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Per un lungo periodo si discusse accanitamente e si formularono numerose ipotesi sul problema di dove fosse finita la cosiddetta “materia mancante” dell’Universo. In tutta la Galassia le facoltà scientifiche delle principali università acquistarono apparecchiature sempre più sofisticate per esplorare e analizzare il centro di lontane galassie, quindi addirittura il cuore e i confini dell’intero Universo; ma quando finalmente la materia fu rintracciata, risultò essere tutta la roba in cui erano state imballate le apparecchiature.

C’era un’enorme quantità di materia mancante nella scatola: soffici, bianche, tonde palline di materia mancante, che Casualità buttò via perché future generazioni di fisici le rintracciassero e individuassero di nuovo quando le scoperte dell’attuale generazione di fisici fossero cadute nella nebbia dell’oblio.

Di tra le palline di materia mancante, Casualità estrasse il disco nero e levigato. Lo depose su una roccia accanto a sé e frugò tra tutta la materia mancante per vedere se ci fosse qualcos’altro, come un manuale, un accessorio o roba del genere. Ma non c’era proprio niente. Solo il disco nero.

Casualità lo illuminò con la torcia.

Mentre lo faceva, cominciarono ad apparire delle fessure lungo la superficie perfettamente liscia. La bambina indietreggiò intimorita, poi però capì che l’oggetto, qualunque cosa fosse, stava solo schiudendosi.

Il processo era davvero magnifico: molto complesso, ma anche semplice ed elegante. Era come un origami che si dispiegasse da solo, o un bocciolo che in pochi secondi si aprisse in una rosa.

Dove solo pochi attimi prima c’era un disco nero, curvo e liscio, ora c’era un uccello. Un uccello che se ne stava sospeso lì.

Cauta e guardinga, Casualità continuò a indietreggiare.

L’oggetto sembrava un po’ un uccello pikka, solo che era discretamente più piccolo. Cioè, in realtà era più grande o, per essere esatti, aveva le stesse dimensioni del pikka, o meglio, era almeno il doppio. Appariva anche assai più azzurro e rosa del pikka, mentre nel contempo era nerissimo.

C’era inoltre qualcosa di molto strano nell’uccello, qualcosa che la bambina non riuscì subito a individuare.

Dava, proprio come i pikka, l’impressione di osservare qualcosa che nessuno vedeva.

Di colpo svanì.

Poi, sempre all’improvviso, tutto l’ambiente diventò nero.

Spaventata, Casualità si rannicchiò, afferrando la pietra appuntita che teneva in tasca. Poi le tenebre diminuirono, si raggomitolarono in una palla e ridiventarono l’uccello. Questo rimase sospeso in aria davanti alla bambina, battendo piano le ali e fissandola.

– Scusami – disse di colpo – devo solo autoregolarmi. Mi senti quando dico questo?

– Quando dici cosa? – chiese Casualità.

– Bene – rispose l’uccello. – E mi senti quando dico questo? – Stavolta parlò con un tono di voce molto più alto.

– Certo che ti sento! – esclamò Casualità.

– E mi senti quando dico questo? – ripeté l’uccello, ora con un tono cosi profondo da apparire sepolcrale.

– Sì!

Poi ci fu una pausa.

– No, evidentemente no – disse dopo qualche secondo l’uccello.

– Bene, allora il tuo campo di udibilità è chiaramente compreso tra 20 e 16 mila Hz. Dunque, ti va bene così? – domandò con voce da tenore leggero. – Niente armoniche sgradevoli che stridono nel registro alto? Certo che no. Bene. Posso usare quelle come canali dati.

Allora. Che parte di me riesci a vedere?

Di colpo l’aria si riempì tutta di uccelli interconnessi. Casualità era abituata a passare il tempo nelle realtà virtuali, ma quello spettacolo era assai più strano di tutti quelli che aveva visto prima.

Era come se l’intera geometria dello spazio fosse stata ridefinita in forme di uccelli che non avevano punti di giunzione tra loro.

Casualità agitò nervosamente le braccia davanti al viso, fendendo lo spazio a forma di uccello.

– Uhm, erano chiaramente troppi – disse l’uccello. – E adesso? Si accartocciò in un tunnel di uccelli, come fosse fiancheggiato da specchi paralleli e si riflettesse lontano lontano, all’infinito.

– Cosa sei? – gridò Casualità.

– Ci arriviamo tra un minuto – rispose l’uccello. – Dimmi solo quanti sono gli uccelli, per favore.

– Be’, sei una specie di… – Casualità indicò sconsolatamente in lontananza.

