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Apparvero tremolanti e nebbiosi palazzi grigi che si alzavano e abbassavano in maniera davvero singolare.

Che razza di palazzi erano?

A che servivano? Che cosa le ricordavano?

È così difficile capire come dovrebbero essere le cose quando si capita di colpo su un mondo diverso che possiede una diversa civiltà, una diversa serie di presupposti filosofici, e anche un’architettura incredibilmente anonima e insignificante.

Il cielo sopra gli edifici era di un nero gelido e ostile. Le stelle, che a quella distanza dal sole sarebbero dovute apparire come punti intensamente brillanti, risultavano velate e indistinte dietro il grosso spessore dell’enorme cupola di protezione. Perspex o roba del genere.

In ogni caso qualcosa di opaco e massiccio.

Tricia riavvolse fino in fondo la cassetta.

Sapeva che conteneva qualcosa di strano.

Anzi, conteneva innumerevoli cose strane, ma Tricia ne cercava in particolare una che non era ancora riuscita a individuare.

Sospirò e sbadigliò.

Mentre aspettava che il nastro si riavvolgesse, mise via le tazzine da caffè di polistirolo che aveva ammucchiato sul tavolo del montaggio e le buttò nel bidone della spazzatura.

Si trovava nel settore montaggio di una compagnia di videoproduzione di Soho. Aveva attaccato alla porta vari cartelli con su scritto “Non disturbare”, e ordinato al centralino di non passarle nessuna telefonata. All’inizio aveva agito così per proteggere il suo eccezionale scoop, ma ora si stava proteggendo solo dall’imbarazzo.

Avrebbe riguardato tutta la cassetta. Se ne avesse avuto il coraggio. Magari ogni tanto avrebbe potuto premere l’“avanti veloce”.

Erano le quattro di un lunedì pomeriggio, e Tricia provava un vago senso di nausea. Stava cercando di capire quale fosse la causa del malessere, e non c’era penuria di possibili fonti.

Per prima cosa, c’era stato uno sfiancante volo notturno da New York. I voli notturni ti distruggono.

Per di più, subito dopo, era stata avvicinata da alieni in giardino ed era volata sul pianeta Rupert.

Non aveva abbastanza esperienza nel campo per affermare con sicurezza che eventi del genere ti distruggessero, ma era pronta a scommettere che chi subiva regolarmente simili prove le maledicesse.

Le riviste pubblicavano sempre tabelle che riportavano l’indice di stress provocato da vari avvenimenti. Cinquanta punti-stress quando si perdeva il lavoro. Settantacinque per un divorzio, per aver cambiato pettinatura e così via. Nessuna tabella menzionava mai l’arrivo in giardino di alieni che ti portavano sul pianeta Rupert, ma Tricia era sicura che tale evento valesse qualche dozzina di punti.

Non che il viaggio fosse stato particolarmente stressante: solo molto noioso. Certo non si era rivelato più stressante di quello che l’aveva appena condotta da New York a Londra, e che era durato lo stesso tempo: circa sette ore.

Be’, era curioso, no? Per raggiungere il limite estremo del sistema solare nello stesso tempo che occorreva ai londinesi per andare a New York, la nave doveva disporre di una propulsione incredibile. Tricia aveva interrogato i suoi ospiti sull’argomento, e loro avevano ammesso che si trattava di un’ottima propulsione.

– Ma come funziona? – aveva chiesto entusiasta lei. All’inizio del viaggio era ancora abbastanza eccitata.

Trovò quella parte del nastro e se la riguardò. I grebulon, così si chiamavano, le stavano cortesemente mostrando quali bottoni premessero per accendere i motori.

– Sì, ma su quale principio si basa? – chiese lei da dietro la videocamera.

– Oh, vuole sapere se si tratta della propulsione a distorsione o qualcosa del genere? – domandarono loro.

– Sì – disse Tricia. – Che propulsione è?

– È probabilmente qualcosa del genere – dissero loro.

– Di che genere?

– Propulsione a distorsione, a fotoni, roba così. Dovrebbe chiedere al motorista di bordo.

– Chi è?

– Non lo sappiamo. Sa, abbiamo tutti perso il ben dell’intelletto.

– Oh, sì – fece Tricia un po’ abbattuta. – Così mi avete detto. Uhm, in che modo avete perso il ben dell’intelletto?

– Non lo sappiamo – risposero pazienti loro.

