Féraud aveva letto il diario di Pierre Roberge. A quelle rivelazioni si sommavano adesso le atrocità argentine. Era un bel po' di roba per uno psichiatra da salotto...

Per un istante Jeanne ammirò la finezza dei suoi lineamenti, gli occhi neri, le sopracciglia ben disegnate da attore messicano. Era davvero un bel ragazzo, ma non si dimostrava all'altezza di un'indagine sul campo. Si commosse a guardarlo. Suo malgrado, tese la mano per sistemargli una ciocca di capelli. Rimpianse subito quel gesto di tenerezza. Per recuperare terreno gli diede una pacca sulla spalla, aprì la portiera e lo esortò:

«Vamos, companero!».

Calle Piedras era fredda e deserta. Gli edifici sembravano disabitati. Non avevano il codice del citofono e, per poter entrare, dovettero aspettare una decina di minuti, finché qualcuno uscì dal palazzo. Avevano freddo. Avevano caldo. Non riuscivano a scrollarsi di dosso, come fosse una malattia, la notte faticosa e le scomode ore di volo.

Anche all'interno regnava un'atmosfera di solitudine. Corridoio interminabile. Pareti grigie. Pavimento marrone a scacchi bianchi. Porte tutte uguali. Trovarono l'ascensore, un montacarichi chiuso da una griglia.

Terzo piano. Altro corridoio. Altra successione di porte. Quella delle Madri era giù in fondo. C'era incollata sopra una fotografia in bianco e nero di plaza de Mayo.

Jeanne suonò. Non successe niente. Dovevano rassegnarsi a rientrare in albergo, cenare in qualche piccolo ristorante e giocare ai turisti fino alla mattina dopo. Ma improvvisamente udirono il rumore della serratura che scattava e la porta si aprì. Jeanne si aspettava di vedere comparire una vecchia, un po' madonna e un po' strega.

Invece il personaggio sulla soglia non aveva niente a che vedere con questo cliché. Era un uomo sulla quarantina con una camicia a righe rosa, pantaloni di buon taglio e mocassini con le nappe. Più che a un militante somigliava a un banchiere.

Jeanne, dopo avergli detto il proprio nome e quello di Féraud, iniziò a spiegare che venivano da Parigi, ma l'altro la interruppe in un francese incerto.

«Parigi? Conosco bene Parigi!» disse ridendo. «Ci ho studiato. La Sorbona! Georges Bataille! La cineteca!»

Era un intellettuale... Perfetto per la frottola che avevano intenzione di propinargli: il progetto di un libro scritto a quattro mani sulla giustizia di fronte alle dittature. L'uomo ascoltò a malapena. Fece un passo indietro e scoppiò in un'altra sonora risata.

«Entrate! Sono Carlos Escalante e faccio anch'io il giornalista. Mi hanno lasciato le chiavi dell'ufficio per permettermi di svolgere le mie ricerche.»

S'inoltrarono in una stanza tappezzata di schedari di ferro, cassettiere di legno e armadi di compensato.

C'erano file e file di raccoglitori che arrivavano fino al soffitto, contrassegnati dalle targhette DESAPARECIDOS e BUSCAR EL HERMANO.

«Su cosa sta lavorando?» chiese Jeanne per mostrarsi gentile. «Sui desaparecidos delle dittature?»

«No. Sui bambini rubati e sulle maternità clandestine.»

Jeanne lanciò un'occhiata a Féraud, come per dire che poteva essere utile alla loro indagine. Escalante si accorse dello scambio di sguardi.

«L'argomento vi interessa?»

«Sì, pensavamo di dedicare un capitolo a questo problema. Mi pare di aver capito che diversi colpevoli sono stati condannati...»

«Bisogna intendersi sull'identità dei colpevoli. E sulla natura dei crimini...»

Carlos Escalante li invitò a sedersi intorno a un grande tavolo al centro della stanza, sul quale erano disposti alcuni computer. L'argentino aveva modi affabili e appariva sorridente e gioviale malgrado l'argomento della conversazione.

«La cosa interessante è che per i crimini contro i minori in Argentina non c'è prescrizione. Le amnistie non li riguardano. Gli episodi di bambini rubati hanno quindi permesso di incastrare alcuni generali che si erano sottratti alle altre accuse. Anche Jorge Rafael Videla è stato condannato nel 1998, con l'accusa di essere stato l'autore intellettuale del rapimento dei bambini e della falsificazione della loro identità. Oggi queste vicende prendono una strana piega. Ci sono giovani che addirittura portano in tribunale i genitori adottivi...»

Jeanne immaginò quell'universo da incubo. Donne che partorivano in luoghi di tortura. Bambini offerti come scatole di cioccolatini a Natale. Aguzzini che crescevano come propri i figli delle loro vittime.

Trentenni che trascinavano i genitori adottivi sul banco degli accusati e s'identificavano con ossa rinvenute nel deserto o sulle spiagge atlantiche dell ' Uruguay...

«I militari sono in carcere?»

Escalante scoppiò di nuovo a ridere. Era rimasto in piedi. Basso di statura, parlava a voce alta, con il mento alzato, come se volesse lanciare le sue frasi al di sopra di un muro. «Nessuno va in prigione in Argentina! Si resta semplicemente a casa propria.»

«Fra i casi che ha studiato, ricorda un bambino di nome Joachim?»

«Qual è il cognome della famiglia di origine? E quello dei genitori adottivi?»

Lei esitò, poi mentì. «Non lo so.»

«Se vuole, posso fare delle ricerche. Chi è?» s'informò il giornalista sedendosi.

«Un bambino di cui abbiamo sentito parlare. Non siamo neppure certi che esista realmente.»

Escalante aggrottò le sopracciglia. Per evitare domande al riguardo, Jeanne cambiò subito argomento.

«In realtà, cerchiamo l'indirizzo del colonnello Vinicio Pellegrini», disse.

«El Puma?» chiese l'altro, di nuovo sorridente. «Facilissimo. Basta leggere i giornali. Rubrica "VIP". Ma ve lo posso trovare anche qui.» Fece ruotare la sedia girevole come un dentista indaffarato e prese a cercare in un cassetto di ferro. «Ecco qua. Ortiz de Ocampo 362. Il quartiere più chic di Buenos Aires: Palermo Chico.»

«Crede che accetterà di parlare con noi?»

«Eccome! Pellegrini è agli antipodi degli altri generali. È uno spaccone. Un provocatore. E anche un tipo piuttosto carismatico. Per lo meno non usa il linguaggio fumoso dei politici.»

Jeanne e Féraud si alzarono contemporaneamente. Il giornalista li imitò, tendendo loro il post-it sul quale aveva annotato l'indirizzo.

«Potete andarci adesso. Lo troverete senz'altro in compagnia dei suoi amici. La domenica è il giorno dell'

asado! Da noi non c'è niente di più sacro della grigliata!»

Grangé Jean-Christophe - 2010 - L'Istinto Del Sangue
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