33.

«Hai scoperto altro sulle telefonate di Taine?»

«Ne abbiamo già parlato.»

«Abbiamo parlato di numeri protetti. Hai identificato le persone che ha chiamato in Nicaragua e in Argentina?» «Per ora solo il tizio del Nicaragua.»

«Il suo nome?»

«Eduardo Manzarena.»

Al volante della sua auto, Jeanne estrasse di tasca il bollettino UPS sottratto nell'ufficio di Nelly. Sapeva già che quel nome corrispondeva a quello del mittente del plico. Formicolio nelle vene. Il 31 maggio scorso Nelly Barjac aveva ricevuto un pacchetto spedito da Manzarena, direttore di Plasma Inc. L'8 giugno Francois aveva chiamato quell'uomo, probabilmente un ematologo, uno specialista delle malattie del sangue e degli organi produttori di sangue.

«Non è tutto», proseguì Reischenbach. «Ho riesaminato l'elenco delle chiamate fatte dal tuo strizzacervelli, Antoine Féraud. Non solo le due ultime telefonate del lunedì, anche quelle del fine settimana. La domenica, alle cinque del pomeriggio, pure lui ha telefonato in Nicaragua. Un cellulare. Indovina di chi è?»

«Eduardo Manzarena.»

«Esatto. Non so come cavolo abbia fatto, ma hai individuato la pista più calda. E tutto succede a Managua.»

Jeanne rimase in silenzio. Sì, c'era un legame fra autismo, cromosomi e preistoria. Qualcosa di organico, di profondo, che forse era racchiuso in un campione di plasma nicaraguense...

«E tu», chiese Reischenbach, «come ti stai muovendo?» «Rivedo le persone con cui lavoravano le vittime.

Hélène

Garaudy, dell'istituto Bettelheim. Bernard Pavois...» «E accettano di rispondere alle tue domande?»

«Certo.»

«Non sono scocciati di ritrovarsi fra i piedi un giudice che vuole interrogarli?»

«Non hanno idea di come funzionano certe cose.» «Sanno che il caso non è di tua competenza?» insistette il poliziotto.

«Be', sai com'è, il prestigio del titolo...»

«Cosa cerchi esattamente?»

«Ne saprò di più stasera.»

«Sono le cinque, Jeanne. Non ti resta tanto tempo.»

«La cosa vale anche per te. Hai passato al setaccio la vita quotidiana delle tre ragazze?»

«Sì. Non c'è niente. Non un posto, non un nome in comune...»

«Eventuali furti o atti di vandalismo nei musei della preistoria?»

«Ho i risultati. Nada.»

«E dalla Scientifica? Niente di nuovo?»

«Se qualcosa di nuovo c'è, non chiamano di certo me.» «Sai a chi è stato affidato il caso?»

«No. Quando so i nomi ti chiamo.»

«In modo che stia alla larga da loro?»

«In modo che tu sappia chi sono i tuoi nemici.»

«Scopri chi è questo Eduardo Manzarena», disse Jeanne in tono più fermo, «di cosa si occupa la società Plasma Inc. di Managua e anche il nome dell'altro tizio che Taine ha chiamato in Argentina.»

«Jeanne, con stasera ho chiuso.»

«Siamo d'accordo. Ci sentiamo stanotte.»

Porte de la Chapelle era in vista. Jeanne lasciò la Périphérique e imboccò rue de la Chapelle. Aveva sviscerato l'autismo e la genetica. Restava la preistoria. Era diretta al laboratorio di Isabelle Vioti.

Giunta alla metropolitana sopraelevata, svoltò a destra, in boulevard de la Chapelle, poi a sinistra, in rue de Maubeuge, fino a raggiungere boulevard Magenta. Filò in direzione di piace de la République, ma deviò prima, in rue de Lancry, per poter prendere nel senso giusto rue du Faubourg-du-Temple. La sua piccola vettura era calda come un forno. L'aria condizionata non funzionava più da molto tempo. Aveva la sensazione di sciogliersi nel proprio sudore.

Si stava fermando davanti al numero 111 quando squillò il cellulare. Era un numero sconosciuto.

«Pronto?»

«Sono il comandante Cormier.»

Jeanne non parlò. Il nome non le diceva niente. «Le ho portato dei fiori stamattina.»