– Perché avete perso il ben dell’intelletto? – osservò cupa Tricia.

– Vuol guardare la televisione? Il volo è lungo. Noi guardiamo la televisione. Ci piace.

Tutte queste avvincenti situazioni erano registrate sul nastro, ed era proprio un bello spettacolo. Innanzitutto la qualità delle immagini era pessima. Tricia non sapeva bene perché. Aveva la sensazione che i grebulon reagissero a una gamma un po’ diversa di lunghezze d’onda, e che intorno ci fosse molta luce ultravioletta che disturbava la videocamera. Spesso poi lo schermo era invaso da interferenze e dall’“effetto neve”. Magari il fenomeno dipendeva dalla propulsione a distorsione, la cui dinamica nessuno conosceva. Perciò in sostanza nella cassetta si vedevano alcune persone esili e pallide sedute davanti a un televisore che trasmetteva spettacoli delle reti terrestri. Tricia aveva anche puntato la videocamera sul minuscolo oblò vicino al sedile, e aveva inquadrato un affascinante sfondo di stelle. Ma solo lei sapeva che era reale: per ottenere artificialmente un simile effetto sarebbero bastati tre minuti.

Alla fine aveva smesso di riprendere per usare il prezioso videotape su Rupert, ed era rimasta a guardare la tivù con gli alieni, concedendosi anche un sonnellino.

Così forse provava un vago malessere perché sentiva di aver passato sette ore su un’astronave aliena straordinariamente sofisticata guardando per l’ennesima volta Mash e Cagney & Lacey. Ma cos’altro si poteva fare? Naturalmente aveva scattato anche alcune foto, che, una volta fatte sviluppare, erano risultate tutte molto sfocate.

Il vago senso di nausea poteva anche essere stato provocato dall’atterraggio su Rupert, che si era rivelato drammatico e agghiacciante. La nave era scesa su un mondo scuro e tetro, un pianeta così spaventosamente lontano dal calore e dalla luce del suo sole, da sembrare la rappresentazione fisica dei traumi vissuti da un bambino abbandonato.

Luci avevano illuminato le gelide tenebre e guidato la nave verso l’imboccatura di una caverna che si era aperta per accogliere l’apparecchio.

Purtroppo, a causa della traiettoria seguita e della profondità a cui il piccolo, spesso oblò era inserito nel rivestimento della nave, non era stato possibile puntare la videocamera su alcuna di quelle cose. Tricia riguardò quello spezzone.

La videocamera era puntata direttamente contro il sole. Questo di solito danneggia gravemente tali congegni. Ma quando il sole si trova a circa cinquecento miliardi di chilometri di distanza, non ha effetti negativi. Anzi, non ha effetti di sorta. Al centro dell’inquadratura si vedeva solo un puntolino luminoso che poteva essere qualsiasi cosa. Il sole appariva soltanto come una stella tra le altre.

Tricia premette l’“avanti veloce”.

Ah, il pezzo successivo era parso assai promettente. Uscendo dalla nave si erano trovati in una vasta struttura grigia tipo hangar. Era chiaramente tecnologia aliena di gigantesche proporzioni: enormi edifici grigi sotto la scura volta della cupola in perspex. Erano gli stessi edifici che Tricia aveva osservato alla fine della cassetta. Li aveva ripresi anche qualche ora dopo, mentre si accingeva a salire di nuovo a bordo per lasciare Rupert e tornare sulla Terra. Che cosa le ricordavano?

Be’, le ricordavano soprattutto il set di un qualsiasi film di fantascienza a basso budget degli ultimi vent’anni. I palazzi erano naturalmente assai più grandi, ma sullo schermo tutto appariva clamorosamente kitsch e dozzinale. A parte la pessima qualità delle immagini, Tricia aveva dovuto lottare con gli inattesi effetti della gravità, assai più bassa che sulla Terra, e aveva trovato difficilissimo impedire alla videocamera di saltellare nel modo indecoroso in cui saltella quando è in mano a dilettanti. Perciò non riusciva a distinguere alcun dettaglio.

Ed ecco lì il Capo che, sorridendo e tendendo la mano, le veniva incontro per salutarla.

Era chiamato semplicemente così. Il Capo.

