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Mentre correva, Ford Prefect crollò di colpo in terra. Il pavimento distava dal pozzo d’aerazione dieci centimetri in più di quanto ricordasse, sicché Ford calcolò male il punto in cui l’avrebbe colpito, si mise a correre troppo presto, inciampò malamente e si slogò una caviglia. Perdio! Continuò ugualmente a correre, zoppicando leggermente.
In tutto il palazzo le sirene d’allarme suonavano con la solita, isterica frenesia. Ford si chinò per cercare riparo dietro i soliti armadietti, si guardò intorno per controllare se nessuno lo vedeva, e frugò in fretta nella borsa per cercare le solite cose di cui aveva bisogno. La caviglia, insolitamente, gli faceva un male cane.
Non solo il pavimento distava dal pozzo di aerazione dieci centimetri in più di quanto ricordasse, ma si trovava anche su un pianeta diverso da quello che ricordava; a coglierlo di sorpresa erano stati però i dieci centimetri. Molto spesso gli uffici della Guida galattica per gli autostoppisti venivano, praticamente senza preavviso, trasferiti su un altro pianeta per motivi di clima e ostilità locali, bollette dell’energia elettrica o tasse, ma erano sempre ricostruiti nello stesso identico modo, quasi molecola per molecola. Molti dipendenti della compagnia consideravano la pianta degli uffici l’unica costante nota in un universo personale fortemente distorto.
C’era però qualcosa di strano.
Di per sé il fatto non era sorprendente, pensò Ford mentre tirava fuori l’asciugamano da lanciare contro i pesi leggeri. Quasi tutto nella sua vita era, in misura maggiore o minore, strano. Solo che stavolta il qualcosa di strano era strano in maniera leggermente diversa dal solito, il che era, be’, singolare. Ford non riuscì a capire subito di che si trattasse.
Tiro fuori il cacciavite n. 3.
Gli allarmi suonavano nel consueto noto modo, e creavano una sorta di musica che lui riusciva quasi a seguire fischiettando. Era tutto molto familiare. Il mondo esterno, invece, era nuovo. Ford non era mai stato prima su Saquo-Pilia-Hensha, ma aveva apprezzato quel pianeta dall’atmosfera un po’ godereccia.
Prese dalla borsa i giocattoli, un arco e una freccia, che aveva comprato in un mercato in strada.
Aveva scoperto che Saquo-Pilia-Hensha aveva un’atmosfera godereccia perché la gente del luogo stava celebrando l’annuale festa della Teoria di Sant’Anvelmo. Sant’Anvelmo era stato, in vita, un re grande e popolare che aveva elaborato una grande, popolare teoria. Re Anvelmo aveva cioè ipotizzato che, in un mondo in cui tutte le altre cose erano uguali, l’unico desiderio delle persone fosse di essere felici, divertirsi e spassarsela insieme il più possibile. Al momento della morte aveva destinato l’intero suo patrimonio al finanziamento di una festa annuale in cui, per ricordare a tutti questa verità, si distribuisse in abbondanza ottimo cibo e si organizzassero stupidissimi giochi come la Caccia al Wocket. La sua Teoria ebbe un tale successo che il re fu fatto santo. Non solo: tutti quelli che in precedenza erano divenuti santi perché erano stati per esempio orribilmente lapidati o avevano vissuto a testa in giù e piedi in su dentro barili di letame, furono istantaneamente retrocessi e giudicati di colpo personaggi abbastanza imbarazzanti.
Il familiare edificio a forma di H della Guida galattica per gli autostoppisti torreggiava alla periferia della città, e Ford Prefect vi si era introdotto nel solito modo. Passava sempre dal sistema di ventilazione anziché dall’ingresso principale, perché quest’ultimo era sorvegliato da robot il cui compito era di rivolgere ai dipendenti che entravano domande sul loro conto spese. Il conto spese di Ford Prefect rappresentava un problema difficile e complesso, e lui aveva scoperto come le argomentazioni che portava per giustificarne l’entità fossero troppo sottili per essere comprese dai rozzi robot dell’atrio. Preferiva quindi entrare da un’altra via.
