Venerdí, 11 maggio 2007
Siegbert Kaltensee era seduto alla scrivania nello studio di casa e fissava il telefono, mentre in cucina sua figlia si scioglieva in lacrime. Thomas Ritter era scomparso da trentasei ore, come inghiottito da un buco nero, e Marleen era talmente disperata che gli aveva confidato tutto. Siegbert aveva finto di non sapere del matrimonio e del bambino. Avrebbe voluto aiutare la figlia, ma cosa poteva fare? Aveva sempre pensato di avere il controllo, ma ora capiva che era stata solo un’illusione. Grazie al georadar, a Mühlenhof avevano trovato uno scheletro umano. Non riusciva a togliersi dalla mente le parole del commissario. Davvero era il padre di Robert? Possibile che Vera avesse ucciso Danuta subito dopo il parto? Era tutto cosí assurdo! E dov’era finita la mamma? Aveva parlato con lei a mezzogiorno. Intendeva farsi portare nel Canton Ticino da Moormann, ma non aveva ancora chiamato per dire che era arrivata. Siegbert prese il telefono e compose il numero della sorella. Sembrava che Jutta non si preoccupasse per nessuno. Né per la madre né per Elard, che era scomparso come Ritter. Pensava solo alla carriera e al modo in cui poteva essere danneggiata dagli ultimi avvenimenti.
«Ma hai guardato l’ora?» chiese lei rispondendo alla chiamata.
«Dov’è Ritter? Cosa gli hai fatto?».
«Io? Ma sei matto?» replicò Jutta, indignata. «Tu non vedevi l’ora di mettere in pratica l’idea di nostra madre!».
«L’ho fatto sparire dalla circolazione per un po’, nient’altro. A proposito, hai sentito la mamma?».
Siegbert Kaltensee ammirava e venerava la madre. Fin da piccolo aveva cercato il suo affetto e la sua approvazione e proprio per questo aveva soddisfatto ogni desiderio, ordine o richiesta, anche quelli di dubbia correttezza. Lei era la grande Vera Kaltensee. Se le avesse obbedito in tutto e per tutto, un giorno l’avrebbe amato come amava Jutta. O Elard, che si era installato a Mühlenhof come una zecca.
«No. Se l’avessi sentita, ti avrei avvisato».
«Dovrebbe essere arrivata da un pezzo. Moormann non risponde al cellulare. Comincio a preoccuparmi».
«Piantala, Berti». Jutta abbassò la voce. «Nostra madre non ha niente da temere. Non credere alle stronzate della polizia. Conosci Elard, sai benissimo che non è capace di uccidere nessuno! Sono sicura che il vigliacco se l’è data a gambe col suo amichetto».
«Con chi?».
«Non dirmi che non sai niente». Jutta scoppiò in una risata maligna. «Ultimamente il nostro Elard ha sviluppato una certa preferenza per i bei ragazzi».
«Ma per favore!». Siegbert disprezzava profondamente il fratello maggiore, anzi il fratellastro, ma l’affermazione di Jutta non stava né in cielo né in terra.
«Sei libero di non crederci». La voce di sua sorella diventò fredda. «Sembra quasi che vi siate messi d’accordo per danneggiarmi. Una madre con amici nazisti, un fratello frocio e uno scheletro a Mühlenhof! Se la stampa viene a sapere qualcosa di tutta questa storia, sono spacciata».
Siegbert rimase senza parole. Negli ultimi giorni aveva visto un lato di lei che non conosceva; poco a poco aveva capito che ogni sua azione era attentamente calcolata. Non le interessava sapere dove fosse Vera, se Elard avesse davvero ucciso tre persone e a chi appartenesse lo scheletro trovato dalla polizia; l’importante era che il suo nome non venisse associato a certi fatti.
«Non perdere la testa, Berti, hai capito? Quelli della polizia possono farci tutte le domande che vogliono: noi non sappiamo niente. In fondo è vero. Può darsi che la mamma abbia commesso molti errori, ma non voglio pagare al posto suo».
«Non t’importa niente di lei» osservò Siegbert con voce piatta. «Ma è pur sempre nostra madre…».
«Non fare il sentimentale! La mamma è anziana, ormai ha vissuto la sua vita! Io ho dei progetti e non me li farò rovinare né da lei né da Elard o Thomas o…».
Siegbert mise giú il telefono bruscamente. In lontananza sentiva i singhiozzi della figlia e la voce della moglie che cercava di tranquillizzarla. Rimase seduto con lo sguardo nel vuoto. Per colpa del commissario capo e della sua collega, ora era tormentato dal dubbio. Perché? Se aveva fatto certe cose era solo per proteggere la famiglia. Il bene piú grande, secondo Vera. Come mai d’un tratto si sentiva abbandonato? Per quale motivo lei non aveva ancora chiamato?
Come d’accordo, alle otto e mezzo Miriam li stava aspettando davanti all’aeroporto regionale di Szczytno–Szymany, l’unico del voivodato della Varmia–Masuria e che peraltro sembrava avere i giorni contati. Il Cessna CE-500 Citation si era rivelato incredibilmente comodo. Il viaggio era durato appena quattro ore, per il controllo dei passaporti bastarono tre minuti.
