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Uno degli aspetti straordinari della vita è come essa riesca a prosperare nei posti più impossibili. È in grado di attecchire, chissà come, praticamente dappertutto: che si tratti dei mari inebrianti di Santraginus V, dove i pesci sembrano infischiarsene della direzione da prendere, che si tratti delle tempeste di fuoco di Frastra, dove, dicono, la vita comincia a quarantamila gradi, o che si tratti dei meandri dell’intestino crasso di un topo, dove si insinua così, per il puro e semplice gusto di insinuarsi, la vita trova sempre un qualche appiglio.

Essa prospera perfino a New York, anche se è difficile capire perché. D’inverno la temperatura scende molto sotto il minimo legale, o meglio lo farebbe se si avesse il buon senso di fissare un minimo legale. L’ultima volta che qualcuno stilò un elenco delle prime cento qualità del carattere dei newyorchesi, il buon senso si piazzò al settantanovesimo posto.

D’estate fa un caldo boia. Va benissimo se si è una forma di vita che prospera col caldo e ritiene, come i frastrani, che una temperatura compresa tra i quarantamila e i quarantaquattromila gradi sia l’ideale; va molto meno bene se si è un animale che è costretto ad avvolgersi nella pelliccia di molti altri animali quando si trova in un certo punto dell’orbita del suo pianeta e che poi, mezza orbita dopo, scopre di avere la pelle in ebollizione.

La primavera è sopravvalutata. Innumerevoli abitanti di New York non fanno che decantare i piaceri della loro primavera, ma se conoscessero minimamente i piaceri della primavera, saprebbero che ci sono almeno cinquemilanovecentottantatré posti, alla stessa latitudine, in cui passarla meglio che a New York.

L’autunno, però, è il peggiore di tutti. Pochissime cose sono peggio dell’autunno a New York. Alcuni esseri che vivono nell’intestino crasso dei ratti non sarebbero d’accordo, ma la maggior parte degli esseri che vivono nell’intestino crasso dei ratti sono comunque assai sgradevoli, sicché la loro opinione si può e si deve tenere in scarso conto. Quando è autunno a New York, l’aria ha un puzzo come di capra fritta, e se si vuole respirare, la cosa migliore da fare è aprire una finestra e infilar la testa dentro un palazzo.


Tricia McMillan amava New York. Non faceva che ripeterselo.

L’Upper West Side, oh sì. Mid Town Hey, ottimo shopping. SoHo.

L’East Village. Abiti. Libri. Sushi. Ristoranti italiani. Negozi di manicaretti. Wow.

Cinema. Anche quello wow. Tricia era appena andata a vedere l’ultimo film di Woody Allen, tutto incentrato sull’angoscia di essere nevrotici a New York. Allen aveva girato anche qualche altro film in cui aveva analizzato lo stesso tema, e Tricia si era chiesta se avesse mai pensato di trasferirsi, ma aveva sentito dire che quell’idea proprio non gli andava. Sicché, aveva dedotto, Woody avrebbe girato altri film.

Tricia amava New York perché amare New York rappresentava una buona mossa sotto il profilo della carriera. Era una buona mossa per lo shopping, una buona mossa per la gastronomia, una mediocre mossa per i taxi e una mediocre mossa per la pavimentazione dei marciapiedi, ma sicuramente una delle mosse più abili e promettenti per la carriera. Tricia era un’anchorwoman televisiva, e New York era il posto in cui era ancorata la maggior parte delle tivù del mondo. Fino a quel momento Tricia aveva fatto ancoraggio televisivo solo in Gran Bretagna: notizie regionali, notizie sulla prima colazione, notizie del tardo pomeriggio. La si sarebbe potuta definire, se non ci fosse stata contraddizione di termini, un’ancora in rapida ascesa, ma… be’, in fondo si trattava di linguaggio televisivo, no? Era in effetti un’ancora in rapida ascesa. Aveva quanto occorreva: magnifici capelli, una profonda conoscenza strategica dei colpi di rossetto, la capacità di comprendere il mondo e un piccolo, segreto nucleo di morte interiore da cui si capiva che non gliene fregava niente. Tutti, nella vita, hanno qualche grande occasione. Se vi capita di perdervi quella che vi sta a cuore, tutte le altre cose nella vostra esistenza diventeranno sinistramente facili.

Tricia, nella vita, aveva perso solo un’occasione. Adesso riflettere su quell’occasione perduta non le procurava più i tremori di una volta.

Immaginava che fosse stato allora che qualcosa era morto in lei.