– Capisco, è ancora di estensione infinita, ma almeno stiamo mettendo a fuoco la giusta matrice dimensionale. Bene. No, la risposta è un’arancia e due limoni.

– Limoni?

– Se ho tre limoni e tre arance e perdo due arance e un limone quanto mi rimane?

– Eh?

– Ho capito, allora pensi che il tempo fluisca in quel senso, vero? Interessante. Sono ancora infinito? – chiese, viaggiando nello spazio in varie direzioni. – Adesso sono infinito? Quanto sono giallo?

Attimo dopo attimo l’uccello assumeva forme ed estensioni inconcepibilmente diverse.

– Non riesco… – fece sconcertata Casualità.

– Non occorre che tu risponda, ora posso capire anche solo osservandoti. Dunque, sono tua madre? Sono una roccia? Sembro enorme, melmoso e sinuosamente avviluppato? No? E adesso? Sto indietreggiando?

Una volta tanto l’uccello era perfettamente immobile.

– No – disse Casualità.

– Be’, invece stavo indietreggiando, indietreggiando nel tempo.

Uhm. Allora, credo che ormai abbiamo chiarito tutto. Se ti interessa, posso dirti che nel vostro universo vi muovete liberamente in tre dimensioni che chiamate spazio. Vi muovete lungo una linea retta in una quarta dimensione che definite tempo, e restate fermi in un unico punto nella quinta, il che rappresenta il primo fondamento della probabilità. Dopo la faccenda si fa un po’ complicata, e succedono innumerevoli cose che non ti piacerebbe affatto conoscere nelle dimensioni che vanno dalla 13 alla 22. Per il momento ti basti sapere che l’universo è assai più complesso di quanto tu possa pensare, anche se parti dal presupposto che sia fottutamente complesso. È chiaro che posso evitare termini come “fottutamente”, se ti disturbano.

– Di’ tutte le fottute cose che vuoi.

– Lo farò.

– Cosa diavolo sei? – domandò Casualità.

– Sono la Guida. Nel vostro universo sono la vostra Guida. In realtà abito in quello che è tecnicamente chiamato Gran Casino Generale, il che significa… be’, ora ti mostro.

Sospeso a mezz’aria, si girò e si lanciò fuori dalla caverna, quindi si appollaiò su un masso sotto una sporgenza, in modo da non essere bagnato dalla pioggia, che si andava di nuovo infittendo.

– Su – disse. – Guarda questo.

Casualità non aveva voglia di essere comandata a bacchetta da un uccello, ma lo seguì ugualmente fino all’ingresso della caverna, sempre toccando la pietra che teneva in tasca.

– Pioggia – disse l’uccello. – Vedi? Solo pioggia.

– Lo so cos’è la pioggia.

Catinelle d’acqua scrosciavano nella notte, rese iridescenti dalla luce della luna.

– Allora, cos’è?

– Come sarebbe a dire, cos’è? Senti, chi sei, tu? Che ci facevi in quella scatola? Cos’ho, passato la notte a correre nella foresta a respingere scoiattoli dementi per ritrovarmi in compagnia di un uccello che mi chiede cos’è la pioggia? È solo acqua che cade dalla fottuta aria in terra, ecco cos’è! Vuoi sapere nient’altro o possiamo tornare a casa, adesso?

Dopo una lunga pausa, l’uccello rispose: – Vuoi tornare a casa?

– Non ho una casa! – sbottò Casualità urlando così forte che quasi si spaventò da sola.

– Guarda la pioggia… – disse l’uccello Guida.

– La sto guardando! Che altro c’è da guardare?

– Cosa vedi?

– Come sarebbe a dire, stupido uccello? Vedo solo un mucchio di pioggia. È solo acqua che cade.

– Che forme distingui nella pioggia?

– Forme? Non c’è nessuna forma. È solo, solo…

– Solo un gran casino – disse l’uccello Guida.

– Sì…

– Adesso cosa vedi?

Un raggio debole e sottile proveniente dagli occhi dell’uccello si distese a ventaglio proprio ai confini dell’orizzonte visibile. Nell’aria asciutta sotto la sporgenza non c’era niente da vedere. Là dove il raggio colpiva le gocce che scendevano dal cielo, si era formato un piatto triangolo di luce così vivida e brillante da sembrare solida.

– Oh, fantastico, un effetto laser! – fece stizzita Casualità. – Naturalmente non ne avevo mai visto uno, tranne che a circa cinque milioni di concerti rock!

– Dimmi cosa vedi!

– Solo un effetto laser, stupido uccello.