Ciò significava far scattare quasi tutti gli allarmi del palazzo, ma non quello del reparto spese, ed era per questo che Ford sceglieva sempre tale via.
Si accovacciò dietro l’armadietto, leccò la ventosa di gomma della freccia-giocattolo, poi piazzò quest’ultima sulla corda dell’arco.
Nel giro di una trentina di secondi, dal corridoio arrivò volando a circa un metro d’altezza una roboguardia che aveva le dimensioni di un piccolo melone e guardava a destra e a sinistra alla ricerca di eventuali irregolarità.
Con impeccabile tempismo, Ford lanciò la freccia nella traiettoria seguita dal robot. La freccia volò nel corridoio e si conficcò dondolando sulla parete di fronte a Ford. Il robot, avvertito subito dai sensori, si girò di novanta gradi per seguire il giocattolo e vedere cosa diavolo fosse e dove stesse andando.
Ford guadagnò così un prezioso secondo, durante il quale il robot guardò nella direzione opposta alla sua. Lanciò l’asciugamano contro la piccola guardia volante e la beccò.
A causa delle diverse protuberanze sensoriali di cui era dotato, il robot non aveva libertà di manovra all’interno dell’asciugamano, e si muoveva avanti e indietro senza riuscire a girarsi verso chi l’aveva catturato.
Ford lo tirò in fretta a sé e lo inchiodò a terra. Il robot prese a gemere pietosamente. Con mossa abile e veloce, Ford infilò la mano sotto il telo e, con il cacciavite n. 3, fece saltare il piccolo pannello di plastica che dava accesso ai circuiti logici.
Ora, la logica è una cosa meravigliosa, ma, come hanno rilevato i processi evolutivi, presenta certi inconvenienti.
Qualunque cosa pensi logicamente può essere ingannata da un’altra cosa capace di usare la medesima logica. Il sistema più facile per ingannare un robot logicissimo è di sottoporlo più volte alla stessa sequenza di stimoli, in modo da intrappolarlo in un’impasse. Questo fu brillantemente dimostrato nel corso dei celebri esperimenti del Panino all’Aringa condotti millenni fa al CMCLPIO (Centro maximegaloniano per il calcolo lento e penoso dell’incredibilmente ovvio).
Un robot fu programmato a credere che gli piacevano i panini all’aringa. Di fatto questa rappresentò la parte più difficile dell’intero esperimento. Una volta programmato a credere che gli piacevano i panini all’aringa, il robot veniva posto davanti a un panino all’aringa.
Al che esso pensava: “Ah, un panino all’aringa! Mi piacciono i panini alle aringhe!”.
Così si chinava, raccoglieva il panino all’aringa con l’apposita paletta, e poi si raddrizzava. Purtroppo il robot era strutturato in modo che, raddrizzandosi, faceva inevitabilmente scivolare dall’apposita paletta il panino all’aringa, che cadeva sul pavimento davanti a lui. Al che il robot pensava: “Ah, un panino all’aringa…” ecc., e ripeteva lo stesso atto innumerevoli volte. L’unica cosa che impediva al panino all’aringa di stufarsi di quella maledetta faccenda e svignarsela per cercare altri modi di passare il tempo era che il panino all’aringa, essendo solo un pezzetto di pesce morto inserito tra due fette di pane, era in fondo meno sensibile del robot a quanto gli accadeva intorno.
Gli scienziati del Centro scoprirono così come la forza trainante che stava dietro a tutti i cambiamenti, gli sviluppi e le innovazioni della vita fossero i panini alle aringhe. Essi pubblicarono sull’argomento un articolo che fu ampiamente criticato in quanto giudicato estremamente idiota. Controllarono i loro dati e capirono di avere scoperto in realtà la “noia”, o meglio, la funzione pratica della noia. Con febbrile entusiasmo proseguirono il loro lavoro individuando altre emozioni, come l’“irritabilità”, la “depressione”, la “nausea”, la “ripugnanza” e così via. Compirono la successiva grande scoperta quando smisero di utilizzare panini all’aringa: all’improvviso si trovarono infatti di fronte un’altra serie di interessantissime emozioni, come il “sollievo”, la “gioia”, l’“allegria”, l’“appetito”, la “soddisfazione” e, soprattutto, il desiderio di “felicità”.