La NBS aveva bisogno di una nuova anchorwoman. Mo Minetti aveva abbandonato US/AM, una trasmissione del mattino, per avere un figlio. Le avevano offerto una cifra iperbolica perché partorisse durante lo spettacolo, ma lei, inaspettatamente, aveva rifiutato per motivi di privacy e buon gusto. Squadre di avvocati della NBS avevano esaminato attentamente il suo contratto per vedere se questi motivi risultassero legittimi, ma alla fine, con riluttanza, erano stati costretti a lasciarla andare. Per loro fu una bruciante sconfitta, perché di solito “lasciar andare qualcuno con riluttanza” era un eufemismo che si usava per i licenziamenti.

Correva voce che forse, forse, un accento inglese sarebbe stato ben accetto. I capelli, il colorito e le protesi dentarie dovevano rispondere agli standard televisivi americani, ma di recente sugli schermi si erano sentiti molti accenti inglesi ringraziare la mamma per l’Oscar; sui palcoscenici di Broadway avevano cantato molti accenti inglesi, e un pubblico insolitamente numeroso aveva seguito accenti inglesi coronati da parrucche al Masterpiece Theatre. Accenti inglesi raccontavano barzellette su David Letterman e Jay Leno. Nessuno capiva le barzellette, ma tutti sembravano apprezzare molto gli accenti, per cui forse, forse, era il momento giusto. Un accento inglese a US/AM. Cavolo, sarebbe stato fantastico.

Ecco perché Tricia si trovava a New York. Ecco perché amare New York rappresentava un’ottima mossa sotto il profilo della carriera.

Naturalmente quello non era il motivo ufficiale del suo soggiorno.

La compagnia televisiva britannica da cui dipendeva non avrebbe certo pagato i soldi del biglietto aereo e il conto dell’albergo per farla andare a caccia di lavoro a Manhattan. Siccome Tricia dava la caccia a uno stipendio che era circa il decuplo del suo attuale, la tivù britannica avrebbe magari potuto ritenere che si dovesse pagare da sola le spese, perciò lei si era inventata una storia, aveva trovato un pretesto tenendo la bocca chiusa sui propri motivi segreti, e la compagnia aveva pagato il viaggio. Biglietto in classe turistica, naturalmente, ma lei aveva un viso noto, e con sorrisi e moine era riuscita a passare in prima classe.

Compiendo le mosse giuste si era procurata una bella stanza al Brentwood e adesso si trovava lì, a chiedersi che fare.

Quel che si diceva in giro era un conto, prendere contatti era un altro. Lei aveva qualche nominativo e qualche numero telefonico, ma aveva ottenuto solo risposte indefinite, e quindi era di nuovo al punto di partenza. Aveva fatto sondaggi e lasciato messaggi, ma fino allora nessuno l’aveva richiamata. Il lavoro ufficiale che era venuta a fare l’aveva sbrigato in una mattina, il lavoro sperato che stava sotto sotto cercando appariva solo un’allettante chimera su un orizzonte irraggiungibile.

Merda.

Dal cinema prese un taxi per il Brentwood. Il taxi non poté accostarsi al marciapiedi perché una lunga limousine occupava tutto lo spazio disponibile, e Tricia le passò a fatica accanto per raggiungere il taxi. Dalla fetida aria che sapeva di capra fritta entrò poi nel piacevole fresco dell’atrio. Il fine cotone della camicetta le stava appiccicato alla pelle come una crosta di sporcizia. Si sentiva i capelli come una massa di zucchero filato presa al luna park. Alla reception chiese se ci fossero messaggi, anche se aveva l’idea deprimente che non ce ne fosse nessuno. Ce n’era invece uno.

Oh…

Ottimo.

Aveva funzionato. Era andata al cinema apposta per far squillare il telefono. Non poteva sopportare di star seduta ad attendere in una stanza d’albergo.

Si chiese se aprire il messaggio lì. I vestiti appiccicati le facevano prurito e non vedeva l’ora di toglierseli tutti e sdraiarsi sul letto.

Aveva lasciato l’aria condizionata sulla temperatura minima e la ventilazione massima. In quel momento una sola cosa desiderava al mondo: avere la pelle d’oca, Poi una doccia calda, una doccia fredda, sdraiarsi di nuovo a letto sopra il telo da bagno, e asciugarsi nel fresco dell’aria condizionata. Quindi leggere il messaggio. Magari altra pelle d’oca. E chissà quante altre cose.

No. Quello che desiderava di più al mondo era un lavoro alla tivù americana e uno stipendio che fosse il decuplo dell’attuale. Più di ogni cosa al mondo. Al mondo. Deciso. Quello era più importante della pelle d’oca.

Si sedette su una poltrona nell’atrio, sotto una palma chenzia e aprì la piccola busta con la finestrella di cellophane.

– Per favore mi chiami – diceva il messaggio. – Non felice. – Seguivano un numero di telefono e un nome: Gail Andrews.

Gail Andrews.