«Sì, certo...»

«Ho fatto delle ricerche sulle sostanze che potrebbero proteggere dal fuoco. Ho chiamato alcuni conoscenti che lavorano nel cinema, controfigure, stuntman. Stamattina sono stato un po' precipitoso: non esiste nessun prodotto in grado di proteggere la carne umana dal fuoco. Non al punto di permettere di esporre un corpo nudo alle fiamme senza rischio.»

«Lo immaginavo. La ringrazio. Io...» L'uomo nudo avvolto dalle fiamme che si batteva sul mezzanino con Francois Taine. Il mostro bruciato che non provava nessun dolore. Jeanne se l'era sognato?

«Tutto bene?» chiese il pompiere. «Come si sente?» «Va tutto bene. E grazie ancora per i fiori.»

«Grazie a lei per la scala.»

Jeanne uscì dall'auto e si accorse che stava tremando. I suoi nervi erano tesi come le corde di un'arpa, sul punto di rompersi.

Dopo qualche esitazione fra i cortili e gli edifici trovò il laboratorio, dietro un piccolo giardino. Vi regnava una grande agitazione. Le assistenti di Isabelle Vioti, in camice bianco, sistemavano le sculture su dei carrelli. Alcune trasportavano busti e teste. Jeanne scorse i capelli rossi della direttrice.

«Traslocate?»

Dato che la porta era aperta, Jeanne si era spinta sulla soglia. Isabelle Vioti la riconobbe. Asciugandosi le mani sul camice, le si avvicinò con il sorriso sulle labbra.

«Abbiamo deciso di rivoluzionare un po' il laboratorio. Per tentare di cancellare... insomma... capisce... Per cambiare l'aspetto del luogo.»

«Capisco.»

«I funerali di Francesca hanno avuto luogo stamattina. Non è venuto neanche un poliziotto. Nessuno mi ha richiamata. È normale? Avete trovato l'assassino?»

«Direi piuttosto il contrario.»

«Il contrario?»

«È stato lui a trovarci.» Jeanne si pentì subito della risposta. Era fuori luogo. «Non legge i giornali?» si affrettò ad aggiungere.

«Oggi non li ho letti, no.»

« Il giudice a cui era stato affidato il caso, l'uomo che era con me l'ultima volta, è morto. In un incendio. E

stato sicuramente opera dell'assassino.»

Isabelle Vioti impallidì. Il contrasto del viso con i capelli

color fuoco era degno di una tela di Klimt. Bianco e rosso. «Pensa... pensa che siamo in pericolo? Voglio dire qui?» «No. Possiamo parlare per qualche minuto?»

L'artista si sforzò di controllare la propria agitazione. «Venga.»

Andarono nella sala espositiva, quella in cui troneggiava il lungo tavolo nero. Le sculture erano sempre al loro posto. «Si accomodi. Cosa vuole sapere?»

«Ho bisogno di informazioni», fece Jeanne prendendo posto dietro il tavolo laccato.

«Sul nostro lavoro?»

«Sull'evoluzione della specie umana.»

Isabelle Vioti, che era rimasta in piedi, si mostrò stupita. «Ha qualche attinenza con la sua inchiesta?»

«Per ora brancolo nel buio.»

«Sta parlando di un processo di milioni di anni... Ci vorrebbe tutta la serata per...»

«Mi faccia un riassunto.»

La donna sprofondò le mani nelle tasche del camice bianco macchiato di argilla. Sembrava perplessa. Dopo qualche secondo domandò: «Vuole un tè?».

«Non si disturbi.»

«Nessun disturbo. Ne ho sempre un thermos.»

«Allora va bene. Nero e senza zucchero.»

Isabelle Vioti si allontanò per un istante, tornò con due tazze fumanti e iniziò a parlare. Dietro di lei le creature preistoriche sembravano ascoltare, studenti e al tempo stesso argomento della dissertazione.