«Ah, dottor Frankenstein!» esclamò Miriam, porgendo la mano a Henning Kirchhoff dopo aver abbracciato Pia. «Benvenuto in Polonia».
«Vedo che se l’è legata al dito» disse il dottore, sorridendo. Lei si tolse gli occhiali da sole e lo scrutò, poi sorrise a sua volta.
«Ho una memoria da elefante» confermò, prendendo una borsa. «Andiamo. Da qui a Doba sono circa cento chilometri».
Con una Ford Focus presa a noleggio si diressero a tutta velocità verso nord–est, cioè verso il cuore della Masuria. Miriam e Henning cominciarono a parlare delle rovine del palazzo e a chiedersi se la cantina fosse ancora accessibile dopo sessant’anni di abbandono. Seduta sul sedile posteriore, Pia ascoltava con un orecchio e in silenzio guardava fuori dal finestrino. Non aveva nessun legame con quella terra dal passato movimentato e tragico. Per lei la Prussia orientale era sempre stata un concetto astratto, qualcosa da associare a film e documentari. La sua famiglia non aveva mai dovuto affrontare fughe ed espulsioni. Dall’altra parte del vetro, nella bruma del mattino, scorrevano colline, foreste e campi; sui numerosi laghi grandi e piccoli si vedevano ancora strati di foschia che si sarebbero dissolti gradualmente sotto il caldo sole di maggio.
Il pensiero di Pia corse a Bodenstein. Era commossa dalla fiducia che le aveva dimostrato. Non era obbligato a raccontarle tutto, eppure l’aveva fatto perché voleva essere completamente sincero. La dottoressa Engel ce l’aveva con lui per motivi personali; una cosa ingiusta, ma cosí era. Per aiutarlo poteva solo portare a termine la missione senza commettere errori. All’altezza di Mragowo svoltarono per proseguire lungo un’impervia stradina che passava accanto a villaggi e fattorie addormentate. Un paesaggio idilliaco! Qua e là, tra le fitte foreste in cui la luce penetrava a fatica, scintillavano specchi d’acqua di un azzurro incredibile. La Masuria era il piú grande distretto lacustre d’Europa, o almeno cosí aveva detto Miriam. Dopo un po’, superato il lago Kisajno e il paesino di Kamionki, raggiunsero Doba. Pia chiamò subito il capo.
«Siamo arrivati. Come va lí?».
«Abbastanza bene per il momento» rispose lui. «La dottoressa Engel non si è ancora fatta vedere. Continuiamo a cercare Auguste Nowak e gli altri… arsi… mattina… rlato… Améry… non ha… niente…».
«La sento malissimo!» gridò la commissaria, poi la comunicazione s’interruppe. Nelle distese della vecchia Prussia orientale non c’erano molti ripetitori, la copertura funzionava a singhiozzo, come le aveva già spiegato Miriam. «Merda!».
Si fermarono a un incrocio e girarono a destra, in una strada asfaltata che s’inoltrava tra gli alberi. Percorsero due o trecento metri in un rado bosco di latifoglie. Il fondo era disseminato di buche e l’auto sobbalzava con violenza, tanto che Pia sbatté la testa contro il finestrino.
«Preparatevi a rimanere senza fiato» avvertí Miriam.
Mentre uscivano dal bosco la commissaria si piegò in avanti per guardare tra i due sedili anteriori. A destra si estendeva il lago Doba, buio e scintillante, mentre sulla sinistra c’erano dei rilievi inframmezzati da alberi e boschetti.
«Quelle sono le rovine di Lauenburg» aggiunse Miriam. «Quasi tutti gli abitanti lavoravano alla tenuta. Avevano una scuola, una bottega, una chiesa e naturalmente una taverna».
In pratica rimaneva soltanto la chiesa. In cima al campanile di mattoni rossi, già crollato per metà, spiccava un nido di cicogne.
«Hanno portato via un sacco di materiale per riutilizzarlo. È rimasto poco anche dei fabbricati di servizio e del muro perimetrale della tenuta. La residenza invece è ancora in piedi».
Da lontano cominciarono a distinguere qualcosa: una grande casa in riva al lago, circondata su tre lati da fabbricati semidistrutti con fondamenta di un verde brillante. In passato si percorreva senz’altro un viale ben curato per raggiungere l’entrata principale, ma ora le piante crescevano un po’ dappertutto, anche dove un tempo non sarebbero state tollerate.
Miriam guidò la Focus oltre l’arco d’ingresso che, a differenza del muro perimetrale, era ancora intatto, e si fermò davanti al palazzo. Pia si guardò intorno, tra alberi imponenti su cui cinguettavano decine di uccellini. Da vicino le rovine dell’ex tenuta erano davvero deprimenti; il verde brillante era dovuto alle erbacce, le ortiche crescevano rigogliose e altissime, l’edera ricopriva quasi tutte le superfici libere. Chissà cosa avrebbe provato Auguste Nowak se dopo sessant’anni di sforzi per dimenticare fosse tornata e avesse visto com’era ridotto il luogo in cui aveva vissuto i momenti piú belli e piú brutti di tutta la sua vita. Forse era proprio qui che aveva deciso di vendicarsi per quello che le avevano fatto.