I grebulon non avevano nomi, soprattutto perché non riuscivano a inventarne nessuno. Come aveva scoperto Tricia, a un certo punto alcuni di loro si erano dati il nome di personaggi televisivi terrestri, ma benché si fossero sforzati di chiamarsi l’un l’altro Wayne, Bobby o Chuck, i vaghi residui di ricordi annidati nel profondo di quell’inconscio culturale che si erano portato dietro da stelle lontane dovevano aver detto loro che quei nomi non gli appartenevano e non erano giusti.

Il Capo somigliava moltissimo agli altri. Forse era un po’ meno esile. Gli erano piaciuti molto, disse, i programmi televisivi di Tricia: era il suo più grande fan, era felicissimo che fosse riuscita ad andare a trovarli su Rupert, tutti non vedevano l’ora di conoscerla, sperava che il viaggio fosse stato confortevole ecc. ecc. Tricia non aveva notato alcun particolare da cui si potesse dedurre che il Capo era una persona inviata dalle stelle o qualcosa del genere.

Certo, a vederlo adesso in cassetta, sembrava solo un tizio mascherato e truccato che stava davanti a un set così sgangherato da dare l’impressione di poter crollare alla minima spinta.

Tricia fissò lo schermo con il viso racchiuso tra le mani, e scosse la testa con incredulità.

Lo spezzone era orrendo.

Non solo era orrendo, ma dopo veniva qualcosa di ancor più banale. In seguito il Capo le aveva chiesto se le fosse venuta fame dopo il volo, e se desiderasse mangiare qualcosa. Avrebbero potuto discutere di vari argomenti davanti a un buona cenetta.

Si ricordava che cosa aveva pensato a quel punto.

Ciao alieno.

Come avrebbe dovuto comportarsi?

Ingoiare davvero i bocconi? Le avrebbero dato una salvietta di carta in cui sputare la roba da mangiare? La diversità dei sistemi immunitari non avrebbe creato problemi?

Il cibo, risultò poi, consisteva in hamburger.

Non solo erano hamburger, ma erano, chiaramente e inequivocabilmente, hamburger McDonald’s riscaldati al microonde.

Lo dimostravano non solo l’aspetto e l’odore, ma anche gli involucri di polistirolo “a valva” in cui le vennero serviti e sui cui lati era scritto “McDonald’s”.

– Prenda, prenda pure a volontà! – disse sullo schermo il Capo. – Vogliamo offrire i manicaretti migliori alla nostra pregiata ospite!

Questo era accaduto nell’appartamento privato di lui. Tricia si era guardata intorno con uno sconcerto che sconfinava nella paura, ma aveva ugualmente ripreso tutto con la videocamera.

Nell’appartamento c’era un letto con materasso ad acqua. E un hi-fi Midi. E uno di quegli affari di vetro alti e illuminati elettricamente che vengono posti sui tavoli e sembrano avere all’interno grossi globuli di sperma galleggianti. Le pareti erano rivestite di velluto.

Il Capo stava sdraiato su un grosso cuscino di velluto a coste marrone e si profumava la bocca con uno spray per l’alito.

Tricia d’un tratto era stata presa da una gran paura. Era più lontana da casa di quanto lo fosse mai stato, che lei sapesse, qualsiasi altro terrestre, e si trovava in compagnia di una creatura aliena che stava sdraiata su un grosso cuscino di velluto a coste marrone e si profumava la bocca con uno spray per l’alito.

Non voleva fare mosse false. Né voleva allarmare l’alieno. Ma c’erano cose che doveva sapere.

– Come ha… dove si è procurato… questo? – chiese, sullo schermo, indicando con un gesto nervoso la stanza.

– L’arredo? – disse il Capo. – Le piace? È assai raffinato. Noi grebulon siamo un popolo raffinato. Compriamo raffinati beni durevoli… per posta. Tricia a quel punto annuì piano, molto piano.

– Per posta… – disse.

Il Capo ridacchiò. Era una di quelle soavi, rassicuranti risatine al cioccolato fondente.

– Lei penserà che inviino la roba qui. Ah ah! No, affatto. Ci siamo procurati una casella postale nel New Hampshire. Ci rechiamo regolarmente là per caricare merce. Ah ah! – Tornò a sdraiarsi con aria rilassata sui cuscinone, allungò la mano verso una patatina fritta riscaldata e ne mordicchiò la punta con un sorriso divertito sulle labbra.

Con il cervello in lieve ebollizione, Tricia aveva continuato a riprendere con la videocamera.