«E convinzione che ci siamo differenziati geneticamente dalle scimmie fra i sei e gli otto milioni di anni fa. A quell'epoca, nell'Africa orientale, si è verificata una lunga spaccatura nel continente: la faglia del Rift. Il fenomeno ha provocato cambiamenti ecologici che hanno deciso il nostro destino. Da una parte, si è preservata la foresta equatoriale e le scimmie sono rimaste tali. Dall'altra, le terre si sono prosciugate e hanno dato origine alla savana. In questo nuovo contesto, la scimmia ha assunto la posizione eretta per poter vedere i predatori. Ha acquisito il bipedismo e si è trasformata in australopiteco, l'antenato dell'uomo, il cui esemplare più famoso è Lucy. Deve averne sentito parlare. Questa femmina è vissuta oltre tre milioni di anni fa. Ma c'è un problema.»

«Quale?»

«Lui.» Isabelle Vioti posò una mano su un essere nerastro, alto appena un metro. Una creatura che aveva tutto della scimmia a parte il fatto che stava ben eretta sui talloni.

«Toumai. È stato scoperto nel 2001. Abbiamo potuto ricostruirlo grazie a un calco del suo cranio e a poche ossa.»

«In che senso costituisce un problema?»

«È vissuto sette milioni di anni fa, sicuramente prima che si formasse la faglia del Rift. E poi viene dal Ciad.

Dunque, non può avere niente a che vedere con i cambiamenti ecologici.»

«Insomma, è incompatibile con la storia della spaccatura...»

«Ciò dimostra quello che i paleoantropologi ipotizzano da tempo. L'uomo è il prodotto di piccoli eventi simultanei, ai quattro angoli dell'Africa. Il clima, l'ambiente naturale, le difficoltà hanno spinto i vari membri della specie a entrare in contatto... Diverse famiglie hanno coabitato, si sono adattate, e poco per volta hanno disegnato la nostra evoluzione.»

«Dopo gli australopitechi, cos'è successo?»

«E apparso l'Homo habilis.» La Vioti si girò verso un altro personaggio. Meno peloso, un po' più alto, circa un metro e cinquanta, ma ancora piuttosto simile alla scimmia. «È vissuto almeno due milioni di anni fa.

Viene chiamato così perché ha incominciato a servirsi di utensili in pietra. Il suo cervello è più grosso. È

onnivoro. Ancora non caccia; è piuttosto uno "sciacallo" che si accontenta dei resti lasciati dalle belve o spolpa le carcasse degli animali morti. Un opportunista che abita in accampamenti di una decina di membri.»

«La tappa successiva?»

«L'Homo erectus. Risale a circa un milione di anni fa. Lui si sposta. In qualche decina di migliaia d'anni, raggiunge il Vicino Oriente e poi l'Asia.»

«Ha ricostruzioni di queste creature?»

«Sono dieci anni che aspetto un cranio... L'Homo erectus si differenzia in due famiglie, molto note. I neandertaliani da una parte, che scompariranno progressivamente, e gli Homo sapiens arcaici, i proto-CroMagnon, di cui sono state scoperte vestigia in Europa e in Medio Oriente, che diventeranno in seguito gli Homo sapiens sapiens. I famosi uomini di Cro-Magnon. I nostri diretti antenati...»

La donna si fece da parte per mostrare a Jeanne un essere più grande e robusto, coperto da una pelle di animale, che brandiva una lancia. I lineamenti marcati erano in parte nascosti da lunghi capelli. Avrebbe potuto essere il roadie di un gruppo hard rock o un assassino pazzo di un vecchio film dell'orrore.

«L'uomo di Tautavel, l'Erectus europeo. Il suo scheletro è stato scoperto nei Pirenei orientali. E vissuto quattrocentocinquantamila anni fa e appartiene alla specie dei neandertaliani. Più precisamente, è un anteneandertaliano... Non conosce ancora il fuoco. Si serve di utensili litici bifacciali. Caccia e vive in caverne da cui sorveglia i suoi predatori. Talvolta è cannibale...»

Jeanne era convinta che l'assassino, durante le sue crisi, si identificasse con uno di quegli esseri primitivi.

«Pratica qualche forma di religione?» domandò.

«La religiosità ha inizio più tardi, con le sepolture, circa centomila anni fa. Gli uomini di Neandertal e di CroMagnon veneravano le forze della natura.»

Jeanne pensò alle iscrizioni insanguinate sulle scene del crimine. «E a questo punto che dipingono sulle pareti delle caverne?»

«No. L'uomo di Neandertal non conobbe mai l'arte della pittura rupestre. Scomparve circa trentamila anni fa. Nel frattempo si sviluppò l'uomo di Cro-Magnon e, con lui, l'arte parietale.»

