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Arthur non sapeva dirsi quale fosse la prima cosa di cui aveva notato la mancanza. Quando si accorse che quella certa cosa non era lì, pensò subito all’altra e capì immediatamente che erano scomparse entrambe e che, in conseguenza di questo, sarebbero sorte difficoltà orrende e quasi insormontabili.

Casualità non c’era. E non c’era nemmeno il pacchetto.

Lui lo aveva lasciato tutto il giorno su uno scaffale, in bella vista. Per dimostrare la sua fiducia.

Sapeva che, come genitore, doveva dar fiducia a sua figlia, cercare di costruire un senso di reciproco rispetto e sicurezza nel loro rapporto. Aveva avuto la sgradevole sensazione che un simile comportamento fosse da idioti, ma l’aveva adottato ugualmente; e in effetti era risultato un comportamento da idioti. Si vive e impara. In ogni caso, si vive.

E ci si fa anche prendere dal panico.

Arthur corse fuori della capanna. Era tardo pomeriggio. La luce cominciava a essere fioca, e si stava addensando una tempesta. Arthur non vide Casualità da nessuna parte, né vide sue tracce. Fece domande. Nessuno l’aveva vista. Ne fece ancora. Stessa risposta. Era ormai sera, la gente stava tornando a casa. Ai confini del villaggio mulinava un venticello che sollevava gli oggetti gettandoli qua e là in maniera insidiosamente caotica.

Trovò il Vecchio Thrashbarg e chiese a lui. Thrashbarg lo guardò gelido, poi indicò in una direzione che Arthur aveva temuto e che quindi, istintivamente, aveva giudicato quella giusta.

Così adesso era chiara la truce verità.

Sua figlia era andata dove pensava che lui non l’avrebbe seguita.

Arthur alzò gli occhi al cielo, che era cupo, striato e livido, e lo giudicò il tipo di cielo da cui i quattro cavalieri dell’Apocalisse avrebbero scelto di comparire per non sembrare un branco di completi imbecilli.

Con l’opprimente presentimento di sviluppi infausti, si incamminò sul sentiero che portava alla foresta della valle successiva. Quando tentò di lanciarsi in una faticosa corsa, grosse gocce di pioggia presero a scendere in terra.


Casualità raggiunse la cima della collina e guardò, giù, la valle successiva. La scalata le era parsa più lunga e difficile di quanto avesse previsto. Temeva che compiere quell’escursione di notte non fosse un’idea tanto buona, ma suo padre aveva girellato tutto il giorno vicino alla capanna cercando di fingere con lei o con se stesso di non fare la guardia al pacchetto. Alla fine era dovuto andare alla fucina per parlare dei coltelli con Strinder, e Casualità ne aveva approfittato per correre via col pacchetto.

Sapeva di non poter aprire l’involucro lì, nella capanna, e nemmeno al villaggio, perché da un momento all’altro avrebbe potuto incontrare suo padre. Quindi le era chiaro che doveva raggiungere un posto in cui nessuno le andasse dietro.

Adesso poteva anche fermarsi dov’era. Aveva preso quella direzione nella speranza che il padre non la seguisse, ma anche se lui l’avesse seguita, non l’avrebbe mai trovata nella zona boscosa della collina, con la notte che incombeva e la pioggia imminente.

Lungo tutta la salita, Casualità aveva tenuto il pacchetto sotto il braccio. Era un oggetto la cui forma aveva il piacevole effetto di suscitare curiosità: si trattava di una scatola quadrata lunga quanto il suo avambraccio e dello spessore della sua mano, avvolta in plascarta marrone e dotata di un nuovo, ingegnoso tipo di spago autoannodante.

Quando Casualità la scosse non tintinnò, ma lei era molto contenta di sentire che il peso era concentrato al centro.

Dopo aver percorso tutta quella strada, però, le parve più allettante non fermarsi lì, ma scendere nella zona dall’aura proibita in cui era precipitata la nave di suo padre. Casualità non sapeva bene cosa volesse dire “infestata”, ma la stuzzicava l’idea di scoprirlo. Avrebbe proceduto e aperto il pacco solo quando fosse arrivata là.

Tuttavia si stava facendo più buio. Non aveva ancora usato la minuscola torcia elettrica, perché non voleva apparire visibile in lontananza. Adesso era costretta ad accenderla, ma forse la luce non l’avrebbe tradita, perché ormai si trovava dall’altro lato della collina che divideva le due valli.

Accese la torcia. Quasi nello stesso momento vide un lampo illuminare la valle verso cui era diretta, e si spaventò parecchio.