Non si aspettava quel nome. Si sentì colta alla sprovvista. Lo riconobbe, ma non riuscì a fare mente locale. Questa Gail era la segretaria di Andy Martin? L’assistente di Hilary Bass? Martin e la Bass erano le due persone più importanti con cui si era messa in contatto, o aveva cercato di mettersi in contatto, alla NBS. E cosa significava “Non felice”?

“Non felice”?

Era davvero sconcertata. Cos’era, Woody Allen che la chiamava sotto falso nome? Il numero era preceduto dal codice 212. Quindi apparteneva a una persona di New York. La quale non era felice. Be’, questo restringeva un po’ il campo, no?

Tornò alla reception.

– Ho un problema con questo messaggio che mi ha appena consegnato – disse. – Qualcuno che non conosco ha cercato di telefonarmi, e afferma di non essere felice.

Il receptionist sbirciò con la fronte aggrottata il messaggio.

– Conosce questa persona? – chiese.

– No – disse Tricia.

– Uhmm – fece il receptionist. – Pare che per qualche motivo non sia felice.

– Già – disse Tricia.

– Ehi, ma qui c’è un nome – osservò il receptionist. – Gail Andrews. Conosce nessuno che si chiami così?

– No – disse Tricia.

– Ha idea del perché sia infelice?

– No – rispose Tricia.

– Ha chiamato questo numero? C’è un numero telefonico, qui.

– No – disse Tricia – lei mi ha appena consegnato il messaggio. Cercavo solo di sapere qualcosa di più prima di richiamare. Potrei magari parlare con chi ha preso la telefonata?

– Uhm – fece il receptionist, esaminando attentamente il messaggio. – Credo che qui non abbiamo nessuno di nome Gail Andrews.

– No, questo lo capisco – disse Tricia. – Volevo solo…

– Sono io Gail Andrews.

La voce arrivò da dietro le spalle di Tricia, che si girò.

– Come, scusi?

– Sono io Gail Andrews. Mi ha intervistato stamattina.

– Oh! Oh, Dio santo, è vero! – esclamò Tricia, lievemente turbata.

– Ho lasciato quel messaggio per lei qualche ora fa. Non ho avuto risposta, così sono venuta qui. Ci tenevo molto a parlarle.

– Oh, sì, certo – disse Tricia, cercando di reagire con tutta la sua presenza di spirito.

– Non ne so niente – disse il receptionist, per il quale la presenza di spirito era un problema assai remoto. – Vuole che adesso provi a chiamarle questo numero?

– No, grazie, è lo stesso – disse Tricia. – Ora so cosa fare.

– Posso chiamarle questo numero di stanza, se può esserle d’aiuto – insistette il receptionist, dando un’altra occhiata al biglietto.

– No, grazie, non è necessario – disse Tricia. – Quello è il mio numero di stanza. Sono la persona a cui era destinato il messaggio. Credo che ormai abbiamo risolto il problema.

– Buona giornata – disse il receptionist.

A Tricia non interessava granché passare una buona giornata.

Aveva troppe cose da fare.

Non voleva nemmeno parlare con Gail Andrews. Escludeva sempre, con molta decisione, l’idea di fraternizzare con i cristiani. I suoi colleghi chiamavano “cristiani” le persone che intervistava e spesso si facevano il segno della croce quando ne vedevano una entrare ignara nello studio per affrontare Tricia, specie se Tricia sorrideva cordialmente mostrando tutti i denti.

Si girò e sorrise gelida a Gail, chiedendosi che fare.

Gail Andrews era un’elegante signora sui quarantacinque anni.

Indossava abiti che rientravano nei confini di un costoso buon gusto, ma che tendevano decisamente verso la parte più esterna di tali confini. Era un’astrologa, un’astrologa famosa e anche potente, se era vero, come dicevano, che aveva influito su varie decisioni prese dall’ex presidente Hudson, decisioni peraltro disparate, come quale gusto di frappé scegliere in determinati giorni della settimana, oppure decretare o meno il bombardamento di Damasco.

Tricia l’aveva attaccata con notevole ferocia. Non per chiederle se le storie che si raccontavano sul presidente fossero vere o no, perché ormai erano roba vecchia. All’epoca la signora Andrews aveva negato recisamente d’aver fornito al presidente Hudson consigli che non fossero strettamente personali, spirituali o dietetici, categorie nelle quali, a quanto pareva, non era compreso il bombardamento di Damasco: “Niente di personale, Damasco!” avevano strillato i giornali di allora.

No, Tricia aveva impostato l’intervista su un precise argomento d’attualità, ossia il significato dell’astrologia stessa. La signora Andrews non era apparsa del tutto pronta ad affrontarlo, mentre Tricia non era del tutto pronta a ripetere il match adesso, nell’atrio dell’albergo. Che fare?