– Come, ehm, come pagate queste meravigliose… cose? – la si vide chiedere nelle immagini.

Il Capo rise di nuovo.

– American Express – rispose scrollando le spalle con nonchalance. Ancora una volta Tricia annuì piano. Sapeva che concedevano carte di credito esclusivamente a chiunque.

– E questi? – domandò, sollevando l’hamburger che le era stato servito.

– È semplicissimo – rispose il Capo. – Facciamo la fila.

Quello spiegava un sacco di cose, aveva pensato ancora una volta Tricia mentre un brivido gelido le correva lungo la schiena.

Premette di nuovo il bottone dell’“avanti veloce”. Le immagini erano assolutamente banali. Era spaventoso quanto fossero banali.

Con qualche trucco si sarebbe potuta creare una storia ben più convincente.

Cominciò a provare un altro vago malessere mentre guardava quella cassetta irrimediabilmente oscena e, con lento orrore, trovò in sé la possibile risposta all’assurdità della situazione.

Doveva avere avuto…

Scosse la testa e cercò di mettere ordine nel cervello.

Un volo notturno verso est… I sonniferi che aveva preso per passare la notte dormendo. La vodka che aveva ingollato per acuire l’effetto dei sonniferi…

Cos’altro? Be’, per diciassette anni era stata ossessionata dall’immagine di un affascinante uomo bicefalo che aveva una testa travestita da pappagallo in gabbia, aveva cercato di rimorchiarla a una festa ma poi, spazientito, era volato su un altro pianeta a bordo di un disco volante. Di colpo le apparve in vari modi inquietante quell’idea che non le era mai venuta in mente prima d’allora. Mai, in ben diciassette anni.

Strinse una mano a pugno e se la ficcò in bocca. Doveva chiedere aiuto.

Poi c’era stato Eric Bartlett che farneticava di una nave aliena atterrata in giardino. E prima di quello… Be’, a New York era stata tormentata dall’afa e dallo stress. Grandi speranze, e poi un’amara delusione. E le menate astrologiche.

Ecco qual era la risposta. Lei era esausta, aveva un esaurimento nervoso e poco dopo essere tornata a casa aveva cominciato ad avere delle allucinazioni. Si era sognata l’intera storia. Degli alieni privati della loro mente e del loro passato, che si trovavano bloccati su un remoto avamposto del nostro sistema solare e riempivano il loro vuoto culturale con la nostra spazzatura culturale. Ma certo! Era il modo che usava la natura per suggerirle di ricoverarsi al più presto in una costosa clinica medica.

Si sentiva molto, molto male. Si ricordò anche di quanti caffè avesse preso, e si rese conto di avere il respiro pesante e affannoso.

La soluzione parziale a qualsiasi problema, pensò, era rendersi conto di avere il problema. Si sforzò di respirare regolarmente. Aveva ripreso in tempo il controllo. Si era accorta di trovarsi in una situazione critica. Psicologicamente era finita sull’orlo di un baratro, ma ora stava tornando indietro. S’impose di calmarsi, calmarsi, calmarsi. Si appoggiò allo schienale della sedia e chiuse gli occhi.

Li riaprì dopo un po’, quando ormai respirava regolarmente.

Allora da dove le era arrivata la cassetta?

Quella cassetta che continuava ad andare?

Be’, era una montatura.

Doveva essere stata Tricia a truccare le immagini, perché in tutta la colonna sonora si sentiva la sua voce far domande. Ogni tanto, al termine di una ripresa, la videocamera si abbassava, e lei vedeva i propri piedi e le proprie scarpe. Sì, Tricia aveva ideato quella montatura e non se ne ricordava, ne’ sapeva perché l’avesse fatto.

Ora, mentre guardava lo schermo annebbiato e tremolante, sentì nuovamente il respiro affannoso.

Doveva avere ancora le allucinazioni.

Scosse la testa, cercando di ricacciare indietro le immagini. Non si ricordava proprio di aver manipolato quel videotape chiaramente manipolato. Le sembrava invece di avere reali ricordi che somigliavano molto a quell’evidente montatura. Continuò a guardare con un senso di stordito sconcerto.

La persona che aveva battezzato il Capo la stava interrogando sull’astrologia, e lei rispondeva pacatamente e tranquillamente. Ma Tricia riusciva a cogliere gli accenti di panico nascosti nella propria voce.

