58.
12 maggio 1982, missione di San Augusto
Panajachel, Guat emala
Siamo arrivati ieri. Di notte. Come ladri. La nostra reputazione ci ha preceduti. Posso sentire la diffidenza che ci circonda. Siamo stati brevemente ospitati ad Antigua dai frati di Sant'Ignazio. Parevano avere fretta di vederci ripartire. Tanto meglio. Non ci tenevo né a spiegare né a commentare la presenza di Juan al mio fianco. Al momento, ciò che voglio è dimenticare l'incubo dell'Argentina. Ci siamo rimessi in viaggio con una jeep verso Panajachel. La missione di San Augusto si trova a qualche chilometro dal villaggio.
Sulla strada del lago AtitUn abbiamo assistito a una scena che la dice lunga su ciò che ci aspetta. Una punizione esemplare organizzata dai soldati a beneficio della gente del villaggio. Una decina di prigionieri nudi, insanguinati, con i volti tumefatti, era stata condotta sul ciglio della strada. Alcuni erano rasati, con il cuoio capelluto inciso e ripiegato sul cranio. Altri non avevano più né orecchie né unghie né piante dei piedi. A qualche donna era stato tagliato il seno. Tracce di bruciature e perforazioni segnavano le loro carni.
Certi non avevano ferite, ma erano gonfi come otri. Credo che gli avessero inoculato un veleno. I boia portavano un'uniforme speciale. Qui li chiamano kaibiles, che in lingua india significa «tigri». Hanno spiegato ai braccianti, una per una, le torture che avevano inflitto ai prigionieri. Come maestri in una classe.
Hanno avvertito che quella sarebbe stata la sorte di tutti i subversivos. Per concludere, hanno versato della benzina su quei disgraziati e gli hanno dato fuoco. È stato come se le vittime si fossero svegliate di colpo: si sono messe a urlare, a torcersi, ad agitarsi tra le fiamme. Sotto la minaccia dei fucili, gli astanti non si sono mossi, impotenti; forse non parlavano nemmeno spagnolo...
Questo spettacolo sinistro ha affascinato Juan. Dal canto mio, ho pregato e riflettuto sull'ironia della situazione. Dopo l'Argentina, questo paese è un'altra cloaca di crudeltà e violenza. Ma quale luogo più adatto per accoglierci, me e Juan?
17 maggio 1982, San Augusto
Ho fatto una stima del lavoro da svolgere qui. È immenso. Ma sto già organizzando le cose. Come responsabile della missione, per ora devo occuparmi della gestione dei progetti in corso. Catechismo.
Istruzione di base. Cure mediche. Radio locale...
La violenza è all'ordine del giorno. La repressione è quasi peggiore che a Campo Alegre. I soldati prima sparano e poi interrogano. Non hanno una motivazione politica bensì etnica. Sono animati da un razzismo senza limiti nei confronti degli indios. «Carne per cani» è la loro espressione preferita.
Nei cinque giorni trascorsi dal mio arrivo, già una decina di contadini sono stati prelevati o ammazzati nei dintorni della missione, apparentemente senza motivo. Si ritrovano i loro corpi, fatti a pezzi con il machete, lungo la strada. Ho l'impressione che molti catequistas, i volontari che ci aiutano al dispensario e all'orfanotrofio, appartengano alle Forze armate rivoluzionarie, le FAR, ma non mi è stato detto niente. Il solo medico che ci assiste, un guatemalteco, diffida di me. Gli indios mi disprezzano. Per la mia origine belga e il mio passato argentino, mi assimilano ai missionari nordamericani. In fondo, preferisco non sapere nulla. In caso di arresto non potrei parlare.
Per il momento Juan è calmo. L'ho sistemato in una stanzetta vicino alla mia, nella canonica. Lo lascio uscire nei giardini, sotto la sorveglianza di un operatore sociale. L'ho presentato come un orfano, ma tutti si interrogano sui legami che ci uniscono. Figlio illegittimo. Amante... Non è grave. Niente è più grave ormai.