– Posso aspettarla al bar, se ha bisogno di qualche minuto – disse Gail Andrews. – Ma vorrei parlarle prima di lasciare la città, stasera.

Più che offesa o arrabbiata, sembrava lievemente in ansia per qualcosa.

– Va bene – disse Tricia. – Mi dia dieci minuti.

Salì in camera. A parte ogni altra considerazione, aveva così poca fiducia nelle capacità del receptionist di affrontare un problema complicato come quello dei messaggi, che voleva assicurarsi bene che non ci fossero biglietti sotto la porta. Era già capitato altre volte che i messaggi della reception e i messaggi sotto la porta si contraddicessero a vicenda.

Sotto la porta non c’era niente.

Però al telefono la spia lampeggiava.

Tricia premette il tasto dei messaggi e si mise in contatto con il centralino dell’albergo.

– C’è un messaggio per lei da Gary Andress – disse la centralinista.

– Ah, si? – fece Tricia. Non conosceva quel nome. – Cosa dice il messaggio?

– Non frocio – rispose la centralinista.

– Non cosa? – domandò Tricia.

– Frocio. Ecco cosa dice. Il tizio dice che non è un frocio. Immagino che volesse farglielo sapere. Vuole il numero di telefono?

Quando la centralinista cominciò a dettare il numero, Tricia di colpo capì che si trattava solo di una versione alterata del messaggio già ricevuto.

– Va bene, va bene – disse. – Ci sono altri messaggi per me?

– Numero di stanza?

Tricia non si capacitava che la centralinista le chiedesse all’improvviso il numero di stanza a un punto così avanzato della conversazione, ma lo diede ugualmente.

– Nome?

– McMillan, Tricia McMillan. – Lo compitò pazientemente.

– Non è il signor MacManus?

– No.

– Nessun altro messaggio per lei. – Clic.

Tricia sospirò e ricompose il numero. Questa volta disse per prima cosa il proprio nome e numero di stanza. La centralinista non sembrò accorgersi minimamente del fatto che si erano parlate meno di dieci secondi prima.

– Sto per scendere al bar – spiegò Tricia. – Al bar. Se arriva una telefonata per me, me la può passare al bar, per favore?

– Nome?

Ripeterono la stessa solfa altre due volte, finché Tricia si fu assicurata che tutto quel che poteva essere eventualmente chiaro fosse chiaro quanto poteva eventualmente essere.

Fece la doccia, indossò vestiti puliti, si ritoccò il trucco con la velocità di una professionista e, guardando con un sospiro il letto, lasciò di nuovo la stanza.

Aveva quasi voglia di svignarsela e andare a nascondersi.

No. In fondo non era vero.

Sul pianerottolo, mentre aspettava l’ascensore, si diede un’occhiata allo specchio. Aveva l’aria di una persona calma e sicura di sé, e se poteva ingannare se stessa poteva ingannare chiunque.

Le sarebbe toccato sopportare un duro scontro con Gail Andrews.

Certo, le aveva fatto vedere i sorci verdi. Spiacente, ma in quel gioco, in quel tipo di gioco siamo coinvolti tutti quanti. La signora Andrews aveva accettato di farsi intervistare perché aveva pubblicato un nuovo libro, e apparire in tivù significava pubblicità gratuita. Però non esistevano cose come i lanci pubblicitari gratuiti. No, Tricia cancellò mentalmente quella versione.

In realtà era successo questo.

La settimana prima gli astronomi avevano annunciate di avere finalmente scoperto un decimo pianeta oltre l’orbita di Plutone. Lo cercavano da anni, guidati da certe anomalie orbitali dei pianeti esterni, e ora che lo avevano trovato erano tutti contentissimi, tutti erano felicissimi per loro e così via. Il pianeta, battezzato Persefone, era stato ben presto soprannominato Rupert, perché così si chiamava il pappagallo di un astronomo (c’era, dietro, una storia tediosamente commovente), e tutto ciò era davvero delizioso e gratificante.

Per vari motivi, Tricia aveva seguito la storia con notevole interesse.

Poi, mentre cercava una buona scusa per andare a New York a spese della propria rete televisiva, aveva notato per caso un comunicato stampa su Gail Andrews e il suo nuovo libro, Voi e i vostri pianeti.

Gail Andrews non era un nome molto famoso, ma appena si menzionavano il presidente Hudson, il frappé e l’amputazione di Damasco (il mondo aveva fatto passi avanti dall’epoca dell’“attacco chirurgico”: il termine ufficiale che era stato usato era “damaschectomia”, ossia “asportazione” di Damasco), tutti si ricordavano chi fosse quella certa persona.

In quel momento, Tricia aveva pensato subito a un argomento di trasmissione, e lo aveva proposto, con successo, al suo produttore.