– Lì non c’è niente che non ci fosse già prima. Sto solo usando la luce perché tu guardi come sono certe gocce in certi momenti. Ora cosa vedi? La luce si spense.

– Niente.

– Sto facendo esattamente la stessa cosa, ma con la luce ultravioletta. Non riesci a scorgerla.

– Ma che senso ha mostrarmi una cosa che non posso vedere?

– Vorrei farti capire che il semplice fatto di vedere una cosa non significa che quella cosa si trovi lì. E se non vedi una cosa non significa che essa non sia lì: tu vedi solo ciò che i tuoi sensi ti fanno percepire.

– Sono stufa di queste storie – disse Casualità. Un attimo dopo rimase senza fiato.

Sospesa nella pioggia c’era la gigantesca, vivida immagine tridimensionale di suo padre che guardava sbalordito qualcosa.


Circa due miglia più indietro, Arthur, che arrancava nel bosco, d’un tratto si fermò. Guardò sconcertato l’immagine di se stesso che guardava sconcertato qualcosa di vividamente luminoso sospeso nella pioggia a circa due miglia di distanza. A circa due miglia di distanza, leggermente a destra della direzione in cui lui stava andando.

Si era quasi completamente perso, era convinto che sarebbe morto di freddo, umidità e stanchezza e sperava solo di aver la forza di sopportare tutto quanto. Per di più gli era appena stata consegnata da uno scoiattolo una rivista di golf, e sentiva il cervello ululare e balbettare.

Vedendo accendersi in cielo un’enorme immagine luminosa di se stesso pensò che, a conti fatti, il cervello aveva forse ragione di ululare e balbettare, ma che probabilmente lui aveva preso la direzione sbagliata.

Traendo un respiro profondo, si girò e incamminò verso l’inspiegabile quadro luminoso.


– Va bene, e questo che cosa dovrebbe dimostrare? – domandò Casualità. L’immagine l’aveva fatta trasalire non tanto per se stessa, quanto perché rappresentava suo padre. Lei aveva visto il suo primo ologramma a due mesi di età, e vi era stata messa dentro a giocare.

L’ultimo, quello in cui suonavano la Marcia della Guardia Stellare AnjaQantina, l’aveva visto appena mezz’ora prima.

– Che le cose non sono più reali o irreali di quanto lo fosse l’effetto laser – disse l’uccello. – È solo l’interazione tra la pioggia, che si muove in una sola direzione, e la luce che, alle lunghezze d’onda captate dai tuoi sensi, si muove in un’altra. Questo induce la tua mente a vedere figure che appaiono solide. Ma sono solo immagini nel Gran Casino. Eccotene un’altra.

– Mia madre! – esclamò Casualità.

– No – disse l’uccello.

– Conoscerò pure mia madre, ti pare?

Nell’aria piovosa si vedeva una donna che usciva da un’astronave all’interno di un grande edificio grigio simile a un hangar. Era scortata da un gruppo di creature alte, esili e di color verde violaceo.

Sicuramente era la madre di Casualità. Be’, quasi sicuramente.

Trillian non avrebbe avuto il passo così incerto a bassa gravità, né avrebbe scrutato con sguardo tanto incredulo un banalissimo ambiente di sopravvivenza artificiale, né si sarebbe portata dietro una videocamera così strana e antiquata.

– Allora chi è? – domandò Casualità.

– È parte dell’estensione di tua madre sull’asse di probabilità – rispose l’uccello Guida.

– Non capisco un’acca di quel che dici.

– Lo spazio, il tempo e la probabilità hanno assi lungo i quali è possibile muoversi.

– Continuo a non capire. Anche se penso… No. Spiegati.

– Credevo che volessi andare a casa.

– Spiegati!

– Vuoi vedere la tua casa?

– Vederla? Fu distrutta!

– È discontinua lungo l’asse di probabilità. Guarda!

Nella pioggia apparve qualcosa di stranissimo e splendido: un enorme globo verdazzurro, caliginoso e coperto di nubi girava con maestosa lentezza su uno sfondo nero e stellato.

– Ora la vedi – disse l’uccello – ora non la vedi.

A poco meno di due miglia di distanza, Arthur Dent si fermò di colpo. Non poteva credere a ciò che vedeva. Sospesa lassù in mezzo alla pioggia, ma brillante e quasi tangibile sullo sfondo del cielo notturno, c’era la Terra. Arthur boccheggiò a quella vista, e, nel momento in cui boccheggiò, vide l’immagine svanire. Poi la Terra riapparve.