Quando fu riavvolta dal buio e lo scoppio di un tuono echeggiò dappertutto, di colpo si sentì piccola e sperduta e armata solo di un debole fascio di luce che le oscillava in mano. Pensò che forse, dopotutto, era meglio fermarsi e aprire il pacchetto lì. O magari andare a casa e tornare l’indomani. Ma esitò solo un attimo. Sapeva che quella sera non ci sarebbe stato un ritorno, e aveva la sensazione che non ci sarebbe stato mai più.

Continuò a scendere lungo il fianco della collina. Adesso la pioggia era sempre più fitta. Mentre poco prima cadevano solo pochi goccioloni, ora era scoppiato un forte temporale, la pioggia sibilava tra gli alberi e la terra si era fatta scivolosa sotto i piedi.

Almeno, Casualità credeva che fosse la pioggia a sibilare. Quando la luce della torcia oscillava tra gli alberi, le pareva di vedere ombre che guizzavano e la sbirciavano. Continuò a scendere.

Corse avanti altri dieci-quindici minuti, ormai tutta fradicia e tremante, e a poco a poco le sembrò di distinguere un’altra luce davanti a lei. Era un bagliore molto debole e non era sicura di non esserselo immaginato. Spense la torcia per vedere. Sì, di fronte a lei pareva esserci una sorta di fioco chiarore. Non riusciva a capire cosa fosse. Riaccese la torcia e continuò a scendere giù dalla collina verso l’ignota luce.

Nel bosco, però, c’era qualcosa che non andava.

Non capì subito cosa fosse, ma gli alberi non sembravano rigogliose piante tutte protese verso l’arrivo di una bella primavera.

Curvi e cadenti, avevano forme malsane, e un’aria pallida e avvizzita.

Più di una volta Casualità ebbe l’inquietante sensazione che cercassero di ghermirla mentre passava, ma era solo un’illusione causata dalla luce, che faceva guizzare e tremolare le loro ombre.

D’un tratto qualcosa cadde da un albero davanti a lei. Allarmata, Casualità fece un salto indietro, lasciando andare sia la torcia che il pacchetto. Si accovacciò e tiro fuori di tasca il sasso appuntito.

La cosa che era caduta dall’albero si stava muovendo. La torcia giaceva in terra in direzione della sagoma ignota, e una grande, grottesca ombra avanzò lentamente, nel fascio di luce, verso la bambina. Al di sopra del sibilo costante della pioggia, Casualità sentì deboli rumori striduli e fruscianti. Cercò tentoni la torcia, la trovò e la puntò direttamente verso la creatura.

Nello stesso istante un’altra creatura saltò giù da un albero a circa un metro di distanza. Casualità puntò freneticamente la torcia ora sull’una ora sull’altra, e nel contempo sollevò la pietra tenendosi pronta a scagliarla.

In realtà erano animali molto piccoli. Solo l’angolazione della luce li aveva fatti apparire così grandi. Oltre che piccoli, erano pelosi e teneri. Dagli alberi ne cadde anche un terzo, che piombò proprio in mezzo al raggio di luce, sicché lei lo vide abbastanza bene.

Cadde con un salto agile e preciso, poi, come gli altri due, cominciò lentamente e decisamente ad avanzare verso Casualità.

Lei rimase ferma dov’era. Teneva sempre il sasso sollevato ed era pronta a scagliarlo, ma ormai si rendeva conto che le creature a cui meditava di lanciare la pietra erano scoiattoli. O almeno, quasi uguali agli scoiattoli. Soffici, calde, tenere creature simili a scoiattoli avanzavano verso di lei in un modo che non era ben sicura di gradire.

Puntò la torcia sul primo animale. Esso emetteva un borbottio aggressivo, minaccioso, stridulo, e stringeva in una zampina un pezzetto di straccio rosa, tutto bagnato. Casualità sollevò minacciosamente la pietra che teneva in mano, ma quel gesto non spaventò affatto lo scoiattolo che le avanzava contro con il brandello di straccio bagnato.

La bambina indietreggiò. Non sapeva proprio come affrontare la situazione. Se fossero state bestie sbavanti e ringhianti che mostravano zanne lucenti si sarebbe lanciata decisa all’attacco, ma non sapeva proprio come comportarsi con scoiattoli che si comportavano così.

Indietreggiò ancora. Il secondo scoiattolo cominciò a compiere una manovra per aggirarla sulla destra. Stringeva nella zampa un oggetto fatto a tazza, che pareva la cupola di una ghianda. Gli veniva dietro il terzo animale, che portava qualcosa di simile a un pezzetto di carta fradicia.