Jeanne saltò qualche pagina. Ciò che cercava erano informazioni sull'incubo. L'origine di Juan, alias Joachim... Sfogliò ancora. Roberge riferiva le sue difficoltà con gli indios e i militari. A metà giugno c'era un'allusione al periodo che le interessava. Roberge si riprometteva di riportare sul quaderno le annotazioni redatte in Argentina sul caso «Juan». Per il momento non ne aveva il tempo.
Nelle pagine successive niente, o quasi, su Juan. Roberge riferiva di persone scomparse, episodi che si verificavano con sempre maggiore frequenza. Esecuzioni. Rapimenti. Torture. Mutilazioni. Il gesuita non entrava nei dettagli. Parlava anche dei brutali trattamenti che i soldati gli riservavano. Perquisizioni della chiesa, del dispensario, della canonica...
Jeanne continuò a scorrere le pagine. Le settimane. I mesi. Osservazioni sporadiche su Juan. «Ha mangiato con appetito.» «Dorme normalmente.» «Si adatta al clima.»
In settembre, un nuovo episodio di violenza. Il rapimento di una delle sue catequistas. La donna, Alaíde, era stata stuprata e torturata, poi abbandonata nella foresta. Le sue piaghe aperte si erano presto infettate. La vittima aveva letteralmente incominciato a marcire mentre era ancora viva. Dei soldati montavano la guardia per impedire che fosse soccorsa. Continuavano a picchiarla o le pisciavano in bocca. Il calvario era durato più di una settimana. Poi avevano abbandonato il corpo agli zopilotes, una specie di avvoltoi della regione. Roberge aveva tentato in ogni modo di soccorrerla, ma era stato inutile.
Finalmente, nell'ottobre 1982, Roberge aveva trovato il tempo di trascrivere nel quaderno le sue annotazioni argentine. Jeanne dovette concentrarsi. Non si era più nel 1982 ma nel 1981. Si lasciava il clima temperato del lago Atitlki per la canicola del Nordeste argentino. La repressione militare stabiliva il collegamento. La sola differenza era che le vittime erano deportate dai quattro angoli dell'Argentina in una base militare che portava lo stesso nome del villaggio: Campo Alegre. E che tutto accadeva dietro le mura del campo di concentramento.
20 maggio 1981, Campo Alegre
Due giorni fa, nei dintorni del villaggio, una donna ha fatto una strana scoperta. Nella foresta si è imbattuta in un branco di scimmie urlatrici. Qui le chiamano pnonos aulladores negros o carayis, la specie più diffusa.
La donna stava raccogliendo legna vicino alla laguna, in una zona che viene chiamata «la foresta dei Mani»
o «la Foresta delle Anime» (la Selva de las AImas). Le scimmie erano una ventina, aggrappate ai rami, nascoste dietro le foglie. In genere urlano per spaventare l'intruso, ma, se i loro gridi non hanno effetto, scappano. Quel giorno non si sono mosse e hanno continuato a strillare e ad agitarsi fissando la donna con sguardo cattivo.
L'india non si è lasciata intimidire. Battendo forte con un bastone, le ha fatte fuggire. Si è avvicinata all'albero che esse stavano difendendo. Ai suoi piedi c'era una scimmia diversa. Nera. Maldestra. Gemeva.
Non riusciva ad arrampicarsi lungo il tronco.
La donna ha guardato meglio ed è rimasta stupefatta. Si trattava di un bambino con la pelle interamente coperta di foglie, scaglie di corteccia e peli appiccicati. Era ferito a una gamba e non riusciva più a muoversi.
Lei è andata a cercare aiuto. Un'ora dopo gli uomini hanno fatto sloggiare le scimmie, che nel frattempo erano tornate, e hanno portato via il bambino semisvenuto. Da quanto mi hanno raccontato, l'hanno messo in un sacco. Non mi meraviglia che abbiano liquidato la faccenda con la consueta brutalità.