«Se questi muri potessero parlare» mormorò la commissaria, avanzando a fatica. Nel corso dei decenni la natura si era rimpossessata della tenuta. Oltre le rovine annerite dal fuoco luccicava la distesa argentea del lago, nel cielo azzurro volavano le cicogne e sui gradini dissestati del palazzo un grosso gatto si crogiolava al sole come se fosse il legittimo erede dei Zeydlitz–Lauenburg. Nella propria mente Pia vide la tenuta di un tempo: la residenza al centro, la casa dell’amministratore, la fucina, le stalle… E d’un tratto capí come mai quelli che erano stati cacciati non avevano mai accettato completamente la perdita della loro bellissima patria.
«Pia!» gridò Henning, spazientito. «Ti muovi?».
«Sí, arrivo». Mentre si voltava, con la coda dell’occhio colse un bagliore. La luce del sole si rifletteva su qualcosa di metallo. Spinta dalla curiosità, girò intorno a un cumulo di macerie ricoperto di ortiche e trasalí per lo spavento. Aveva davanti la Maybach scura di Vera Kaltensee, tutta sporca e con il parabrezza pieno di insetti per il lungo viaggio. Pia mise una mano sul cofano. Era ancora caldo.
«Katharina Ehrmann è l’unica amica che Jutta abbia mai avuto. Durante le vacanze lavorava sempre nell’ufficio di Eugen Kaltensee. Per lui era un piacere». Ostermann aveva l’aria stanca. Non c’era da meravigliarsi: era rimasto sveglio tutta la notte per leggere la biografia. «La sera in cui Kaltensee morí, Katharina era a Mühlenhof. Ha assistito all’omicidio».
«Quindi è stato ucciso?». Bodenstein era seduto alla scrivania; prima dell’arrivo di Ostermann stava spulciando la documentazione in cerca del verbale che Kathrin Fachinger aveva redatto dopo il colloquio con il vicino di stanza di Anita Frings alla Taunusblick. Per fortuna la sera prima Cosima non aveva fatto scenate e non aveva avuto difficoltà a credere che fosse caduto in una trappola. Durante il pranzo con Jutta Kaltensee aveva capito che la campagna immagine era solo una scusa. Ora che aveva sistemato le cose con la donna che amava, era pronto ad affrontare tutto il resto, anche le manovre di Nicola. Nella situazione in cui si trovava, aveva commesso una specie di suicidio professionale consentendo a Pia Kirchhoff di andare in Polonia nonostante l’ordine contrario della dottoressa Engel. Ciononostante era convinto che nella cantina di quel palazzo in Masuria ci fosse la chiave di tutto, la spiegazione ai cinque omicidi degli ultimi dieci giorni. Bodenstein sperava solo che la collega portasse a termine l’operazione con successo. Altrimenti avrebbe dovuto dimettersi.
«Sí, è stato senza dubbio un omicidio» confermò Ostermann. «Aspetti, le leggo il pezzo in cui se ne parla. Vera lo spinse giú dalla ripida scala della cantina e lo raggiunse in fondo, come se volesse aiutarlo. Si inginocchiò al suo fianco, avvicinò l’orecchio alla sua bocca e dato che respirava ancora lo soffocò col suo stesso pullover. Poi, come se non fosse successo niente, tornò di sopra e si sedette alla scrivania. Due ore dopo trovarono il cadavere. Far ricadere i sospetti su Elard non fu difficile: nel tardo pomeriggio aveva avuto un violento litigio col patrigno e quella stessa sera aveva lasciato in fretta e furia Mühlenhof per scappare a Parigi col treno notturno».
Bodenstein annuí pensosamente. Thomas Ritter doveva essere molto ingenuo o completamente accecato dal desiderio di vendetta per scrivere un libro del genere. Katharina Ehrmann aveva invece fatto una mossa molto intelligente approfittando della biografia per rendere pubblica la storia dell’omicidio. Ma perché ce l’aveva tanto coi Kaltensee? Li odiava, era impossibile non notarlo. Una cosa era certa: se il libro fosse stato pubblicato, sarebbe scoppiato uno scandalo che avrebbe rovinato quasi tutta la famiglia.
Suonò il telefono. Bodenstein rispose con la speranza che fosse Pia, ma sentí la voce di Behnke. In base alla descrizione, l’uomo con cui Ritter aveva lasciato la redazione mercoledí sera poteva essere un dipendente della K–Secure. Purtroppo Améry e i suoi cinque colleghi si rifiutavano di parlare. Peggio dei mafiosi!
«Voglio interrogare di nuovo Siegbert Kaltensee» disse il commissario capo, disposto a ricevere un’altra denuncia per abuso di potere. «Lo porti qui. Ah, vada a prendere anche la segretaria di Weekend. Faremo un confronto con gli uomini della K–Secure. Con un po’ di fortuna potrebbe riconoscere il finto corriere».
