80.

Joachim, il figlio del Male.

La meccanica dei padri spinta al parossismo. La violenza non solo era stata alla base della sua educazione, aveva anche presieduto alla sua nascita. Le fate chine sulla sua culla erano soldati sadici e depravati. Poi c'erano stati i Garda, una coppia di alcolizzati violenti. Quindi il popolo primitivo, cannibale e sanguinario, e le scimmie urlatrici. Infine Alfonso Palin... I traumi del bambino si sovrapponevano e si comprimevano come lamine di metallo per creare una nuova lega.

La meccanica dei padri.

Jeanne pensò alla macchina agricola, alle urla della partoriente, agli scossoni del motore che esprimevano, simbolicamente, l'ingranaggio fatale da cui era emerso il bambino lupo...

Il barcone arrugginito scivolava nella notte da alcune ore, accompagnato da frotte di pipistrelli che sbattevano le ali sopra le loro teste. Era tornato il freddo. Tutti i passeggeri si erano radunati attorno ai bracieri e parlavano a bassa voce. Jeanne e Féraud battevano i denti. Avevano ricevuto delle coperte e qualcosa da mangiare. Seduti accanto al bagliore vacillante del fuoco, non avevano nemmeno visto cosa mettevano in bocca. Erano troppo stanchi sia per apprezzare il cibo sia per provarne disgusto.

Rannicchiata sotto la coperta, Jeanne scrutò l'oscurità che la circondava. Non vedeva niente. Le muraglie di vegetazione costituivano una seconda notte incastonata nella prima, più densa, più nera, che infittiva ulteriormente le tenebre. Le rive del fiume parevano essersi ravvicinate. C'erano più profumi nell'aria, più fruscii. Adesso gli indios cantavano per la luna. Forse i «non nati» erano già lì a scrutare la chiatta che passava? E Joachim? Lui e il padre come andavano dal suo popolo? Possedevano un'imbarcazione?

D'un tratto scorse delle lucciole che vagavano fra il fogliame. Era sorpresa di distinguerle in modo così nitido. Guardò meglio. Non erano lucciole. Quelle luci erano fisse... Come a confermare la sua constatazione, si udì un ronzio. Un rumore che lei avrebbe riconosciuto fra mille. Quello di un generatore elettrico in piena attività.

Jeanne si alzò e raggiunse la cabina del capitano, impegnato ad amoreggiare con due giovani indigene sedute sulle sue ginocchia.

«Cosa sono quelle luci laggiù?»

«Tranquila, mujercita... Non si metterà in agitazione ogni volta che incrociamo una baracca.»

«Che baracca?»

«Un'estancia.»

«Un'estancia nella foresta?»

«Siamo in Argentina. C'è sempre un'estancia da qualche parte.»

«A chi appartiene?»

«Non so di preciso. Un riccone. Uno spagnolo.»

Pensieri automatici: doccia, un buon pasto, rifornimento, portatori... L'estancia era la tappa ideale prima di affrontare l'ignoto. Ci sarebbe sicuramente stato modo di negoziare con il proprietario o il gestore del luogo.

«Possiamo fermarci?»

«Lei ha la testa dura. Questa chiatta non è un autobus. Niente fermate prima del Paraguay.»

«Ci siamo già accordati una volta.»

Il pilota sospirò. Cristoforo Colombo, sulla sua maglietta, osservava Jeanne con occhio malevolo. Le due ragazze ridacchiarono. Lei si frugò nelle tasche e depose un'altra manciata di biglietti sul quadro di comando.

«Si tenga i suoi soldi. Non posso più fermarmi. La corrente è forte. Nella manovra si consumerebbe troppo carburante.»

«E con il gommone?»

L'uomo la fulminò con lo sguardo.

«L'estancia deve per forza avere un pontile», insistette lei. «Lei ci avvisa quando ci arriviamo e noi saltiamo sullo Zodiac con il tizio di prima. Lui ci mette giù e torna alla chiatta. Lei non si ferma.»

Il capitano tese il braccio e intascò il gruzzolo. «Le faccio segno quando incrociamo la diga.»

«Quanto ci vorrà?»

L'uomo lanciò uno sguardo dall'oblò, come se potesse vedere nel buio. «Dieci minuti.»

Tutto accadde molto in fretta. Si gettarono nella scialuppa che, con il motore ronzante, si muoveva affiancata alla chiatta. Recuperarono i bagagli che qualcuno lanciò loro dal ponte. In meno di cinque minuti, lo Zodiac aveva raggiunto le poche tavole semisommerse che fungevano da molo. Jeanne e Féraud saltarono sul legno roso dai tarli. Ancora una volta lui incespicò e per poco non cadde in acqua. In segno di addio, ricevettero un getto di acqua gelida sulla schiena. La scialuppa era già ripartita. Le strisce di schiuma disegnavano due scie che si assottigliavano nell'oscurità.