Certo l’idea che grandi pezzi di roccia orbitanti nello spazio sapessero sul nostro destino qualcosa che noi non sapevamo avrebbe subito un duro colpo, ora che all’improvviso si era scoperto lassù un nuovo pezzo di roccia di cui nessuno prima d’allora aveva immaginato l’esistenza.

Una notizia del genere avrebbe dovuto mandare all’aria un po’ di calcoli, no?

Che dire di tutti quei temi natali e moti planetari ecc. ecc.? Noi tutti (a quanto pareva) sapevamo cosa succedeva quando Nettuno era in Vergine e via dicendo, ma che accadeva quando Rupert si levava sopra l’orizzonte? Non si sarebbe dovuta rivedere l’intera astrologia?

Non era forse il momento giusto per ammettere che si trattava di un mucchio di asinate e per darsi invece all’allevamento degli asini, i principi del quale si fondavano su una qualche base razionale? Se avessimo saputo di Rupert tre anni fa, il presidente Hudson avrebbe forse mangiato il frappé ai frutti di bosco il giovedì anziché il venerdì?

Damasco sarebbe forse ancora in piedi? Ecco il genere di cose che Tricia aveva messo sul tappeto.

Gail Andrews se l’era presa con discreta filosofia. Proprio quando cominciava a riaversi dal furibondo attacco iniziale, aveva commesso l’errore abbastanza grave di cercare di rintuzzare Tricia parlando amabilmente di archi diurni, ascensioni rette e alcuni dei più astrusi settori della trigonometria tridimensionale.

Con sbalordimento aveva scoperto che tutto quanto ammanniva a Tricia le veniva restituito con più violenza di quanta potesse sopportarne. Nessuno aveva avvertito Gail che per Tricia essere una conduttrice star rappresentava il secondo tentativo di trovare un ruolo nella vita. Dietro il rossetto Chanel, l’acconciatura “selvaggia” e le lenti a contatto azzurre, c’era un cervello che si era conquistato, in una fase precedente, e ormai conclusa della vita, una laurea a pieni voti in matematica e un dottorato di ricerca in astrofisica.


Mentre entrava in ascensore, Tricia si accorse di aver lasciato per distrazione la borsa in camera e si chiese se fosse il caso di tornare a prenderla. No. La borsa era forse più al sicuro nella stanza e non conteneva nulla di cui lei avesse particolarmente bisogno. Tricia lasciò la porta chiudersi alle sue spalle.

Inoltre, si disse traendo un respiro profondo, almeno una cosa la vita le aveva insegnato: che non si deve mai tornare a prendere la borsa.

Mentre l’ascensore scendeva fissò piuttosto intenta il soffitto.

Chiunque non conoscesse bene Tricia McMillan avrebbe potuto pensare che quel modo di guardare in su fosse lo stesso di chi sta cercando di trattenere le lacrime. Lei invece stava con tutta probabilità scrutando la minuscola telecamera di sicurezza installata in alto in un angolo.


Un minuto dopo uscì in fretta dall’ascensore e tornò alla reception.

– Allora – disse – è meglio che lo scriva, perché non voglio che qualcosa vada storto.

Segno su un pezzo di carta il proprio nome ben in grande, poi il numero di stanza, poi “AL BAR”, e diede il biglietto al receptionist, che lo guardò.

– Questo in caso ci sia un messaggio per me. D’accordo? – Il receptionist continuò a fissare il biglietto.

– Vuole che veda se questa persona è in camera? – chiese.


Due minuti dopo, Tricia si fiondò nel bar e raggiunse Gail Andrews, che sedeva davanti a un bicchiere di vino bianco.

– Lei mi pareva il tipo di persona che preferisce stare davanti al bancone che seduta contegnosamente a un tavolino – disse la Andrews. Era vero, e Tricia fu colta un po’ di sorpresa.

– Vodka? – chiese Gail.

– Sì – fece Tricia, con sospetto. Si trattenne dal chiedere: “Come lo sa?” ma Gail rispose lo stesso.

– L’ho chiesto al barman – spiegò, con un sorriso cordiale. Il barman aveva già pronta la vodka per Tricia e fece abilmente scivolare il bicchiere da un capo all’altro del lucido bancone di mogano.

– Grazie – disse Tricia, scuotendo bene il liquore.

Non sapeva come interpretare quell’improvvisa cortesia, ed era decisa a non tarsi prendere in contropiede. A New York le persone non si usavano mai cortesie senza un motivo.

– Signora Andrews – esordì con fermezza – mi dispiace che non sia felice. Probabilmente ritiene che io sia stata un po’ dura con lei, stamattina, ma in fondo l’astrologia è solo un passatempo popolare, il che mi va benissimo. Rientra nell’industria dello spettacolo, a lei ha reso bene, e mi auguro che la sua fortuna continui. L’astrologia diverte, però non è una scienza e non dovrebbe essere confusa con la scienza. Questo, mi pare, lo abbiamo entrambe dimostrato lucidamente stamattina, e nel contempo abbiamo divertito la gente, cosa che entrambe facciamo per mestiere. Mi spiace che la faccenda le causi qualche problema.