Infine, e questo fu il colpo di grazia che lo indusse a ficcarsi pagliuzze in testa, si trasformò in una salsiccia.


Anche Casualità era sconcertata alla vista di quell’enorme salsiccia verdazzurra, nebbiosa e confusa sospesa sopra di lei. Presto si trasformò in una fila di salsicce, una fila, però, in cui mancavano molte salsicce. Tutta la fila luccicante girò e ruotò in una sorta di bizzarra danza, poi gradualmente rallentò, divenne incorporea e svanì nell’iridescente oscurità della notte.

– Che cos’era? – domandò con voce flebile Casualità.

– Una piccola carrellata lungo l’asse di probabilità di un oggetto discontinuamente probabile.

– Capisco.

– Quasi tutti gli oggetti subiscono mutazioni e cambiano lungo il loro asse di probabilità, ma il mondo da cui hai avuto origine fa qualcosa di leggermente diverso. Si trova su quella che si potrebbe definire una linea di faglia nel paesaggio della probabilità: in altre parole, a molte coordinate di probabilità cessa integralmente di esistere. Ha un’intrinseca instabilità, che è tipica di qualunque cosa si trovi all’interno di quelli che sono in genere chiamati settori Plurali. Capisci?

– No.

– Vuoi andare a vedere coi tuoi occhi?

– Sulla… Terra?

– Sì.

– È possibile?

L’uccello Guida non rispose subito. Spiegò le ali, salì nell’aria con disinvolta grazia e volò in mezzo alla pioggia che, ancora una volta, era diminuita.

Salì estaticamente nel cielo notturno: luci guizzarono intorno a lui, e dimensioni tremarono alle sue spalle. Volò alto, virò, descrisse un intero cerchio, virò di nuovo e infine si fermò a mezzo metro dal viso di Casualità, battendo le ali piano e silenziosamente.

Le parlò di nuovo.

– Il tuo universo è vasto per te. Vasto nel tempo, vasto nello spazio. Questo a causa dei filtri attraverso i quali lo percepisci. Ma io sono stato costruito senza nessun filtro, ovvero percepisco il guazzabuglio che contiene tutti i possibili universi ma che, di per sé, non ha alcuna dimensione. Per me qualsiasi cosa e possibile. Sono onnisciente e onnipotente, estremamente vanitoso, e inoltre arrivo avvolto in un comodo pacchetto autotrasportato. Devi capire quanto di quel che ho appena detto è vero.

Il lento sorriso illuminò il viso di Casualità.

– Maledetto affarino, tu vuoi stuzzicarmi!

– Come ho detto, è possibile qualsiasi cosa.

Casualità rise. – Va bene – disse. – Proviamo ad andare sulla Terra. Andiamo sulla Terra in qualche punto del suo, ehm…

– Asse di probabilità?

– Sì. Un punto in cui non è ancora esplosa. D’accordo. Allora tu sei la Guida. Come facciamo a chiedere un passaggio?

– Retroingegneria.

– Come?

– Retroingegneria. Per me il flusso del tempo è irrilevante. Tu decidi quel che vuoi. Io poi mi limito a verificare che sia già successo.

– Stai scherzando.

– È possibile qualsiasi cosa.

Casualità aggrottò la fronte. – Stai scherzando, vero?

– Te lo spiego in un altro modo – disse l’uccello. – La retroingegneria ci consente di risolvere in poco tempo il problema di aspettare che una delle rare, rarissime astronavi di passaggio una volta all’anno per il tuo settore galattico decida se abbia o meno voglia di darti un passaggio. Tu desideri un passaggio, una nave arriva e te lo dà. Il pilota magari penserà di avere un milione di motivi per decidere di fermarsi a raccoglierti. Ma il vero motivo è che io ho stabilito che ti prenda su.

– È questo che intendi dire quando affermi di essere estremamente vanitoso, vero, uccellino?

L’uccello rimase zitto.

– Va bene – disse Casualità. – Voglio che una nave mi porti sulla Terra.

– Questa qui va bene?

La nave era così silenziosa, che Casualità si accorse della sua presenza solo quando le fu quasi sopra.


Arthur l’aveva notata. Ora lui si trovava a un miglio di distanza e si stava avvicinando. Quando l’immagine delle salsicce era svanita, aveva scorto il debole bagliore di altre luci che scendevano dalle nubi e, all’inizio, aveva pensato che fossero un altro esempio di pittoresco son et lumière.

Gli ci volle circa un secondo per capire che era una vera astronave, e un altro secondo per capire che scendeva proprio nel punto dove lui supponeva si trovasse sua figlia. Fu allora che, pioggia o meno, gamba dolente o meno, buio o meno, si mise di colpo a correre sul serio.