Che fine aveva fatto Vera Kaltensee? E il professore? Erano ancora vivi? Perché Elard Kaltensee aveva chiuso Nowak nella cantina dell’università? Il restauratore era stato operato la sera precedente. Ora si trovava nel reparto di terapia intensiva del Bethanien–Krankenhaus di Francoforte, in bilico tra la vita e la morte. Bodenstein chiuse gli occhi e appoggiò la testa a una mano. Elard era entrato in possesso del baule con i diari, che poi, su richiesta di Katharina Ehrmann, erano stati consegnati a Ritter. In un modo o nell’altro i Kaltensee erano venuti a saperlo. Prese il verbale di Kathrin Fachinger e cominciò a leggere senza troppa convinzione. Di colpo si fermò.
«E poi Katerchen… Lui veniva regolarmente. La portava in giro sulla sedia a rotelle… Katerchen? Quello giovane. Lei lo chiamava cosí. Me lo può descrivere?
Occhi marroni. Magro. Altezza media. Viso anonimo. La spia perfetta. Oppure un banchiere svizzero».
La descrizione gli fece tornare in mente qualcosa. Spia… Certo! Il giorno in cui l’autista di Vera Kaltensee era arrivato alle spalle di Jutta senza fare rumore, lei era sbiancata e aveva esclamato: «Maledetto Moormann! È talmente silenzioso che ogni volta mi fa venire un colpo. Vecchio spione!».
Era successo lo stesso giorno in cui l’aveva incontrata per la prima volta a Mühlenhof. Bodenstein pensò alla camicia trovata sul cadavere di Watkowiak. Moormann avrebbe potuto prendere facilmente una di quelle del professor Kaltensee per lasciare un falso indizio!
«Dio santo». Come mai non ci era arrivato prima? Moormann era una presenza fissa e poco appariscente in casa Kaltensee. Senza dubbio era al corrente di tutto quello che succedeva in famiglia. Era stato lui a scoprire che i diari erano nelle mani di Ritter? Aveva ascoltato una telefonata di Elard? Di sicuro era molto fedele alla sua padrona. Era disposto a mentire per lei, e forse anche a uccidere. Bodenstein chiuse il fascicolo e prese la pistola dal cassetto. Doveva andare subito a Mühlenhof. Stava per uscire dall’ufficio quando vide apparire il dottor Nierhoff e Nicola Engel, il primo con una faccia che prometteva tempesta, la seconda visibilmente compiaciuta. S’infilò comunque la giacca.
«Dottoressa Engel» disse prima che uno dei due potesse aprire bocca. «Mi serve immediatamente il suo aiuto».
«Dov’è la commissaria Kirchhoff?» domandò seccamente Nierhoff.
«In Polonia». Bodenstein guardò Nicola Engel. «So di aver ignorato un ordine preciso, ma avevo i miei motivi».
«Perché le serve il mio aiuto?» chiese lei, sorvolando sulla Polonia e ricambiando lo sguardo con espressione indecifrabile.
«L’abbiamo avuto davanti agli occhi per tutto il tempo e non ce ne siamo accorti. Credo che l’assassino di Monika Krämer e Robert Watkowiak sia Moormann, l’autista–tuttofare di Vera Kaltensee». Il commissario capo le spiegò rapidamente perché sospettava di lui.
«I due omicidi sono collegati, abbiamo una corrispondenza che lo dimostra. Sto andando a Mühlenhof per prendere il DNA di Moormann e vorrei che lei mi accompagnasse. Dobbiamo anche organizzare un confronto tra la segretaria di Ritter e gli uomini della K–Secure. Possiamo trattenerli soltanto fino a stasera».
«Sí, ma non…» protestò Nierhoff.
«Va bene» lo interruppe Nicola Engel, annuendo con decisione. «Andiamo».
Pia girò lentamente intorno alla macchina scura, parcheggiata senza riguardo tra cardi e cumuli di macerie. Le portiere erano aperte; chiunque fosse arrivato con la limousine aveva fretta, molta fretta. In silenzio tornò da Henning e Miriam e li informò della scoperta. I cellulari non funzionavano, non c’era campo. Poco male: Bodenstein non avrebbe potuto fare niente.
«Forse dovremmo avvertire la polizia polacca» rifletté la commissaria.
«Come no!». Henning scrollò la testa. «Cosa vorresti dire? Venite, ho trovato un’auto? Ti riderebbero in faccia».
«Chissà cosa c’è in quella cantina».
«Beh, lo sapremo presto». Il suo ex marito partí a passo deciso. Pia aveva una brutta sensazione, ma era stupido rinunciare a un passo dall’obiettivo. Chi era arrivato con la Maybach e perché? Dopo un attimo di esitazione seguí Henning e Miriam.
Il palazzo un tempo sfarzoso era quasi completamente diroccato. Le pareti esterne erano ancora in piedi, ma all’interno era crollato tutto. Impossibile accedere alla cantina dal pianterreno.
«Qui!» esclamò Miriam a mezza voce. «Segni di passaggio recente!».