«E l'epoca delle pitture di Cosquer e di Lascaux?» «Sì, sono state eseguite in quel periodo.»

«Cosa mi sa dire di quegli affreschi?»

«Non è la mia specialità. Posso metterla in contatto con un esperto, se vuole. Un mio amico.» Isabelle Vioti si spostò verso un gruppo di uomini vestiti di pelli rovesciate, molto simili a sioux. «Ecco gli uomini di CroMagnon.»

Come la prima volta, Jeanne era sbalordita: si era sempre immaginata gli uomini arcaici come creature a metà fra l'uomo e la scimmia, vestite di pellicce e rintanate nelle caverne, In realtà gli uomini di CroMagnon assomigliavano piuttosto ai nativi americani, come li si vede nei film western. Capelli lunghi e neri, casacca e pantaloni di pelle, ornamenti, utensili sofisticati.

«Erano dei cacciatori-raccoglitori nomadi, molto abili nel taglio delle pietre, nel cucito, nella concia delle pelli... Ecco i primi passi dell'evoluzione della civiltà umana...»

«C'erano guerre fra clan?»

«No. Erano troppo occupati a sopravvivere. Si pensa persino che i gruppi si aiutassero a vicenda. In ogni caso, le unioni avvenivano fra membri appartenenti a clan diversi per evitare l'endogamia.»

A Jeanne sarebbe piaciuto farle qualche domanda riguardo alla proibizione dell'incesto, una delle leggi più antiche dell'umanità, ma l'argomento esulava dal contesto. D'altronde tutta quella spiegazione non le aveva rivelato granché sugli omicidi e sul loro autore. Sembrava che l'assassino avesse attinto segni e rituali in questo o quel periodo senza alcuna coerenza. Jeanne stabilì che il killer non possedeva una solida cultura antropologica, solo qualche nozione pescata a caso dai libri e dai musei...

«Poi», continuò la Vioti, «c'è stata la rivoluzione del neolitico, circa diecimila anni fa. Il clima si riscaldò. La steppa, popolata di mandrie sterminate, si trasformò in una grande foresta. I mammut si estinsero. Le renne e i buoi muschiati risalirono verso nord. E gli uomini, in qualche migliaio d'anni, iniziarono a padroneggiare l'allevamento e l'agricoltura. Fu allora che ebbe origine la violenza. Ogni tribù bramava le riserve del vicino: le scorte di cereali, le mandrie... Jean-Jacques Rousseau aveva ragione: la violenza è nata con la proprietà. In seguito ci fu la rivoluzione del metallo. Prima il bronzo, poi il ferro. Le religioni si affinarono e fece la sua comparsa la scrittura. La preistoria diventa così antichità...»

Jeanne rifletté. Non aveva un'idea chiara di cosa si aspettasse da quell'esposizione, ma non era emerso niente che facesse luce sul modus operandi dell'assassino. Nulla che permettesse di stabilire un legame fra la preistoria e le altre due ossessioni dell'omicida: l'autismo e la genetica. «Grazie per la lezione», disse dopo aver bevuto il tè, ormai quasi freddo. «Posso farle qualche domanda su Francesca Tercia?»

«Certo.»

«Da quanto tempo lavorava qui?»

«Da due anni.»

«Era specializzata in due diverse discipline, vero?» «Sì. Antropologia e scultura.»

«Com'era venuta in contatto con lei?»

«Stavo installando una scultura al museo di scienze CosmoCaixa di Barcellona e mi ha portato il suo curriculum. Non ho esitato un secondo ad assumerla.»

«Come viveva in Francia? Aveva trovato dei punti di riferimento?»

La Vioti indicò le sculture. «I suoi punti di riferimento erano loro. Lei viveva con Toumai, gli uomini di Neandertal, il Magdaleniano. La sua era una vera passione.»

«Aveva un uomo?»

«No. La scultura era tutta la sua vita. Non la praticava solo qui, scolpiva anche nel suo loft a Montreuil.

Opere più contemporanee, più personali.»

«Di che genere?»

«Piuttosto singolari. Francesca usava le nostre tecniche di modellatura, ma le applicava a scene moderne, con personaggi iperrealisti. Soprattutto bambini. Roba tetra, sul serio... Ma si cominciava a parlare di lei.