Fu, questa, la scoperta più sensazionale.
Si poté infatti sostituire facilmente buona parte del complesso codice di macchina che regolava il comportamento dei robot in tutte le possibili circostanze. Bastava che i robot avessero la capacità di essere annoiati o felici, e che si soddisfacessero le condizioni atte a far insorgere tali emozioni. Essi avrebbero poi elaborate da soli tutto il resto.
Al momento il robot che Ford aveva intrappolato sotto l’asciugamano non era un robot felice. Era felice quando poteva muoversi. Era felice quando poteva vedere cose. Era particolarmente felice quando poteva vedere cose che si muovevano, e soprattutto cose che si muovevano violando qualche regola, perché in quel caso, con notevole piacere, denunciava la loro infrazione.
Ford avrebbe presto rimediato al problema.
Si accovacciò sopra il robot e lo tenne tra le ginocchia.
L’asciugamano copriva ancora tutti i meccanismi sensoriali, ma Ford adesso aveva messo allo scoperto i circuiti logici. Il robot ronzava irritato e avvilito, ma poteva solo dibattersi, non realmente muoversi.
Usando il cacciavite, Ford tolse dal suo incavo un piccolo chip.
Appena il chip saltò fuori, il robot si acquietò e rimase come in coma.
Il chip tolto era quello contenente le istruzioni per tutte le condizioni da soddisfare perché il robot fosse felice. Il robot sarebbe stato felice quando una minuscola carica elettrica proveniente da un punto subito a sinistra del chip avesse raggiunto un altro punto subito a destra dello stesso chip. Era il chip a stabilire se la carica arrivasse o meno nel punto giusto.
Ford estrasse dall’asciugamano un pezzetto di filo che vi era intrecciato dentro. Inserì i capi del filo nei due fori accanto all’incavo dov’era stato il chip: il primo in alto a sinistra, il secondo in basso a destra.
Era tutto quanto occorreva fare. Ora il robot sarebbe stato felice in qualsiasi circostanza.
Ford si alzò in fretta e mise via l’asciugamano. Il robot si levò in aria con espressione estatica, seguendo una traiettoria un po’ zigzagante.
Poi si girò e scorse Ford.
– Signor Prefect, signore! Sono così felice di vederla!
– Anche a me fa piacere vederti, piccolo amico – disse Ford.
Il robot riferì in fretta al controllo centrale che tutto stava andando benissimo in quello che gli pareva il migliore dei mondi possibili, e subito gli allarmi tacquero e la vita riprese normale.
O meglio, quasi nomale.
C’era qualcosa di strano in quegli uffici.
Il piccolo robot gorgogliava di piacere elettrico. Ford si incamminò veloce lungo il corridoio, mentre l’affarino rotondo lo seguiva spiegandogli quanto tutto fosse bello, e quanto lui fosse felice di poterglielo dire.
Ford, invece, non era felice.
Passò accanto a persone ignote. Non sembravano le persone a cui era abituato. Erano troppo tirate a lucido. E avevano occhi troppo duri.
Ogni volta che credeva di vedere in lontananza qualcuno che conosceva e correva a salutarlo, il tizio risultava essere qualcun altro, e aveva capelli molto più a posto e uno sguardo molto più aggressive e deciso di, be’, di chiunque Ford conoscesse.
Una scala era stata spostata di qualche centimetro a sinistra. Un soffitto era stato leggermente abbassato. Un atrio era stato ristrutturato. Tutte cose di per sé non inquietanti ma un po’ strane. A disturbare era l’arredamento. Un tempo era sgargiante e pacchiano.