Imboccarono insieme uno stretto sentiero che tra erbacce e ortiche conduceva verso il lago. In effetti l’erba calpestata indicava che era appena passato qualcuno. Avanzarono tra canne alte come un uomo che frusciavano al vento; i piedi affondavano nel terreno fangoso. Due anatre selvatiche si alzarono in volo starnazzando e Henning trasalí per lo spavento. Pia era tesa come una corda di violino. Ora faceva caldo, il sudore le colava negli occhi. Cosa c’era nella cantina del palazzo? Come doveva comportarsi se là sotto avesse trovato Vera o Elard Kaltensee? Aveva promesso al suo capo di non correre rischi. Non sarebbe stato meglio informare i colleghi polacchi?
«Ci siamo» disse Miriam. «Ecco la scala».
I gradini di pietra friabile sembravano portare verso il nulla. Il retro del palazzo era ridotto in cenere, le lastre di marmo della vecchia terrazza con vista mozzafiato sul lago erano scomparse da tempo. Miriam si fermò e si asciugò il viso sudato con l’avambraccio, poi indicò un’apertura nel terreno. Pia deglutí e si costrinse a scendere per prima. Avrebbe voluto tirar fuori la pistola, ma all’ultimo momento ricordò di averla lasciata in Germania, come ordinato da Bodenstein. Imprecando sottovoce nell’oscurità, superò una montagna di macerie e procedette a tastoni verso il basso.
Nonostante il fuoco, la guerra e l’inclemenza del tempo, la grande cantina si era conservata piuttosto bene. Gli ambienti erano quasi tutti agibili. Pia cercò di orientarsi; non aveva la minima idea di dove fosse.
«Vado avanti io» propose Henning, che era stato tanto previdente da portarsi dietro una torcia. Il fascio di luce illuminò un topo che stava guizzando tra i detriti. L’animale si bloccò per un istante e Pia non poté evitare una smorfia di disgusto. Dopo un paio di metri il suo ex marito si fermò improvvisamente e spense la torcia. Lei gli andò addosso e per poco non cadde.
«Che c’è?» sussurrò.
«Ho sentito delle voci» rispose lui in tono altrettanto basso. Rimasero immobili con l’orecchio teso, ma sulle prime non udirono nulla, a parte il proprio respiro. Poi un’imperiosa voce femminile fece trasalire la commissaria.
«Slegami subito! Come osi trattarmi in questo modo?».
«Raccontami tutto e ti libero» replicò un uomo.
«Non ti racconto proprio niente. E piantala di minacciarmi con quell’affare!».
«Voglio sapere cos’è successo il 16 gennaio 1945! Dimmi cos’avete fatto tu e i tuoi amici e ti lascio andare».
Col cuore che martellava nel petto, Pia superò l’ex marito e trattenendo il fiato lanciò un’occhiata dietro l’angolo. Un faretto portatile gettava un intenso fascio di luce verso il basso soffitto della cantina, illuminando tutta la zona circostante. Elard Kaltensee era in piedi dietro quella che considerava sua madre e le premeva la canna di una pistola contro la nuca. Lei era inginocchiata per terra, le mani legate dietro la schiena. Completamente struccata, con i capelli bianchi tutti in disordine e i vestiti sporchi e spiegazzati, non sembrava piú una raffinata donna di mondo. Sul viso di Elard si leggeva tutta la tensione del momento. Continuava a sbattere le palpebre, a inumidirsi le labbra con la lingua. Una parola sbagliata o un movimento azzardato e molto probabilmente avrebbe fatto fuoco.
A Mühlenhof non c’era piú nessuno, sembrava fossero scappati tutti. Quando Bodenstein e la dottoressa Engel rientrarono in commissariato a mani vuote, furono informati che Siegbert Kaltensee era già di sopra.
«Che cosa vuoi da lui?» chiese Nicola mentre salivano le scale.
«Deve dirmi dove sono Moormann e Ritter» spiegò il commissario capo con aria torva e decisa. Per troppo tempo si era concentrato su ciò che era evidente, ignorando tutto il resto. Siegbert, che era rimasto all’ombra del fratello per tutta la vita, non era altro che una pedina nelle mani di Vera, come gli altri.
«Perché dovrebbe sapere dove sono?».
«Perché esegue gli ordini della madre. È stata lei ad architettare tutto».
Nicola Engel si fermò e lo trattenne per un braccio.
«Perché hai detto che Jutta Kaltensee ti ha incastrato?» domandò con espressione seria. Lui la guardò negli occhi e vide un sincero interesse.
«La signora Kaltensee è una donna molto ambiziosa. Ha capito subito che gli omicidi potevano danneggiarle la carriera. Doveva evitare che la famiglia finisse in prima pagina per una storia del genere, altrimenti avrebbe risentito della pubblicità negativa. Non so ancora da chi sia arrivato l’ordine di uccidere Robert Watkowiak e la sua amica, ma lo scopo era senz’altro quello di metterci fuori strada. Gli indizi contro Elard Kaltensee servivano invece a rendere il professore meno attendibile. Quando ha visto che continuavamo a ficcare il naso negli affari di famiglia, Jutta ha rischiato il tutto per tutto e ha cercato di compromettermi. Il responsabile delle indagini che abusa sessualmente di una Kaltensee: meglio di cosí…».