Scivolò e cadde quasi subito, e si fece un gran male al ginocchio sbattendo contro una roccia. Si rialzò faticosamente e cercò di rimettersi in marcia. Aveva l’orribile, raggelante sensazione di stare per perdere una volta per tutte Casualità. Zoppicando e imprecando, corse. Non sapeva cosa contenesse la scatola, ma era indirizzata a Ford Prefect, e quello fu il nome che maledisse mentre correva.

La nave era una delle più belle e lussuose che Casualità avesse mai visto.

Era incredibile. Argentea, lucida, ineffabile.

Se non avesse avuto abbastanza buon senso da escluderlo, avrebbe detto che si trattava di una RW6. Quando la nave le si posò silenziosamente accanto, Casualità si accorse che era davvero una RW6 e rimase quasi senza fiato dall’eccitazione. La RW6 era il tipo di cosa che si vedeva solo sul tipo di rivista destinato a provocare sommosse civili.

Casualità si sentiva anche molto nervosa. Era davvero sconvolgente che la nave fosse arrivata in quel modo e con tanta tempestività. O era la più bizzarra coincidenza mai vista, o stava accadendo qualcosa di assai singolare e inquietante. La bambina aspettò ansiosamente che il portello della nave si aprisse. La sua Guida, ora la considerava sua, le stava sospesa sopra la spalla destra, e batteva appena le ali.

Il portello si aprì. Ne uscì solo una fioca, esile luce. Passarono uno o due secondi, poi emerse qualcuno. Lo sconosciuto stette un attimo fermò, cercando chiaramente di abituare gli occhi al buio. Poi vide Casualità lì in piedi e parve un po’ sorpreso. Cominciò a camminarle incontro. Quindi, di colpo, gridò per lo stupore e le corse contro.

Casualità, quando oltretutto era tesa, non era la persona giusta contro cui correre in una sera buia. Fin dal momento in cui aveva visto la nave atterrare aveva inconsciamente tastato la pietra che aveva in tasca.


Sempre correndo, scivolando, inciampando e sbattendo contro gli alberi, Arthur si accorse infine che era troppo tardi. Dopo essere rimasta a terra per circa tre minuti, la nave, silenziosa ed elegante, si levò sopra gli alberi, virò tranquilla, salì sempre più su, cabrò e di colpo, senza alcuno sforzo, si lanciò tra le nubi.

Andata. Casualità era sulla nave. Arthur non poteva esserne matematicamente sicuro, ma era saltato da tempo a quella conclusione, e lo sapeva in cuor suo. Sua figlia era scomparsa. Lui aveva avuto l’occasione di fare il padre e stentava a credere a quanto male l’avesse usata. Tentò di continuare a correre, ma si sentiva i piedi pesanti, aveva un dolore lancinante al ginocchio e sapeva che era troppo tardi.

Non riusciva a immaginare di potersi sentire più scioccato e infelice di cosi, ma si sbagliava.

Finalmente arrivò zoppicando alla grotta dove Casualità aveva trovato riparo e aperto la scatola. In terra c’erano i solchi dell’astronave che aveva atterrato solo pochi minuti prima, ma di Casualità non si vedeva traccia. Vagò sconsolato nella caverna, trovò la scatola vuota e un sacco di pallini di materia mancante sparpagliati dappertutto. La cosa lo fece un po’ arrabbiare. Aveva cercato di insegnarle a rimettere in ordine la roba. Arrabbiarsi un po’ con lei per una cosa come quella lo aiutò a sentirsi meno triste per la sua partenza. Sapeva che non aveva modo di ritrovarla.

Con un piede sbatté inaspettatamente contro qualcosa. Si chinò a raccogliere l’oggetto e lo guardò sbalordito. Era la sua vecchia Guida galattica per gli autostoppisti. Come mai si trovava nella grotta? Non era tornato a prenderla dalla zona del disastro. Non era voluto tornare nel teatro dell’incidente e non aveva cercato di recuperare la Guida.

Si era detto che ormai era lì su Lamuella, e avrebbe preparato panini per tutta la vita. Come mai la Guida era finita nella caverna?

Qualcuno, l’aveva attivata. Sulla copertina lampeggiavano le parole: “Niente panico”.

Uscì di nuovo dalla grotta nel fioco e umido chiarore lunare.

Sedette su un masso per dare un’occhiata alla vecchia Guida, e poi si accorse che non era su un masso, ma su una persona.