Costoso; si, perché la Guida vendeva benissimo in tutta la Galassia civilizzata e postcivilizzata, ma costoso e bizzarro. Macchine con stravaganti videogame fiancheggiavano i corridoi, pianoforti a coda dagli assurdi colori pendevano dai soffitti, infide creature marine del pianeta Viv si levavano sopra l’acqua delle piscine in atri pieni di alberi, robomaggiordomi con indosso stupide camicie vagavano per i corridoi cercando qualcuno sulle cui mani piazzare bevande spumeggianti. In ufficio la gente teneva megadraghi al guinzaglio e pterospondi su pertiche. La gente sapeva divertirsi, e se non si divertiva poteva iscriversi a corsi specializzati che la aiutavano in materia.
Adesso non c’era più niente di tutto ciò.
Qualcuno aveva mutato completamente, e iniquamente, il clima.
Ford si infilò in fretta in una piccola nicchia, unì le mani a coppa e afferrò il robot volante. Si rannicchiò e guardò il gorgogliante cibernauta.
– Che sta succedendo qui?
– Oh, una cosa meravigliosa, signore, la più bella che si possa verificare. La prego, posso sederle in grembo?
– No – rispose Ford, respingendolo. Il robot fu felicissimo di venire spinto via così e cominciò a dondolare, gorgogliare e andare in brodo di giuggiole. Ford lo riafferrò e lo tenne a una trentina di centimetri dalla propria faccia. Il robot cercò di stare fermo e buono, ma non poté fare a meno di tremare leggermente.
– È cambiato qualcosa no? – sibilò Ford.
– Oh, si – squittì la piccola guardia – nel modo più bello e fantastico. Ne sono così contento.
– Be’, allora com’era prima?
– Splendido.
– Ma ti piace il tipo di cambiamento che è avvenuto? – chiese Ford.
– Mi piace tutto – mugolò il robot. – In particolare adoro che lei mi si rivolga così, gridando. Lo faccia ancora, la prego.
– Dimmi cos’è successo!
– Oh, grazie, grazie!
Ford sospirò.
– Va bene, va bene – ansimò il robot. – La Guida è stata rilevata. C’è un nuovo management. È tutto talmente stupendo che mi sento sciogliere. Anche il vecchio management era favoloso, naturalmente, anche se non sono sicuro che all’epoca la pensassi così.
– Allora non avevi un pezzetto di filo conficcato in testa.
– Verissimo. Meravigliosamente vero. Splendidamente, gorgogliosamente, spumeggiantemente, esplosivamente vero. Che osservazione estasiantemente giusta!
– Che è successo? – insistette Ford. – Cos’è questo nuovo management? Quando si è insediato qui? Io… oh, non importa – concluse, mentre il robottino farfugliava per l’incontrollabile gioia e gli si strusciava contro il ginocchio. – Lo scoprirò io stesso.
Ford si lanciò contro la porta dell’ufficio del direttore, ne sfondò e frantumò il telaio, si raggomitolò e ruzzolò sul pavimento fino al punto in cui si trovava il carrello delle bevande (pieno di alcuni dei più forti e costosi liquori della Galassia); lo afferrò e, usandolo come riparo, rotolò con esso lungo la parte centrale della stanza fino a raggiungere la preziosa e cafonissima statua di Leda e il Polpo, dietro la quale si nascose. Nel frattempo la piccola roboguardia, volando all’altezza di un petto umano provò un delizioso gusto suicida nell’allontanare da Ford il fuoco delle armi e nell’attirarlo su di sé.
Questo, almeno, era il piano, e un piano necessario. Il direttore in carica, Stagyar-zil-Doggo, era un uomo gravemente squilibrato che accoglieva con spirito omicida i collaboratori che si presentavano nel suo ufficio senza nuovi testi già pronti per la stampa. Così aveva una batteria di pistole lasercomandate che, collegate a speciali rilevatori collocati nell’intelaiatura della porta, avevano lo scopo di scoraggiare chiunque si limitasse a portare eccellenti ragioni per giustificare il fatto di non avere scritto niente. In questo modo il livello di produzione veniva mantenuto alto.