Nicola Engel lo fissò in silenzio.
«Sono andato all’appuntamento convinto che dovesse raccontarmi qualcosa, perché cosí aveva detto. Non ricordo quasi niente di quello che è successo, eppure ho bevuto solo un bicchiere di vino. Avevo la mente annebbiata. Per questo ieri mi sono sottoposto a un esame del sangue. Il dottor Kirchhoff ha scoperto che mi hanno somministrato di nascosto una dose di GHB. Capisci? Ha pianificato tutto!».
«Per metterti fuori gioco» concluse Nicola.
Bodenstein annuí. «Non vedo altra spiegazione. Jutta Kaltensee vuole diventare primo ministro dell’Assia, ma può dire addio ai suoi progetti con una madre assassina e uno scheletro nel giardino della casa di famiglia. Per sopravvivere prenderà le distanze dai familiari. E in caso di bisogno cercherà di ricattarmi con la storia dell’abuso sessuale».
«Ha qualche prova?».
«Sicuramente» rispose il commissario in tono mesto. «Non è certo stupida. Avrà qualcosa con il mio DNA».
«Potresti avere ragione» ammise la dottoressa dopo averci riflettuto.
«Ho ragione». Bodenstein riprese a salire. «Vedrai»Per un attimo nella cantina regnò il silenzio. Pia fece un respiro profondo e avanzò di un passo.
«Racconti pure, signora Schwinderke» disse a voce alta, entrando nella zona illuminata con le mani in alto. «Sappiamo cos’è successo».
Elard Kaltensee si voltò di scatto e la guardò come fosse un fantasma. Anche Vera, alias Edda, trasalí per lo spavento, ma si riprese immediatamente.
«Commissaria Kirchhoff!» esclamò con la solita voce melliflua. «Grazie a Dio è qui! Mi aiuti, la prego!».
Pia la ignorò e si rivolse al professore.
«Non peggiori la situazione. Mi dia la pistola». Allungò una mano. «Conosciamo la verità, sappiamo cos’ha fatto».
Elard Kaltensee concentrò di nuovo l’attenzione sulla donna inginocchiata.
«Non importa». Scosse il capo. «Ho guidato per migliaia di chilometri, non ho intenzione di rinunciare proprio adesso. Voglio che questa maledetta strega confessi. Subito».
«Ho portato un esperto che cercherà i resti delle persone a cui lei e i suoi amici hanno sparato. Possiamo estrarre il DNA e identificarle, anche dopo sessant’anni. Vera Kaltensee sarà processata in Germania per omicidio plurimo. In ogni caso, tutti sapranno la verità».
Lui tenne lo sguardo fisso su Vera.
«Vada via, commissaria. Questa cosa non la riguarda».
All’improvviso dal muro in ombra si staccò una figura bassa e robusta. Pia si prese un bello spavento; non aveva notato la presenza di una terza persona. Di certo non si aspettava di vedere Auguste Nowak.
«Signora Nowak! Cosa fa qui?».
«Elard ha ragione» disse lei invece di rispondere. «Si tratta di una cosa che non la riguarda. Questa donna ha causato al mio bambino ferite cosí profonde che dopo sessant’anni non si sono ancora rimarginate. Gli ha rubato la vita. Ora lui ha tutto il diritto di sapere cos’è successo. Ed è giusto che sia lei a raccontarglielo».
«Abbiamo sentito la registrazione di Thomas Ritter» disse Pia in tono sommesso. «La sua storia ci ha convinto, ma devo per forza arrestarla. Lei ha sparato a tre persone. Se non dimostriamo che aveva un buon motivo per farlo, passerà il resto della sua vita in prigione. Può darsi che non le importi, ma almeno impedisca a suo figlio di commettere un omicidio! Non ne vale la pena!».
Auguste Nowak guardò l’arma nella mano di Elard, riflettendo.
«Abbiamo anche trovato suo nipote» aggiunse la commissaria. «Giusto in tempo. Ancora due o tre ore e sarebbe morto dissanguato».
Il professor Kaltensee alzò lo sguardo. Negli occhi aveva un’ombra di incertezza.
«Come dissanguato?» chiese con voce roca.
«Aveva delle lesioni interne dovute all’aggressione. Trascinandolo in quella cantina l’ha messo in pericolo di vita. Perché l’ha fatto? Voleva forse ucciderlo?».
Elard abbassò la pistola e spostò lo sguardo da Pia alla signora Nowak e viceversa. Poi scosse energicamente la testa.
«Mio Dio, no! Volevo che Marcus fosse al sicuro durante la mia assenza. Non gli farei mai del male!».
Pia rimase stupita dalla sua reazione sgomenta, ma subito dopo ricordò l’incontro con Kaltensee in ospedale e capí.
«Lei e Nowak non siete semplici conoscenti». Il professore scosse di nuovo la testa.