– Io sono felicissima – disse Gail Andrews.

– Oh – fece Tricia, che non sapeva bene come interpretare quell’affermazione. – Nel messaggio sosteneva di non essere felice.

– No – replicò. – Gail Andrews. – Nel mio messaggio ho detto che pensavo che lei non fosse felice, e mi chiedevo perché.

Tricia si sentì come colpita alla nuca. Batté le palpebre.

– Cosa? – sussurrò.

– In qualche modo c’entrano le stelle – riprese Gail. – Mentre discutevamo, lei sembrava molto infelice e molto irata per qualcosa che aveva a che fare con le stelle e i pianeti, e questo mi ha turbato; ed è perciò che sono venuta a vedere se andava tutto bene.

Tricia la fissò. – Signora Andrews… – cominciò, poi si rese conto che il suo tono suonava alquanto irato e infelice, e svuotava di significato la protesta che stava tentando di fare.

– Ti prego, dammi pure del tu, se vuoi.

Tricia appariva sconcertata.

– Lo so che l’astrologia non è una scienza – continuò Gail. – Certo che non lo è. È solo un insieme arbitrario di regole, come gli scacchi, il tennis e quello strano gioco che fate voi inglesi, come si chiama…

– Il cricket? L’autodisprezzo?

– La democrazia parlamentare. Semplicemente, le regole in qualche modo sono finite là. L’unico senso che hanno è quello da esse stesse determinate. Ma quando si cominciano ad applicare queste regole, si verificano i più disparati processi e si scoprono le più disparate cose sulla gente. In astrologia le regole riguardano solo casualmente stelle e pianeti: per quel che importa, potrebbero riguardare benissimo anatre e anatroccoli. E una tecnica che serve, semplicemente a riflettere su un problema in maniera tale da farne affiorare i termini e le sfaccettature. Più numerose, piccole e arbitrarie sono le regole, meglio funzionano. È come gettare un pugno di fine polvere di grafite su un pezzo di carta per scoprire dove si trovano i piccoli solchi nascosti. Questo permette di vedere le parole che furono scritte sul foglietto e ora sono state eliminate e cancellate. La grafite non è importante. È solo il mezzo per ritrovare i solchi. Sicché, capisci, l’astrologia non ha nulla a che vedere con l’astronomia. È solo una tecnica che consente alle persone di riflettere su altre persone.

“Per cui quando tu, stamattina, ti sei, come dire, concentrata su stelle e pianeti, ho cominciato a pensare, non è arrabbiata per l’astrologia, è molto arrabbiata e infelice per via delle vere stelle e dei veri pianeti. Di solito le persone sono così infelici e irate solo quando hanno perso qualcosa. Ecco quel che in sostanza mi sono detta, senza però riuscire a capire niente di più. Così sono venuta a trovarti per vedere se andava tutto bene.”

Tricia era sbalordita.

Con una parte del cervello stava già elaborando ogni sorta di strategie. Si affannava a costruire fini confutazioni che si incentravano sull’assurdità degli oroscopi dei giornali e su che scherzi tali oroscopi tirassero alla gente. Ma a poco a poco quella parte del cervello abbandonò queste elucubrazioni, perché capì che l’altra parte non ascoltava. Tricia era rimasta decisamente scioccata.

Le era appena stata detta, da una completa estranea, una cosa che aveva tenuto accuratamente segreta per diciassette anni.

Si voltò a guardare Gail.

– Io…

Si interruppe.

Dietro il banco bar, una minuscola telecamera di sicurezza si era girata per seguire i suoi movimenti. Quel fatto la mandò in confusione. La maggior parte della gente non l’aveva notata.

D’altronde la telecamera non era stata progettata per essere notata, ma per far capire come di quei tempi perfino un costoso ed elegante albergo di New York non potesse essere sicuro che i suoi clienti non si apprestassero di colpo a estrarre la pistola o non portassero la cravatta.

Ma il congegno, benché accuratamente nascosto dietro la vodka, non poteva ingannare l’istinto altamente professionale di un’anchorwoman televisiva, un istinto che consisteva nell’intuire all’istante quando una telecamera si girasse a riprenderla.

– Qualcosa non va? – chiese Gail.

– No, io… Io devo dire che mi hai lasciato di stucco – disse Tricia.