Jeanne individuò la pista che portava all'estancia. Si rendeva conto dell'assurdità della situazione. Erano soli. Non avevano più né attrezzatura né carta né guida. Sperduti a migliaia di chilometri da qualsiasi luogo civilizzato, senza la minima idea di dove stessero andando. Lei con la borsa in spalla, contenente soltanto il suo Macintosh, il dossier dell'inchiesta e Totem e tabù. Féraud che trascinava la valigia a rotelle nel fango.

Erano ridicoli.

«Jeanne.»

Si voltò. Il suo compagno si era fermato.

«Non vedo più niente.»

«Neanch 'io.»

«No, davvero...»

Jeanne tornò sui suoi passi. Lo strizzacervelli era aggrappato alla valigia. Lei gli si avvicinò per guardarlo in viso e, anche nell'oscurità, poté distinguere che il bianco dei suoi occhi era iniettato di sangue. Un velo gli copriva la cornea. «Da quando hai questo problema?»

«Non so.»

«Ti fa male?»

«No. Ma ci vedo sempre peggio.»

Ci mancava solo quello. Jeanne si mise il braccio sinistro di Féraud attorno alle spalle e afferrò la valigia con la mano sinistra. Ripresero il cammino, avanzando di sghimbescio come due feriti di guerra. Poi un'idea le balenò nella mente. L'infezione di Féraud le forniva il pretesto ideale per lasciarlo nell'estancia. Sarebbe andata da sola nella foresta dei Mani.

Camminarono così per mezz'ora. Il ronzio del generatore scandiva i loro passi e si faceva sempre più distinto. Come disturbata nella sua intimità, la foresta si risvegliava. Urlava. Scricchiolava. Si agitava. O forse Jeanne stava perdendo lucidità. Gli alberi sembravano scossi dalle risate. Le chiome si richiudevano su di loro e diventavano liquide. Lei pensava solo a mettere un piede davanti all'altro. Aveva l'impressione di trovarsi in un bosco delle favole. Una giungla che non aveva né centro né confini, dove ogni singolo elemento viveva, pensava, mormorava...

Finalmente poté distinguere la sagoma della proprietà. Una specie di campo da calcio racchiuso fra la vegetazione della giungla. Al di sopra risplendeva la volta stellata, più viva e intensa dell'illuminazione elettrica. In fondo alla radura Jeanne intravide degli edifici piatti con i tetti di lamiera. Recinti. Fienili. Silos.

Erano arrivati. Nitriti di cavalli. Abbaiare di cani.

Jeanne continuò ad avanzare, sempre sostenendo Féraud, troppo sfinita per avere paura. Udì un rumore proveniente dalla veranda dell'edificio centrale: doveva essere la posada, l'abitazione. Si profilò la silhouette di un uomo, poi risuonò una voce rauca, in contemporanea allo schiocco di un fucile che veniva armato.

« Quién es?»

Qualche minuto dopo, una grossa risata risuonò come un'esplosione di dinamite. Jeanne aveva appena spiegato la loro situazione al gestore dell'estancia. Finì per ridere anche lei. E Féraud si unì al coro. Era piuttosto comico, in effetti... E non aveva ancora osato accennare alla destinazione finale, per paura di provocare un altro scoppio d'ilarità.

L'uomo lì invitò all'interno. Grasso, piccolo, con i capelli neri e la pelle molto scura segnata dalle rughe. A Jeanne ricordò i bufali argentini, che si coprono di melma per proteggersi dagli insetti. La sua voce rauca e l'accento aspro rafforzavano quell'impressione di fango secco. Una specie di mammifero uscito dal palmeto, cotto al sole. Si chiamava Fernando e sorvegliava la proprietà e le mandrie. Lavorava per conto di un giovane catalano ecologista che aveva fatto fortuna con Internet. Il modo in cui descriveva la propria vita quotidiana indusse Jeanne a pensare al guardiano di un faro. E in effetti era proprio di questo che si trattava. Jeanne rivide la carta dispiegata a Formosa. L' estancia era l'ultimo baluardo prima dell'oceano verde...

Fernando propose loro di riscaldare gli avanzi della cena, dei pezzi di carne che erano rimasti sulla griglia.

Rifiutarono l'offerta. Allora li condusse a vedere le due camere dove avrebbero potuto riposare. Poi s'improvvisò infermiere, offrendosi di curare gli occhi di Féraud.

Jeanne li lasciò e si chiuse nella sua camera. Quattro pareti imbiancate a calce. Un letto di ferro. Un crocifisso. Giusto quello di cui aveva bisogno. Si buttò sul letto senza togliersi i vestiti. I suoi occhi si chiusero immediatamente. Come un sipario che calava sul mondo.

A meno che non fosse il contrario.

Che lo spettacolo non stesse invece per cominciare.

Grangé Jean-Christophe - 2010 - L'Istinto Del Sangue
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