82.
Lì la terra era piatta.
Quaranta centimetri di dislivello ogni dieci chilometri, li aveva informati il pilota della chiatta. Un mondo stagnante dove la vegetazione aveva la funzione di ossigenare l'aria. Gli esteros, le lagune , si estendevano a perdita d'occhio. L'acqua e la terra vi facevano l'amore. Gli animali scivolavano fra le ninfee e le erbe selvatiche, invisibili. Lì il tempo non passava. E la nebbia copriva tutto, come a sigillare quell'universo pietrificato.
Seduta a prua della lancha, un'affusolata imbarcazione a motore scavata in un unico tronco d'albero, Jeanne provava la stessa sensazione di quando ci si immerge in un bagno troppo caldo. L'aria densa e torrida era immobile. Ogni gesto aveva l'impatto di una taglierina che trancia del nastro adesivo. Ci si calava in quell'atmosfera come gli isolotti di vegetazione si immergevano nelle acque nere. Jeanne provava anche un senso di purezza. L'uomo alla guida della barca aveva spiegato che gli acquitrini erano alimentati esclusivamente dalla pioggia. Le lagune non sono irrigate da nessun fiume e ciò le protegge da ogni genere di inquinamento.
L'uomo era un gaucho. Guardandolo, Jeanne si rese conto che nel lungo viaggio attraverso l'Argentina non aveva praticamente mai incrociato cavalli né sentito le note di un tango. Assurdo.
Quanto a quel gaucho, non aveva niente a che vedere con l'immagine di Gautier d'Épinal: un uomo con un grande cappello e folti baffi. Era un indio dalla pelle scura con la faccia da falco. Portava un berretto da baseball rosso e una maglietta larga e bucata. Solo i pantaloni, una specie di sarouel, e gli stivali di cuoio ricordavano che si trattava di un cavallerizzo professionista.
La lancha si insinuava nei bracci morti delle paludi attraversando una savana semiacquatica. Gli uccelli saltellavano delicatamente tra i giunchi e le canne. Oltre cominciava la foresta, una muraglia simile a quella che li aveva accompagnati mentre navigavano sul fiume.
Jeanne osservava l'acqua e ogni tanto scorgeva creature che avevano i colori del loro habitat. Grigio. Verde.
Toni cupi. Caimani enormi, immobili come dolmen. Rettili schivi, ciechi e legnosi. Serpenti che si potevano scambiare per canali di scolo... "La foresta non nata", si ripeteva lei. Un ecosistema in via di formazione, ancora immerso nel suo liquido amniotico.
Si inoltrarono sotto la volta vegetale. Le ramificazioni dei canali affondavano fra le erbe come i denti del pettine in una chioma. La nebbia pareva infittirsi. Jeanne scrutava in silenzio le rive, le radici fradice, le terre vischiose che sembravano labbra umide. L'aria era satura di odori di pesce, di fanghiglia putrefatta, di cortecce inzuppate.
Inspiegabilmente, lei sentiva che loro erano lì. I non nati. Si erano trincerati in fondo a quel labirinto inaccessibile, dietro la foschia simile a una gigantesca garza sopra una piaga. In quell'istante, come in risposta ai suoi pensieri, echeggiarono delle urla. Grida rauche che Jeanne riconobbe immediatamente. Le scimmie urlatrici. Le carayds. Gli strilli si sovrapponevano, si sfidavano, in un concerto straziante.
Jeanne lanciò uno sguardo a Féraud. Si capirono. Stavano per arrivare nel territorio degli uomini di Thanatos. Le scimmie erano le loro sentinelle.
Il loro sistema d'allarme.