Purtroppo il carrello dei liquori non c’era.
Per far fronte all’emergenza, Ford si buttò da un lato e ruzzolò verso la statua di Leda e il Polpo, che a sua volta non c’era. In una sorta di panico cieco, caracollò e si rivoltolò per la stanza, inciampò, roteò, urtò la finestra (che per fortuna era costruita in modo da resistere all’attacco di razzi), rimbalzò e cadde, ammaccato e scomposto, dietro un elegante divano grigio e infossato che un tempo non c’era.
– Il signor Prefect, immagino – disse una voce.
La voce era quella di un individuo dall’aria subdolamente affabile che sedeva a un’ampia scrivania di ceramo-tek. Stagyar-zil-Doggo era sicuramente un tipo infernale, ma nessuno, per una vasta gamma di motivi, l’avrebbe mai definito uno dall’aria subdolamente affabile.
Quello non era Stagyar-zil-Doggo.
– Presumo, dalla maniera in cui è entrato, che al momento non abbia nuovo materiale per la, ehm, Guida – disse il tizio dall’aria subdola. Teneva i gomiti appoggiati al tavolo e i polpastrelli uniti in un atteggiamento che, inspiegabilmente, non è mai stato classificato come delitto capitale.
– Ho avuto un sacco di impegni – si giustificò debolmente Ford. Si alzò barcollando e si ripulì i vestiti. Poi si chiese perché diavolo cercasse deboli scuse. Doveva riprendere il controllo della situazione, e scoprire chi cavolo fosse quella persona. Di colpo gli venne in mente un modo per farlo.
– Chi diavolo è lei? – domandò.
– Sono il suo nuovo direttore. Questo se decidiamo di servirci ancora delle sue prestazioni professionali. Mi chiamo Vann Harl. – Non tese la mano, ma aggiunse solo: – Che cosa ha fatto a quella roboguardia?
Il robottino, vicino al soffitto, girava pian piano mugolando sommessamente fra sé.
– L’ho resa molto felice – sibilò Ford. – È una specie di missione che mi sono assegnato. Dov’è Stagyar? E soprattutto, dov’è il carrello dei liquori?
– Il signor zil-Doggo non fa più parte di questa organizzazione. Immagino che il suo carrello dei liquori lo aiuti a consolarsi dell’accaduto.
– Organizzazione? – strillò Ford. – Organizzazione? Che termine cretino per definire una baracca come questa!
– È proprio quello che pensiamo anche noi. Strutture carenti, risorse eccessive, cattiva amministrazione, soverchio consumo di bevande alcoliche. E questo – concluse Harl – sintetizza bene com’era l’ex direttore.
– Io curerò le barzellette – disse aggressivo Ford.
– No – fece Harl. – Lei curerà la rubrica dei ristoranti. Buttò sulla scrivania un pezzo di plastica. Ford non si avvicinò per prenderlo.
– Lei curerà cosa? – disse Ford.
– No. Io sono Harl. Lei è Prefect. Lei curerà la rubrica dei ristoranti. Io sono il direttore. Io siedo qui e le dico di curare la rubrica dei ristoranti. Ha capito?
– La rubrica dei ristoranti? – ripeté Ford, ancora troppo sbalordito per provare vera rabbia.
– Si sieda Prefect – disse Harl. Ruotò sulla poltrona girevole, si alzò e fissò, fuori, i puntolini che, ventitré piani sotto, si godevano la loro festa.
– È ora di rimettere in piedi la baracca, Prefect – sentenziò. – Noi della InfiniDim Enterprises siamo…
– Voi di che?
– Della InfiniDim Enterprises. Abbiamo rilevato la Guida.
– InfiniDim?
– Ci è costato milioni quel nome, Prefect. Se lo faccia piacere o prepari i bagagli.
Ford alzò le spalle. Non aveva nessun bagaglio da preparare.