La mia infermiera, che vive a Campo Alegre, è riuscita a vederlo. Secondo lei ha fra i sei e gli otto anni. E
magrissimo ed emana una puzza tremenda. Le mosche gli girano intorno. È coperto di peli di scimmia e di rifiuti secchi. L'enorme massa di capelli neri incolti gli nasconde quasi completamente il viso. Fili di bava gli colano dalla bocca. Ha unghie lunghe, adunche, incrostate di terra. Dorme molto, ma quando si sveglia è aggressivo. Secondo la mia infermiera è ferito a una gamba. Bisogna dunque curarlo con urgenza. Andrò da lui stasera con il medico, Tomàs. Gli presteremo le prime cure sul posto, poi lo accoglieremo all'orfanotrofio.
21 maggio 1981
Sbalorditivo. È la sola parola che viene in mente. È un autentico bambino selvaggio. Non appena l'ho visto, ho fatto un collegamento con casi analoghi raccontati nei libri o nei film. Il ragazzo selvaggio dell'Aveyron.
Le due bambine lupo dell'India, Amala e Kamala. Un altro caso di cui ho sentito parlare, in Burundi, qualche anno fa...
Ho fatto firmare un documento alle autorità di Campo Alegre e abbiamo trasferito il piccolo al dispensario.
L'abbiamo lavato. Gli abbiamo tagliato le unghie e i capelli. Prima osservazione: non è indio. Ha la pelle bianca. Occhi neri. Di origine ispanica, si presume. Seconda osservazione: ha il corpo coperto di cicatrici.
Morsi. Graffi. Tagli. Terza osservazione: la ferita alla gamba non è grave.
Tomàs gli ha fatto un'iniezione di penicillina. L'abbiamo auscultato. Impossibile stabilire con certezza la sua età. Propendo per sei o sette anni. È magro, pesa trentadue chili, ma molto muscoloso. Soffre di coliche terribili e ha contratto la malaria. Gli esami riveleranno probabilmente altre malattie...
Stamattina guardavo Tomàs auscultare Juan, qui l'hanno battezzato così, e mi chiedevo da quanto tempo viva nella foresta e come sia potuto sopravvivere in un ambiente dove un essere umano fa fatica a resistere una giornata. Il caldo. Gli insetti. La costante minaccia dei predatori nell'acqua e sulla terra. Come si è difeso? È stato davvero protetto dalle scimmie urlatrici?
Al momento, sembra non vedere niente, non sentire niente. Non smette di strizzare gli occhi. Juan non reagisce ai rumori forti, ma sobbalza al minimo fremito. Il medico è categorico: non c'è ragione di pensare che sia sordo o muto. Tuttavia sembra indifferente al mondo esterno. Continua a dondolarsi avanti e indietro. Mi ricorda i bambini autistici che ho avuto occasione di vedere a Bruxelles quando ero cappellano presso gli Hópitaux du Royaume.
Da dove viene questo bambino? Può essere stato abbandonato dai genitori, abitanti del villaggio. O essere scappato di casa per una qualche ragione. Altra possibilità: la base militare; lì ogni tanto ci sono dei bambini. Se è un ragazzino di qui, sarà facile identificarlo. Se viene dalla fortezza, sarà più complicato. I militari non si lasceranno sfuggire una parola.
25 maggio 1981
Abbiamo messo Juan in uno spazio recintato, per impedire che gli altri bambini vadano a stuzzicarlo.
Quando sente uno sguardo posarsi su di lui, va nel panico. Si agita come un forsennato. Poi crolla nel sonno.
Quando si sveglia ricomincia a tirare la corda. Abbiamo dovuto legarlo a una fune, altrimenti si ferisce contro la rete metallica. Mi ripeto le parole di Gesù, secondo san Matteo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra».
Gli diamo da mangiare. Accetta i fagioli, le pannocchie di granturco, ma preferisce la frutta e i semi. Quando mangia, ha la paura negli occhi. Sembra sempre preoccupato che gli si rubi il cibo. Sicuramente un ricordo della vita con le scimmie.
Quando dorme non smette di agitarsi. Ha il viso contratto dai tic. Il suo corpo è scosso da spasmi. È in un costante stato di allerta. In quei momenti, tuttavia, è possibile scorgere l'essere umano sotto l'involucro selvaggio. Juan ha lineamenti regolari. La pelle delicata. Le articolazioni minute. Chi è?