Esponeva persino in una galleria.»

«Lei ha le chiavi del loft di Francesca?»

«Ne lasciava sempre un mazzo qui.»

«Potrei averle?»

Isabelle Vioti esitò.

«Mi spiace chiederle una cosa del genere, ma... Non capita spesso che un giudice venga di persona a fare le sue domande, vero?»

«Lei è stata incaricata di seguire questo caso?»

«Niente affatto.»

«Ne ero sicura.» L'artista sorrise. «Si tratta di una... questione personale?»

«Non potrebbe essere più personale. Francois Taine, il giudice ucciso, era mio amico. E io farò di tutto per fermare questo assassino.»

«Mi aspetti qui.»

Isabelle scomparve per un minuto. La penombra s'impadroniva della stanza. Gli occhi delle sculture brillavano come le stelle di una misteriosa galassia. Una galassia morta, ma la cui luce arrivava ancora fino a noi.

«Ecco. L'indirizzo è rue des Feuillantines 34, vicino alla Croix-de-Chavaux, a Montreuil.» Depose nella mano di Jeanne un mazzo di chiavi. «L'avverto, quel posto è un vero casino. Ci sono andata a prendere dei vestiti per Francesca, sa, per il funerale. Lei non aveva più nessuno in Argentina. I suoi genitori erano stati ammazzati dal regime. Io...» Si interruppe, visibilmente commossa. Poi si riprese e aggiunse: «Quando sono stata là, ho notato qualcosa di strano...».

«Nel suo studio?»

«Sì. Mancava una scultura.»

«Quale?»

«Non so di cosa si trattasse. Francesca la stava ultimando. Lavorava su una specie di pedana al centro del locale. Un sistema di carrucole e di argani permetteva di tenere dritta la scultura e di spostarla una volta terminata. Non c'era più niente sulla pedana, ma il sistema di cavi era stato manomesso di recente. Ho occhio per questo genere di cose. E il mio mestiere.»

Reischenbach e i suoi uomini non avevano notato quel particolare. «Forse Francesca aveva consegnato la scultura alla galleria..

«No. Ho telefonato. I galleristi non hanno ricevuto niente. Del resto, non aspettavano materiale per i prossimi sei mesi. Secondo loro Francesca lavorava a un progetto segreto, che pareva elettrizzarla.»

«Pensa che qualcuno abbia rubato l'opera?»

«Sì. Dopo la sua morte. È assolutamente demenziale.»

I neuroni di Jeanne si attivarono. La verità era ancora più demenziale di quanto pensasse Isabelle Vioti. E lei l'aveva intuita in quel momento.

Conosceva l'identità del ladro.

Francois Taine in persona.

Ricordava il suo ultimo messaggio qualche ora prima della scomparsa: «Vieni da me stasera verso le dieci...

Devo prima andare a prendere una cosa da Francesca Tercia, la terza vittima. Vedrai. È pazzesco!».

Prima di parlarle, Taine aveva voluto recuperare quella scultura nello studio di Francesca. Perché?

Ma Jeanne capì anche un'altra verità.

Ancora più demenziale.

Quella scultura, lei l'aveva vista.

Era la strana creatura che bruciava con Taine nell'incendio.

Quel Gollum che lei aveva scambiato per l'assassino. Una sorta di bambino mostro annerito dal fuoco. I suoi movimenti e le sue deformità erano dovuti all'azione delle fiamme sul silicone. E quel gesto che aveva preso per un'aggressione, l'assassino che spingeva Francois Taine nel fuoco, doveva essere letto al contrario.

Taine tentava in ogni modo di strappare la statua alle fiamme. Ecco perché sulle sue braccia erano stati trovati residui di plastica, resina e vernice. Le vestigia dell'opera fusa. Ecco perché il corpo dell'assassino non era stato rinvenuto. Perché non esisteva. In ogni caso, non in quell'appartamento. Lì c'era solo una statua. Con la quale Taine era stato condannato a morire...

Isabelle Vioti stava ancora parlando, ma Jeanne non la sentiva più.

Due domande la tormentavano.

Perché Francois Taine aveva rubato la scultura? Perché voleva a tutti i costi salvarla dal fuoco?

Grangé Jean-Christophe - 2010 - L'Istinto Del Sangue
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