– La Galassia sta cambiando – disse Harl. – Noi dobbiamo cambiare con essa. Seguire le tendenze del mercato. Il mercato è in evoluzione. Nuove aspirazioni. Nuova tecnologia. Il futuro è…
– Non mi parli del futuro – disse Ford. – L’ho percorso in lungo e in largo, il futuro. Ci ho passato la metà del mio tempo. È sempre identico, dappertutto. Ogni periodo è uguale all’altro. Proprio uguale. Le stesse, vecchie menate con auto più veloci e aria più fetente.
– Quello è un futuro – replicò Harl. – Quello, se mi permette, è il suo futuro. Lei deve imparare a pensare multidimensionalmente. Esistono infiniti futuri che da questo o quel momento si espandono in tutte le direzioni. Miliardi di futuri che si biforcano a ogni istante! Ogni possibile posizione di ogni possibile elettrone si moltiplica in miliardi di probabilità! Miliardi e miliardi di fulgidi, brillanti futuri! Sa cosa significa questo?
– Si sta sbavando il mento.
– Miliardi e miliardi di mercati!
– Capisco – disse Ford. – Allora voi vendete miliardi e miliardi di Guide.
– No – disse Harl, cercando il fazzoletto da naso e non trovandolo.
– Mi scusi – aggiunse – ma l’argomento mi entusiasma. – Ford gli porse il proprio asciugamano.
– Il motivo per cui non vendiamo miliardi e miliardi di Guide – continuò Harl dopo essersi pulito la bocca – è la spesa. Noi vendiamo invece una sola Guida miliardi e miliardi di volte. Sfruttiamo la natura multidimensionale dell’Universo per ridurre i costi di produzione. E non vendiamo ad autostoppisti squattrinati. Che stupida idea era quella! Cercare proprio il segmento di mercato che, praticamente per definizione, non ha il becco di un quattrino, e tentare di proporgli il prodotto. No. Noi vendiamo la Guida in un miliardo di diversi futuri al ricco che viaggia per affari e a sua moglie, che viaggia per turismo.
Questa è, in assoluto, l’iniziativa imprenditoriale più rivoluzionaria, dinamica ed elettrizzante dell’intero infinito multidimensionale dello spazio-tempo-probabilità.
– E vorrebbe che curassi la rubrica dei ristoranti – disse Ford.
– Apprezzeremmo il suo contributo.
– Ammazza! – urlò Ford, al proprio asciugamano.
L’asciugamano saltò via dalle mani di Harl.
Saltò via non perché avesse una propria forza motrice, ma perché Harl pensò spaventato che potesse averla. Poi lo spaventò vedere Ford Prefect che si scagliava contro di lui, di là dalla scrivania, mostrando il pugno. In realtà Ford si era tuffato per prendere la carta di credito, ma non si arriva a occupare il tipo di posizione che Harl occupava nel tipo di organizzazione in cui la occupava senza maturare una visione sanamente paranoica della vita. Vann prese la ragionevole precauzione di indietreggiare di colpo, sbatté forte la testa contro il vetro a prova di razzo, e subito dopo si abbandonò a una serie di inquietanti sogni assai personali.
Ford era bocconi sulla scrivania, stupito di come le cose fossero andate a gonfie vele. Diede, una rapida occhiata al pezzetto di plastica che adesso aveva in mano: era la carta di credito Conto-Spes con il suo nome in rilievo e scadenza di lì a due anni, ed era forse la cosa più eccitante che avesse mai visto in vita sua. Poi scavalcò la scrivania per occuparsi di Harl.
Il direttore respirava abbastanza regolarmente. Ford pensò che avrebbe forse respirato ancora meglio senza il peso del portafogli che gli opprimeva il petto, così estrasse il portafogli dalla tasca interna di Harl e vi frugò dentro.