29 maggio 1981
Dopo una settimana di esami e osservazioni, il bilancio è pesante. Malaria confermata. Tubo digestivo brulicante di parassiti. Ogni genere di infezioni. Tomas ha prescritto una cura da cavallo a base di antibiotici.
Adesso bisogna aspettare.
Anche dal punto di vista della postura, niente di buono. Juan se ne sta rannicchiato in un angolo del recinto emettendo gemiti. Il viso è nascosto sotto i capelli, che gli abbiamo lasciato piuttosto lunghi. Conto di dedicarmi al più presto alla sua rieducazione, ma devo ripartire da zero. Bisogna cominciare con l'inculcargli il bipedismo. Ho un'unica certezza. Questo bambino è un dono di Dio. Ho fatto a me stesso la promessa di salvarlo.
6 giugno 1981
Nessun progresso. Juan non reagisce agli stimoli esterni. Rifiuta di stare eretto. E in preda all'astenia. Si sveglia solo per mangiare. Ho scoperto ciò che gli piace, sicuramente quello che mangiava quando viveva con le scimmie urlatrici: i datteri delle palme. Secondo Tomas, bisogna assolutamente dargli della carne per fortificarlo nella crescita.
7 giugno 1981
Stanotte sono andato da Juan. In questo momento, nugoli di insetti bevitori di sangue prendono di mira il nostro bestiame. Non si vedono, ma si sente il battito delle loro ali. Il rumore della suzione.
È con questo sottofondo sonoro che ho fatto visita a Juan. Non dormiva. Si guardava intorno. Calmo. I suoi occhi trapassavano la notte. D'un tratto ho capito che vedeva nel buio. Ho avuto paura. Lo assimilavo ai vampiri che mi ronzavano sulla schiena e martoriavano la carne dei bufali...
16 giugno 1981
Da tre giorni Carlos Estévez, un etologo di Resistencia specialista delle scimmie urlatrici, soggiorna all'orfanotrofio. Paradossalmente, è grazie alle sue conoscenze che possiamo osservare meglio Juan.
Stamattina ha fatto un bilancio della situazione mentre bevevamo il mate. Ho registrato la nostra conversazione con il magnetofono della chiesa. Trascrivo qui, parola per parola, la parte che riguarda specificamente Juan...
Jeanne si strofinò gli occhi. Erano le quattro del mattino. L'assurdità di quell'inchiesta sembrava non avere limiti. Al tempo stesso, quei fatti erano in perfetta sintonia con i delitti. Gli indizi. Il profilo selvaggio dell'omicida...
Si preparò dell'altro tè. Ricordava la conversazione con Hélène Garaudv. La direttrice dell'istituto Bettelheim aveva evocato i bambini lupo. Secondo lei, la maggior parte di loro presentava i sintomi dell'autismo, ma la questione restava aperta: la patologia era la conseguenza della vita nella foresta? O era vero il contrario, cioè che quei piccoli erano stati abbandonati perché diversi?
Jeanne bevve un sorso di tè. Non sentiva più né il freddo né la fatica. In realtà non sentiva più il corpo. Si risistemò sul letto e riprese il quaderno. Pensò alle fiabe che narrano di bambini abbandonati in un bosco ostile.
Juan era il protagonista di una di queste storie. Un incubo diventato realtà...
59.
«In inglese si chiama black howler monkey. È il genere più diffuso nella foresta subtropicale del Nordeste. I maschi sono neri, le femmine gialle. »
«Quali sono le loro abitudini?»
«Vivono sugli alberi. La coda funziona da quinto arto, facilitando gli spostamenti da un ramo all'altro. Non scendono quasi mai a terra.»
«Pensa che Juan vivesse con loro sugli alberi?»
«Non credo che fosse in grado di farlo. In compenso, poteva rendersi utile a terra. Raccogliere certi frutti.
Sorvegliare i predatori.»