Casualità indietreggiò ancora, inciampò nella radice di un albero e cadde all’indietro.

Subito il primo scoiattolo si lanciò avanti, le saltò addosso e le camminò sul ventre con una fredda determinazione negli occhi e un brandello di straccio bagnato nella zampa.

Casualità tentò di rialzarsi, ma riuscì solo a sussultare un poco.

Spaventato, lo scoiattolo tremò sulla sua pancia, spaventando a sua volta lei, quindi si bloccò e con le unghie le afferrò la pelle sotto la camicetta bagnata. Poi lentamente, centimetro per centimetro, avanzò verso la sua faccia, si fermò e le porse lo straccio.

Lei era quasi ipnotizzata dalla stranezza della situazione e dagli occhietti luccicanti dell’animale. Lo scoiattolo continuò a porgerle lo straccio. Lo spinse ripetutamente verso di lei, emettendo insistenti strida, sinché infine, nervosa e esitante, Casualità prese il pezzetto di stoffa. La bestiola continuò a guardarla intenta, scrutandole la faccia con occhi guizzanti. Lei non sapeva proprio cosa fare. Aveva rivoli di pioggia e fango sul viso e uno scoiattolo accovacciato sul petto. Si tolse un po’ di fango dagli occhi con lo straccio.

Lo scoiattolo cacciò uno strilio di trionfo, riafferrò lo straccio, saltò giù dal suo corpo, fuggì nella notte cupa e buia, balzò su un albero, s’infilò in un buco del tronco, si mise comodo e si accese una sigaretta.

Nel frattempo Casualità tentava di respingere gli scoiattoli che stringevano la tazzina-ghianda piena d’acqua piovana e il pezzetto di carta. Si tirò indietro col sedere.

– No! – gridò. – Andate via!

Le due bestiole si allontanarono spaventate, poi si lanciarono di nuovo avanti con i loro doni. Lei le minacciò con la pietra.

– Via! – urlò.

Costernati, gli scoiattoli corsero qua e là. Poi uno si avventò contro di lei, le lasciò cadere in grembo la tazzina-ghianda, fece dietrofront e scomparve veloce nella notte. Per un attimo l’altro rimase lì tremante, poi depose con cura il pezzetto di carta davanti a lei e sparì anch’esso.

Casualità era di nuovo sola, ma si sentiva scossa e confusa. Si alzò barcollando, prese il sasso e il pacchetto, poi si fermò a raccogliere anche il pezzetto di carta. Questo era così fradicio e inzuppato che non si riusciva bene a capire cosa fosse. Sembrava solo un frammento di una delle riviste che distribuiscono durante i voli.

Proprio mentre Casualità cercava di capire che senso avessero tutti quegli strani avvenimenti, un uomo entrò nella radura in cui si trovava lei, sollevò un minaccioso fucile e le sparò.


Due o tre miglia dietro Casualità, Arthur arrancava disperato su per il pendio.

Pochi minuti dopo essere partito, era tornato a prendere una lampada. Non una lampada elettrica, perché l’unica torcia elettrica, su Lamuella, era quella che sua figlia si era portata dietro. Arthur aveva preso una fioca lanterna controvento: una scatola metallica traforata che aveva costruito Strinder nella fucina e che conteneva una riserva di olio di pesce infiammabile e uno stoppino di erba secca annodata.

La scatola era avvolta in una pellicola trasparente fatta di membrane essiccate ricavate da budella di Bestia Perfettamente Normale.

Ora la lanterna si era spenta.

Per qualche secondo Arthur vi armeggiò scioccamente intorno. Era chiaramente impossibile riaccenderla in mezzo a un temporale, ma bisogna pur fare almeno uno sforzo simbolico. Con riluttanza, Arthur buttò da parte la lanterna.

Che fare? Pareva una situazione disperata. Lui era completamente fradicio, aveva gli abiti pesanti e gonfi per la pioggia, e adesso si trovava anche sperduto nel buio.

Per un attimo fu sperduto in una luce accecante, poi fu di nuovo sperduto nel buio.

Se non altro, il lampo diffuso gli aveva permesso di vedere che la vetta era molto vicina. Una volta scalata quella avrebbe… be’, non sapeva bene cos’avrebbe fatto. L’avrebbe deciso quando fosse giunto in cima.

Ricominciò a trascinarsi in su.

Qualche minuto dopo, tutto ansimante, capì di essere sulla vetta. In lontananza, sotto di lui, si scorgeva un fioco bagliore. Non aveva idea di che cosa fosse, e anzi non gli andava proprio di pensarci. Era però l’unico punto di riferimento esistente, per cui sperduto, barcollante e spaventato, cominciò a dirigersi verso di esso.