«No, siamo molto amici. In realtà… siamo anche qualcosa di piú…».
«È vero, siete parenti. Se non sbaglio, Marcus Nowak è suo nipote».
Elard Kaltensee le consegnò la pistola e si passò le mani tra i capelli. Alla luce del faretto si vedeva che era sbiancato di colpo.
«Devo andare da lui» mormorò. «Non volevo metterlo in pericolo. Al contrario! Volevo evitare che gli facessero del male mentre ero via. Non… non potevo immaginare che… Dio santo! Si rimetterà, vero?».
Sembrava aver perso ogni interesse per la vendetta. Nei suoi occhi c’era soltanto paura. D’un tratto Pia intuí la vera natura del rapporto tra Elard Kaltensee e Marcus Nowak. Le tornarono in mente le foto appese nell’appartamento del professore. Un uomo nudo ripreso di spalle, l’ingrandimento di due occhi scuri. I jeans abbandonati in bagno. Nowak tradiva davvero la moglie, ma non con un’altra donna. Era l’amante di Kaltensee!
Siegbert Kaltensee era seduto tutto curvo in una delle stanze per gli interrogatori e guardava dritto davanti a sé. Bodenstein lo trovò molto invecchiato rispetto al giorno precedente. Aveva perso l’aspetto roseo e gioviale; il viso era grigio e smunto.
«Ha avuto notizie di sua madre?» chiese il commissario. Kaltensee scrollò il capo in silenzio.
«Beh, noi abbiamo novità molto interessanti. Tanto per cominciare, abbiamo scoperto che Elard non è suo fratello».
«Cosa?». L’uomo alzò la testa e lo fissò sbalordito.
«Abbiamo trovato l’assassina di Goldberg, Schneider e Frings. Ha confessato. In realtà le vittime si chiamavano Oskar Schwinderke, Hans Kallweit e Maria Willumat. Schwinderke era il fratello di Vera, o meglio, di Edda. È questo il vero nome di sua madre: Edda Schwinderke. È la figlia del vecchio tesoriere dei Zeydlitz–Lauenburg».
Kaltensee non ci capiva piú niente. Mentre Bodenstein gli ripeteva la storia di Auguste Nowak, sul suo viso si disegnava un’espressione di totale sbigottimento.
«No» sussurrò alla fine. «No, non può essere».
«Mi dispiace, ma è cosí. Sua madre le ha mentito per tutta la vita. Il vero proprietario di Mühlenhof è il barone Elard von Zeydlitz–Lauenburg, il cui padre è stato ucciso proprio da sua madre il 16 gennaio 1945. Ecco perché sulle tre scene del crimine abbiamo trovato il numero 16145».
Siegbert Kaltensee si nascoste il volto tra le mani.
«Sapeva che Moormann, l’autista di sua madre, è un ex agente della Stasi?».
«Sí, lo sapevo».
«Crediamo che sia stato lui a uccidere suo figlio Robert e Monika Krämer».
L’altro alzò la testa.
«Sono un vero idiota!» esclamò con un’improvvisa amarezza.
«Perché?» domandò il commissario.
«Non avevo capito niente». A giudicare dallo smarrimento dipinto sul suo viso, gli era appena crollato il mondo addosso. «Non avevo capito niente! Mio Dio, cos’ho fatto!».
Bodenstein tese i muscoli, come un cacciatore di fronte a una preda inattesa. Quasi tratteneva il fiato… Ma ciò che seguí fu una delusione.
«Voglio il mio avvocato» disse Siegbert Kaltensee, raddrizzando la schiena.
«Dov’è Moormann?».
Nessuna risposta.
«Che fine ha fatto suo genero? Sappiamo che sono stati quelli della K–Secure a rapire Ritter. Dov’è ora?».
«Voglio il mio avvocato» ripeté Kaltensee con voce bassa e occhi fuori dalle orbite. «Subito».
Bodenstein fece finta di niente. «Signor Kaltensee, è stato lei a ordinare agli uomini della K–Secure di aggredire Marcus Nowak per recuperare i diari. Ha anche fatto rapire Ritter per impedire che scrivesse la biografia. Come sempre, ha fatto il lavoro sporco per sua madre».
«Il mio avvocato. Voglio il mio avvocato».
«Cos’è successo a Ritter? È ancora vivo?» insistette il commissario. «Non le importa che sua figlia stia morendo di preoccupazione?». L’altro trasalí leggermente. «L’istigazione all’omicidio è un reato. Finirà in prigione. Sua moglie e sua figlia non la perdoneranno mai. Se non risponde alle mie domande, perderà tutto!».
«Voglio il mio…».
Il commissario lo interruppe. «È stata sua madre a chiederle di fare tutto questo? Voleva aiutarla? Se è cosí, le conviene parlare. Sua madre andrà comunque in prigione, abbiamo le prove di quello che ha fatto e le dichiarazioni di una testimone che l’ha vista uccidere il marito. Sí, la morte di suo padre non è stata accidentale. Si rende conto della situazione? Se ci dice subito dov’è Thomas Ritter, potrebbe anche cavarsela a buon mercato».