«Io non vado mai nella foresta, quindi non le ho viste. Perché le chiamano scimmie urlatrici?»
«L'alouatta è molto aggressiva. Ogni clan ha il suo territorio. Se vi penetra un intruso, le scimmie difendono questo spazio emettendo suoni che sono quasi ruggiti. Fa paura sentirle. E vederle! Quando urlano, la criniera si dilata e il muso si arrotonda al punto di diventare una "O". Mi sembra che fuan, quando grida, cerchi di imitarle.»
«per adesso è il suo unico modo di esprimersi...»
Jeanne alzò gli occhi. Si ricordava delle urla che risuonavano nello studio di Antoine Féraud. Nessun dubbio: i versi di Juan-Joachim provenivano direttamente dalla foresta dei Mani...
« E fra loro sono aggressive?»
«Un maschio vive con parecchie femmine e i loro piccoli. Il maschio dominante non è tenero con gli altri. In generale, le relazioni fra i membri del gruppo non sono distese. Per il sesso, per il cibo... Per tutto.»
Jeanne ricordò la seduta di ipnosi da Féraud. Ti morde, la foresta...
«Come sarà stata la vita del bambino con le scimmie?» «Molto dura. In costante posizione di svantaggio.»
«Non capisco... Juan è molto più grosso delle scimmie...»
«Questo ci aiuta a dedurre il momento in cui è stato adottato da loro. A mio parere era ancora piccolo, in ogni caso alto meno di un metro. Che età poteva avere? Quattro, cinque anni? Poi, quando è cresciuto, probabilmente è stato escluso dal clan a causa delle differenze fisiche e della sua goffaggine.»
Jeanne immaginava la vita infernale del bambino. Era in preda alle allucinazioni sensoriali. Percepiva il fruscio delle foglie, lo scricchiolio dei rami e i grugniti rauchi. Respirava il fetore delle scimmie... Temeva i loro attacchi, i loro morsi... Lei era Juan...
«Adesso le farò io qualche domanda. »
«Dica.»
«Quando Juan si sente osservato, come reagisce?»
«Diventa nervoso. Si agita moltissimo. »
«Le dà la schiena ?»
«Sì. Ma continua a lanciarmi occhiate.»
«Comportamento tipico delle carays. Picchia sui muri per spaventare chi si avvicina?»
«No.»
«Mostra il didietro in segno di sottomissione?»
«La sottomissione gli è estranea.»
«Non deve avere assimilato per forza tutti i gesti della specie.» «Crede che potrà riacquisire le capacità cognitive?»
«Sono un etologo, non uno psicologo. »
«Mi pare che Juan mostri sintomi autistici. La vita nella foresta potrebbe avere bloccato il suo sviluppo mentale? Aver provocato una sorta di regressione?»
«Per stabilire se c'è qualche chance che il bambino ritrovi il cammino degli umani, bisognerebbe sapere da dove viene e a che età ha lasciato il nostro mondo... Ha fatto delle indagini nella regione?»
«Non ancora.»
«Da parte mia, propendo per l'abbandono. Juan è un bambino che è stato rifiutato, che non è mai stato amato.»
«Perché questa certezza?»
«Perché un bambino coccolato e nutrito dai genitori non sarebbe sopravvissuto nella foresta. La resistenza di fuan dimostra che la sua vita era già difficile quand'era fra gli uomini. Faccia le sue ricerche. Sono quasi sicuro che troverà traccia di un fatto di cronaca. Una storia di violenza familiare... »
Jeanne sospese la lettura. Le righe le si accavallavano davanti agli occhi. Del resto, la trascrizione del colloquio era terminata. Guardò l'orologio, uno Swatch che aveva ripescato dalla borsa e si era messa al polso in sostituzione del Cartier.
Le cinque del mattino.
Era stupita di non avere notizie di Nicolas. Era rimasto così scioccato dall'esumazione notturna? Sperava che non fosse rientrato ad Antigua con la sua auto... Si ripromise di rinfrescarsi un po', prepararsi un'altra tazza di tè e riprendere la lettura.
Un secondo più tardi dormiva profondamente.