Decise di non badare alla telecamera. Senza dubbio in quel periodo era così assorbita da questioni televisive, che l’immaginazione le giocava degli scherzi. Non era la prima volta che capitava un episodio del genere. Era convinta che, mentre passava accanto a una telecamera di controllo del traffico, questa si fosse girata per seguire le sue mosse, e da Bloomingdales una telecamera di sicurezza l’aveva osservata con particolare interesse mentre si provava un cappellino. Evidentemente, pensò, stava un po’ ammattendo. Le era addirittura sembrato che in Central Park un uccello la sbirciasse con aria piuttosto intenta.

Decise di lasciar perdere questi pensieri e prese un sorso di vodka.

Qualcuno vagava per il bar chiedendo ai clienti se fossero il signor MacManus.

– Va bene – disse, pronta d’un tratto a sputare il rospo. – Non so come hai fatto a capirlo, ma…

– Non è che, come dici tu, l’ho capito. Ho solo ascoltato quel che dicevi.

– È vero, io ho perso qualcosa, un’intera altra vita, credo.

– Tutti passiamo per quest’esperienza. Ogni momento di ogni giorno. Ogni singola decisione che prendiamo e ogni respiro che facciamo aprono alcune porte e ne chiudono molte altre. Della maggior parte delle porte non ci accorgiamo. Di alcune invece sì. A quanto pare tu ne hai notata una.

– Oh sì che l’ho notata – confermò Tricia. – È così, è proprio così. La storia e semplicissima. Tanti anni fa conobbi un tipo a una festa. Disse che era di un altro pianeta e mi chiese se volevo andar via con lui. Io risposi che sì, lo volevo. Era quel certo tipo di festa, capisci. Gli dissi di aspettare che andassi a prendere la borsa, e che poi sarei stata lieta di volare con lui su un altro mondo. Non avrei avuto bisogno della borsa, disse lui. Era chiaro, dissi io, che veniva da un pianeta molto arretrato, altrimenti avrebbe saputo che una donna ha sempre bisogno della propria borsa. Lui si spazientì un po’, ma io non volevo far la parte della completa gonza solo perché affermava di venire da un altro pianeta.

“Salii al piano di sopra. Ci misi un po’ a trovare la borsa, e poi c’era qualcuno in bagno. Quando ridiscesi, lui era scomparso.”

Tricia fece una pausa.

– E…? – disse Gail.

– La porta del giardino era aperta. Uscii. C’erano delle luci. Qualcosa che luccicava. Feci appena in tempo a vedere l’astronave sollevarsi in alto, sfrecciare silenziosa tra le nubi e scomparire. Ecco tutto. Fine della storia. Fine di una vita, inizio di un’altra. Ma non passa attimo di questa vita in cui non fantastichi su un’altra me stessa. Una che non fosse tornata a prendere la borsa. Mi pare quasi che questa me stessa sia là da qualche parte e io cammini nella sua ombra.

Ora un membro dello staff dell’albergo vagava per il bar chiedendo ai clienti se fossero il signor Miller. Nessuno lo era.

– Credi davvero che questa… persona fosse di un altro pianeta? – chiese Gail.

– Oh, certo. C’era l’astronave. Ah, e poi aveva due teste.

– Due? Non se ne accorse nessun altro?

– Era una festa in maschera.

– Capisco…

– Poi aveva sulla testa una gabbia per uccelli coperta da un panno. Faceva finta di tenerci dentro un pappagallo. Dava dei colpetti alla gabbia e il “pappagallo” diceva un mucchio di sciocchezze, emetteva strida rauche e cosi via. Poi sollevò un attimo il panno e scoppiò a ridere come un matto. Dentro la gabbia c’era un’altra testa che rideva con lui. Fu un momento inquietante, t’assicuro.

– Probabilmente, mia cara, hai fatto la cosa giusta, non credi? – disse Gail.

– No – disse Tricia. – No, non credo proprio. Inoltre non potevo nemmeno più continuare a fare quel che facevo. Sai, ero un’astrofisica. Non puoi essere un astrofisico serio se hai conosciuto qualcuno che viene da un altro pianeta, ha due teste e finge di essere un pappagallo. No, non puoi. Io almeno non ho potuto esserlo.

– Capisco che sia difficile. È forse questo il motivo per cui tendi a essere un po’ dura con chi dice cose che sembrano assolute idiozie.

– Sì – ammise Tricia. – Credo che tu abbia ragione. Ti chiedo scusa.

– Figurati.

– A proposito, sei la prima persona a cui abbia raccontato la mia storia.

– Mi chiedevo se fossi sposata.

– Ehm, no. Di questi tempi è così difficile ammetterlo, vero? Ma hai ragione a chiedermelo, perché forse è proprio per questo che non mi sono sposata. Qualche volta ci sono andata molto vicino, soprattutto perché volevo avere un figlio. Ma tutti i tizi finivano per chiedermi perché guardassi distratta un punto lontano. Cosa potevo rispondergli? Sono addirittura arrivata a pensare di servirmi di una banca dello sperma e accontentarmi di quel che passava il convento.