Il Capo premette un pulsante e una parete di velluto marrone si ritrasse per rivelare una lunga fila di monitor televisivi. Su ogni monitor appariva un caleidoscopio di diverse immagini: qualche secondo di gioco a premi, qualche secondo di telefilm poliziesco, qualche secondo del filmino delle vacanze di chissà chi, qualche secondo di sesso, qualche secondo di notizie, qualche secondo di commedia. Il Capo era chiaramente assai fiero di tutta quella roba, e agitava le mani come un direttore d’orchestra mentre continuava a dire cazzate.

Mosse ancora le mani, e tutti i monitor si unirono a formare un unico gigantesco schermo di computer su cui appariva la rappresentazione di tutti i pianeti del sistema solare sullo sfondo delle stelle e delle loro costellazioni. L’immagine era immobile.

– Siamo molto avanzati – stava dicendo il Capo. – Molto avanzati in aritmetica, in trigonometria cosmologica e nel calcolo della navigazione tridimensionale. Molto avanzati. Avanzatissimi. Solo che abbiamo perso tutte le nostre preziose nozioni. Che peccato. Ci piace possedere così tante nozioni, solo che sono scomparse. Sono là nello spazio, che rotolano chissà dove con i nostri nomi e tutte le informazioni sulla nostra patria e i nostri cari. – La invitò con un gesto a sedersi davanti alla console del computer e concluse: – La prego, usi le sue nozioni al posto nostro.

Subito dopo, ovviamente, Tricia aveva appoggiato in fretta la videocamera sul cavalletto per immortalare l’intera scena. Poi si era fatta inquadrare, si era seduta con calma davanti al gigantesco schermo, aveva impiegato qualche attimo a familiarizzarsi con l’interfaccia, e aveva quindi cominciato, con tranquilla competenza, a fingere di avere una minima idea di quanto faceva.

In realtà non era stato così difficile.

Dopotutto, Tricia si era laureata in matematica e in astrofisica prima di fare l’anchorwoman, ed era perfettamente in grado di compensare con un bluff quella parte di scienza che si era dimenticata nel corso degli anni.

Il computer davanti a cui sedeva dimostrava chiaramente che i grebulon provenivano da una civiltà assai più progredita e sofisticata di quanto non lasciasse trasparire il vuoto mentale in cui attualmente si trovavano, e con quel mezzo tecnico lei riuscì, in una trentina di minuti, a mettere a punto meglio che poteva un modello approssimativo del sistema solare.

Certo non era un modello molto preciso, però sembrava buono. I pianeti giravano in discrete simulazioni della loro orbita, e, a occhio e croce, si riusciva a osservare il moto dell’intero meccanismo cosmologico virtuale da qualsiasi punto all’interno del sistema.

Lo si osservava dalla Terra, lo si osservava da Marte ecc. Lo si osservava anche dalla superficie del pianeta Rupert. Tricia si era assai meravigliata della propria efficienza, ma si era meravigliata anche del sistema computerizzato con cui aveva lavorato. Se si fosse usato il più grande elaboratore della Terra, sarebbe occorso circa un anno di programmazione per assolvere quel compito.

Al termine dell’operazione il Capo le si era avvicinato e aveva guardato. Era entusiasta di quanto era riuscita a fare.

– Bene – aveva detto. – E adesso, per favore, vorrei che mi mostrasse come usare il sistema che ha appena progettato per tradurmi le informazioni contenute in questo libro.

Le aveva allungato tranquillamente un volume.

Il volume era Voi e i vostri pianeti di Gail Andrews.


Tricia fermò di nuovo la cassetta.

Si sentiva assai disorientata. Ora la sensazione di avere avuto le allucinazioni era scomparsa, ma non le aveva lasciato la mente più lucida e serena.

Si allontanò con la sedia dal tavolo del montaggio e si chiese che fare. Anni prima aveva abbandonato la ricerca astronomica perché sapeva, con assoluta certezza, di avere incontrato una creatura di un altro pianeta. A una festa. E sapeva anche, con assoluta certezza, che sarebbe diventata lo zimbello di tutti se avesse confessato un’esperienza del genere. Ma come poteva studiare cosmologia e tacere la cosa più importante che aveva appreso in quel campo? Così aveva scelto l’unica strada possibile: abbandonare il settore.

Ora lavorava alla televisione e le era capitata la stessa cosa.