Parecchi contanti. Gettoni di credito. Tessera di iscrizione al club dell’ultragolf. Tessere di iscrizione ad altri club. Fotografie della moglie e della famiglia di qualcuno, probabilmente di Harl, ma di quei tempi era difficile esserne certi. I dirigenti superimpegnati spesso non avevano il tempo per una moglie e una famiglia a tempo pieno, e si limitavano a noleggiarle per i weekend.
Ah!
Non riusciva a credere di aver trovato quel che aveva appena trovato.
Estrasse lentamente dal portafogli un sublime pezzetto di plastica che si nascondeva in mezzo a un mucchio di ricevute.
Non era sublime a vedersi. Anzi, era abbastanza insignificante. Era semitrasparente e appena un po’ più grosso di una carta di credito.
Guardandolo controluce si notavano, inserite a pseudocentimetri dalla superficie, immagini e informazioni, codificate olograficamente.
Si trattava di un’Ident-i-Fic, e, da parte di Harl, era davvero sciocco e imprudente, benché perfettamente comprensibile, tenerla nel portafogli. Di quei tempi ti chiedevano in così tanti modi di fornire la prova assoluta della tua identità, che, senza contare i profondi problemi esistenziali derivanti dal cercare di mantenere una coscienza coerente in un universo fisico epistemologicamente ambiguo, bastava quell’unico fattore a renderti la vita infinitamente seccante. I bancomat esemplificavano bene questo tipo di seccatura.
File di persone che stavano lì a farsi leggere le impronte digitali, esaminare la retina, prelevare frammenti di pelle dalla nuca, effettuare istantanee (o quasi istantanee, perché nella tediosa realtà occorrevano sei o sette secondi) analisi genetiche, e che poi dovevano rispondere a domande trabocchetto su familiari che non ricordavano nemmeno di avere, e sul colore di tovaglia che avevano affermato di preferire in dimenticati momenti del passato. E tutto quel tempo lo perdevano solo per prendere un po’ di contanti in più per il weekend. Se qualcuno voleva procurarsi un prestito per l’acquisto di una jet-mobile, firmare un trattato missilistico o pagare un intero conto di ristorante, le cose rischiavano di diventare difficilissime.
Così era nata l’Ident-i-Fic. Questa codificava tutte le informazioni su una persona, il suo corpo e la sua vita in una carta multiuso che veniva letta da una macchina e si poteva tenere nel portafogli, e rappresentava quindi il più grande trionfo che la tecnologia avesse fino allora riportato su se stessa e sul comune buon senso.
Ford se la mise in tasca. Gli era appena venuta in mente un’idea fantastica. Si chiese per quanto tempo Harl sarebbe rimasto svenuto.
– Ehi! – gridò al robottino grande come un melone che continuava a sdilinquirsi di gioia vicino al soffitto. – Vuoi continuare a essere felice?
Il robot gorgogliò di sì.
– Allora resta con me e fa’ sempre tutto quel che ti dico.
Il robot replicò che, tante grazie, ma stava benissimo dov’era, attaccato al soffitto. In precedenza non si era mai accorto di che delizioso titillamento potesse procurare un buon soffitto, e desiderava analizzare più a fondo i propri sentimenti nei confronti dei soffitti.
– Se resti lì – disse Ford – presto ti prenderanno e ti sostituiranno il chip che condiziona la tua felicità a particolari circostanze. Se vuoi continuare a essere contento, vieni subito con me.
Il robot emise un lungo, profondo sospiro di intensa tristesse e si allontanò riluttante dal soffitto.
– Senti – disse Ford – puoi mantenere felice per qualche minuto il resto del sistema di sicurezza?
– Una delle gioie dell’autentica felicità – trillò il robot – è condividere i propri sentimenti. Trabocco, sbavo, straripo di…
– Va bene – disse Ford. – Diffondi un po’ di felicità in tutta la rete di sicurezza. Non fornirle alcun dato. Falla solo stare bene, in modo che non senta il bisogno di chiedere informazioni.
Raccolse l’asciugamano e corse allegramente alla porta. Negli ultimi tempi la vita era stata un po’ noiosa. Ora invece, da vari segni, si prospettava galvanizzante.