Di avere il figlio di qualcuno assegnatomi a caso dalla sorte.

– Non lo farai sul serio, vero?

Tricia rise. – Forse no. In realtà non ho fatto nessun passo. Non ho mai fatto niente sul serio. Così è la mia vita. Rifuggo dalle cose concrete. Immagino sia per questo che sto in televisione. Niente è reale.

– Mi scusi, signora, lei si chiama Tricia McMillan?

Tricia si giro stupita e vide un uomo col cappello da chauffeur.

– Sì – rispose, tornando subito vigile come sempre.

– La sto cercando da quasi un’ora. In albergo hanno detto che non c’era nessuno col suo nome, ma ho controllato di nuovo con l’ufficio del signor Martin e mi hanno assicurato che lei stava qua. Allora ho chiesto di nuovo, mi hanno ripetuto che non l’avevano mai sentita nominare, li ho pregati di mandarla a chiamare lo stesso e non sono riusciti a trovarla. Alla fine ho chiesto all’ufficio che mi inviassero sul fax dell’auto una sua foto, e ho cominciato a cercare di persona.

L’uomo guardò l’orologio.

– Forse è un po’ tardi, ma vuole andare lo stesso? – Tricia era sbalordita.

– Il signor Martin? Intende dire Andy Martin della NBS?

– Proprio così, signora. Un provino per US/AM.

Tricia balzò in piedi. Se pensava a tutti i messaggi che aveva sentito per il signor MacManus e il signor Miller le veniva una rabbia.

– Però dobbiamo affrettarci – disse lo chauffeur. – A quanto ho sentito, il signor Martin è convinto che potrebbe funzionare un accento inglese. Il signor Zwingler, il capo della rete televisiva, è invece contrarissimo. So per caso che Zwingler stasera va sulla costa, perché sono io che devo andare a prenderlo per portarlo all’aeroporto.

– Va bene – disse Tricia. – Sono pronta. Andiamo.

– D’accordo, signora. È la grande limousine qui davanti. – Tricia si giro verso Gail. – Scusami – disse.

– Vai, vai! – la incoraggiò Gail. – E buona fortuna. Mi ha fatto piacere parlarti.

Tricia allungò la mano verso la borsa per cercare qualche spicciolo.

– Perdio – disse. Aveva lasciato la borsa al piano di sopra.

– Pago io da bere – si offrì Gail. – Volentieri. È stata una conversazione molto interessante.

Tricia sospirò.

– Senti, mi dispiace tanto per stamattina e…

– Ti prego, lascia perdere. Io sono perfettamente in pace con me stessa. Non è mica la fine del mondo, è solo astrologia, una cosa innocua.

– Grazie. – D’impulso Tricia l’abbracciò.

– Ha con sé l’occorrente? – chiese lo chauffeur. – Non vuole prendere la borsa o roba del genere?

– Almeno una cosa la vita mi ha insegnato – disse Tricia. – Che non si deve mai tornare a prendere la borsa.

Dopo poco più di un’ora, Tricia sedeva su uno dei due letti della stanza d’albergo. Per qualche minuto non si mosse. Si limitò a fissare la borsa, posata innocentemente sull’altro letto.

Stringeva in mano un biglietto in cui Gail Andrews le diceva: – Non sentirti troppo delusa. Telefonami pure, se vuoi parlarne. Se fossi in te resterei a casa domani sera. Riposati un po’. Ma non preoccuparti, non angustiarti per me. È solo astrologia, mica la fine del mondo. Gail.

Lo chauffeur aveva perfettamente ragione. Anzi, lo chauffeur sembrava saperne di più sulla NBS di qualunque altra persona lei avesse incontrato all’interno della compagnia. Martin aveva avuto l’acume di cercare un accento inglese, Zwingler no. Tricia aveva avuto la possibilità di dimostrare che Martin aveva ragione, e l’aveva sprecata.

Ma bene. Ma bene, bene, benone.

Era ora di tornare a casa. Di telefonare alla linea aerea e vedere se si poteva prendere un volo notturno per Heathrow quella stessa sera.

Tricia allungò la mano verso il grosso elenco telefonico.

Ah. Innanzitutto le cose che andavano fatte per prime.

Mise via l’elenco telefonico, prese la borsa e la portò in bagno. La depose e ne estrasse il piccolo astuccio di plastica che conteneva quelle lenti a contatto senza le quali non era riuscita a leggere bene né il testo preparato dalla NBS né il testo preparato da lei stessa.

Mentre si applicava agli occhi ciascun dischetto di plastica rifletté che almeno una cosa la vita le aveva insegnato: che in certi casi non si deve tornare a prendere la borsa e in altri sì. La vita doveva ancora insegnarle a distinguere tra i due diversi tipi di caso.