Il lampo mortale di luce attraversò Casualità e, due secondi dopo, altrettanto fece l’uomo che aveva sparato. L’uomo, però, non badò minimamente a lei. Aveva sparato a qualcuno che stava alle spalle della bambina, e quando lei si voltò a guardare, era inginocchiato accanto al cadavere e gli frugava in tasca.

Le immagini si bloccarono e svanirono. Un attimo dopo furono sostituite da una gigantesca fila di denti incorniciata da immense labbra rosse coperte da un perfetto strato di rossetto. Poi un enorme spazzolino azzurro apparso dal nulla cominciò, con un sacco di schiuma, a pulire i denti, che restavano sospesi là, luccicanti, in mezzo all’iridescente cortina di pioggia.

Casualità batté due volte le palpebre prima di capire. Era una pubblicità. Il tizio che le aveva sparato era il personaggio di uno di quei film olografici trasmessi durante i voli spaziali. La zona in cui la nave era precipitata doveva quindi essere molto vicina. Ovviamente alcuni sistemi di bordo erano più indistruttibili di altri.

Il successivo mezzo miglio di cammino fu particolarmente seccante. Casualità doveva non solo lottare con il freddo, la pioggia e l’oscurità, ma anche con i resti scassati degli impianti di divertimento della nave. Intorno a lei astronavi, jetmobili ed elicani si scontravano ed esplodevano in continuazione illuminando la notte, loschi figuri con strani cappelli le attraversavano il corpo spacciando droghe pericolose, e in una piccola radura alla sua sinistra l’orchestra e il coro dell’Opera Statale di Hallapolis eseguivano la Marcia della Guardia Stellare AnjaQantina, che concludeva il quarto atto del Blamwellamum di Woont di Rizgar.

Poi Casualità si ritrovò sul margine di un orrido cratere dagli orli tondeggianti. Proveniva ancora un debole, caldo bagliore da quello che, al centro della fossa, sembrava un enorme pezzo di chewing-gum caramellato e che era invece la massa fusa di una grande astronave.

La ragazzina rimase a fissare per un po’ i rottami, poi finalmente cominciò a camminare lungo l’orlo del cratere. Non sapeva più bene cosa stesse cercando, ma continuò lo stesso a procedere, tenendosi a destra dello spaventoso baratro.

La pioggia era diminuita un po’, ma c’era sempre acqua dappertutto: poiché temeva che la scatola contenesse qualcosa di delicato e danneggiabile, Casualità, sperando di non averla già danneggiata quando l’aveva lasciata cadere, giudicò opportuno trovare un posto abbastanza asciutto in cui aprirla.

Puntò la torcia contro gli alberi intorno, che lì erano striminziti, e per lo più spezzati e bruciati. A media distanza le parve di vedere un ammasso di sporgenze rocciose che poteva offrire un riparo, e si diresse verso di esso. In giro trovò i detriti che erano stati scagliati in aria quando la nave si era schiantata subito prima di esplodere in una palla di fuoco.

Dopo che si fu allontanata di due o trecento metri dall’orlo del cratere, si imbatté, tra gli alberi spezzati, nei frammenti e nelle schegge di un materiale rosa lanuginoso, tutto fradicio, infangato e floscio. Li ritenne, giustamente, i resti del bozzolo di salvataggio che aveva salvato la vita a suo padre. Li guardò più da vicino, e notò allora accanto a essi un oggetto mezzo coperto dal fango.

Lo raccolse e ripulì. Era una specie di congegno elettronico delle dimensioni di un libriccino. Appena l’ebbe toccato, sulla copertina brillarono fioche grandi lettere che ispiravano fiducia e dicevano:

“Niente panico”. Casualità sapeva cos’era l’oggetto.

Era la copia di suo padre della Guida galattica per gli autostoppisti.

Si sentì subito rassicurata, levò gli occhi al cielo tempestoso, e lasciò che la pioggia le scorresse sul viso e le entrasse in bocca.

Poi scosse la testa e corse verso le rocce. Vi si arrampicò sopra, fino alla cima, e trovò quasi subito un ottimo riparo: l’ingresso di una grotta. Diresse il raggio di luce verso l’interno: sembrava asciutto e sicuro. Procedendo con grande cautela, entrò nella caverna. Questa era abbastanza spaziosa, ma non molto profonda. Esausta e sollevata, la bambina sedette su un comodo masso, depose la scatola di fronte a sé e cominciò subito ad aprirla.