Aveva una videocassetta, una vera videocassetta del più incredibile evento verificatosi nella storia di… be’, nella storia tout court: una civiltà aliena viveva su un dimenticato avamposto del remoto pianeta del nostro sistema solare in cui si era arenata.

Aveva la storia.

Era stata là.

Aveva visto tutto con i suoi occhi.

Dio santo, aveva il videotape che registrava gli avvenimenti.

E se l’avesse mostrato a qualcuno, sarebbe diventata lo zimbello di tutti.


Come poteva provare quanto le era accaduto? Non valeva neanche la pena ragionarci su. Da qualunque ottica la si guardasse, la faccenda appariva un incubo. Tricia cominciava ad avere mal di testa.

Nella borsa aveva delle aspirine. Uscì dalla sala di montaggio e andò al distributore automatico d’acqua del corridoio. Prese l’aspirina e bevve parecchi bicchieri.

Il posto era assai silenzioso. Lì di solito c’erano altre persone assorbite dai loro impegni, o almeno alcune persone assorbite dai loro impegni. Tricia sbirciò oltre la porta della sala montaggio attigua alla sua, ma non c’era nessuno.

Forse aveva un po’ esagerato nella sua ansia di tener fuori tutti.

“Non disturbare” dicevano i cartelli che aveva attaccato. “Non vi venga neanche in mente di entrare. Non m’interessa quel che volete dirmi. Fuori! Sono occupata!”

Quando rientrò notò che lampeggiava la spia dei messaggi nel suo telefono interno, e si chiese da quanto tempo lampeggiasse.

– Pronto – disse alla centralinista.

– Oh, signorina McMillan, sono così contenta che abbia telefonato! Quelli della sua compagnia televisiva hanno tanto cercato di mettersi in contatto con lei! Può chiamarli?

– Perché non me li ha passati? – chiese Tricia.

– Lei mi aveva detto che non dovevo passarle nessuno per nessun motivo. Aveva detto che dovevo addirittura negare che fosse lì. Non sapevo cosa fare. Sono salita per consegnarle un messaggio, ma…

– Va bene – la interruppe Tricia, maledicendosi. Poi chiamò il suo ufficio.

– Tricia! Dove cazzo di budda sei?

– In sala montaggio…

– Mi avevano detto…

– Lo so. Cosa c’è?

– Cosa c’è? Solo una dannata astronave aliena!

– Che? Dove?

– Regent’s Park. Una bellissima astronave argentata. C’è una bambina in compagnia di un uccello. Parla inglese, tira sassi alla gente e vuole che qualcuno le ripari l’orologio. Corri subito là.


Tricia la fissò.

Non era una nave grebulon. Non che lei all’improvviso fosse diventata esperta di astronavi extraterrestri, ma quello era un bell’apparecchio bianco, argenteo, luccicante, circa delle stesse dimensioni di un maxi-yacht transoceanico, al quale somigliava molto.

Al confronto, le strutture dell’enorme nave grebulon mezzo smantellata parevano torrette di una corazzata. Torrette. Ecco a cosa somigliavano gli anonimi edifici grigi! E lo strano, in essi, era che quando Tricia vi era passata accanto per tornare a bordo della navetta grebulon che l’avrebbe riportata sulla Terra, si erano mossi. Tutte queste considerazioni le fece in fretta mentre usciva di corsa dai taxi per andare incontro alla troupe televisiva.

– Dov’è la bambina? – gridò per farsi sentire nonostante il rumore degli elicotteri e delle sirene della polizia.

– La! – urlò il produttore mentre il tecnico del suono correva a metterle un microfono. – Dice che sua madre e suo padre sono nati su questo pianeta in una dimensione parallela o qualcosa del genere, che lei ha l’orologio di suo padre e… boh. Che posso dirti? Vedi di improvvisare. Chiedile cosa si prova a venire qui dallo spazio.

– Tante grazie, Ted – mormorò Tricia. Controllò che il microfono fosse ben fissato, fece una breve prova del suono con il tecnico, trasse un respiro profondo, buttò indietro i capelli ed entrò nel ruolo di giornalista professionista che giocava in casa ed era pronta a tutto.

Almeno, a quasi tutto.

Si girò a guardare la bambina. Senza dubbio doveva essere lei, con quei capelli scarmigliati e gli occhi folli. La bambina si voltò. E la fissò.

– Mamma! – urlò, e cominciò a tirarle sassi.