Siegbert Kaltensee inspirò a fatica. Dall’espressione si capiva che era tesissimo.
«Vuole davvero finire in prigione per una donna che le ha mentito e che l’ha sfruttata per tutta la vita?».
Bodenstein lasciò che le ultime parole facessero effetto, poi si alzò dalla sedia.
«Ci rifletta con calma, signor Kaltensee. Ne riparliamo quando torno».
Mentre Henning e Miriam si mettevano a controllare il pavimento della cantina centimetro per centimetro in cerca di resti umani, Pia tornò in superficie con Elard, Vera e Auguste Nowak.
«È vero quello che ha detto poco fa?» chiese il professor Kaltensee mentre attraversavano l’ex terrazza. La signora Nowak non sembrava particolarmente affaticata, ma Vera Kaltensee aveva bisogno di una pausa. Con le mani ancora legate dietro la schiena, si accasciò su uno dei tanti cumuli di macerie.
«Sí, è tutto vero». Pia aveva messo la sicura alla pistola e l’aveva infilata nei pantaloni. «Sappiamo com’è andata. Se troviamo le ossa e riusciamo a estrarre il DNA, avremo anche le prove».
«Mi riferivo a Marcus» specificò il professore, angosciato. «È davvero cosí grave?».
«Ieri sera era in condizioni critiche. Ma non si preoccupi, tra poco tornerà in ospedale e potrà prendersi cura di lui».
«È tutta colpa mia». Elard si coprí naso e bocca con le mani e scosse la testa. «Se non avessi preso quel baule, non sarebbe successo niente!».
In effetti aveva ragione. Cinque persone non sarebbero morte e tutti i segreti dei Kaltensee sarebbero rimasti ben custoditi. Pia posò lo sguardo su Vera, seduta con aria impassibile. Come poteva essere cosí fredda e indifferente?
«Perché ha risparmiato il bambino?». A questa domanda la signora alzò la testa e la fissò. A distanza di sessant’anni i suoi occhi erano ancora pieni d’odio.
«È stato il mio trionfo su questa donna» sibilò, indicando Auguste Nowak. «Se non ci fosse stata lei, Elard avrebbe sposato me!».
«Mai e poi mai» intervenne l’altra. «Non ti sopportava. Solo che era troppo beneducato per darlo a vedere».
«Beneducato! Ma per favore! Quando ho saputo che aveva messo incinta la figlia di due bolscevichi ebrei, ho perso ogni interesse nei suoi confronti. Sarebbe morto comunque. L’avrebbero giustiziato per aver disonorato la razza».
Il professor Kaltensee guardava allibito la donna che per tutta la vita aveva chiamato “mamma”. Auguste Nowak, invece, era sorprendentemente calma.
«Elard si sarebbe divertito un mondo se avesse saputo che proprio tuo fratello, l’Obersturmbannführer, avrebbe dovuto fingersi ebreo per sessant’anni» replicò Auguste in tono beffardo. «Evidentemente era disposto a tutto pur di salvarsi la pelle. Il nazista piú nazista che abbia mai conosciuto ha sposato un’ebrea e ha dovuto imparare lo yiddish!».
Gli occhi di Vera mandavano fulmini e saette.
«Avresti dovuto sentirlo mentre mi supplicava di non sparare» proseguí la Nowak. «È morto esattamente come ha vissuto: da schifoso vigliacco! Diversamente da quelli che si sono nascosti dietro una falsa identità, i membri della mia famiglia sono andati incontro alla morte senza un lamento».
«La tua famiglia! Questa sí che è bella!».
«Sí, la mia famiglia. Elard e io siamo stati uniti in matrimonio da padre Kunisch il 25 dicembre 1944 nella biblioteca del palazzo. Oskar non è riuscito a impedirlo».
«No!». Vera cercò di liberarsi le mani.
«Oh sí». Auguste Nowak annuí e prese la mano di Elard. «Il mio Heinrich, che hai fatto passare per tuo figlio, è barone di Zeydlitz–Lauenburg».
«Quindi è il legittimo proprietario di Mühlenhof» osservò Pia. «Anche la KMF non appartiene a lei, Edda. Per tutta la vita non ha fatto altro che rubare agli altri. Chiunque la ostacolasse veniva eliminato. Come suo marito Eugen. L’ha spinto giú dalla scala, vero? E la madre di Robert Watkowiak, quella povera cameriera… Ha ucciso anche lei. Scommetto che i resti umani che abbiamo trovato nel giardino di Mühlenhof sono suoi».
«Non ho avuto scelta». Accecata dall’ira, Vera Kaltensee non si accorse che in pratica stava confessando. «Non potevo permettere che Siegbert sposasse quella nullità!».
«Forse per lui sarebbe stato meglio. Ha impedito a suo figlio di essere felice. Pensava di poter uccidere tutti senza conseguenze, ma Vicky Endrikat è sopravvissuta alla strage. Immagino si sia spaventata a morte quando ha saputo del numero trovato vicino al cadavere di suo fratello, in casa di Hans Kallweit e sul corpo di Maria Willumat».
Vera tremava di rabbia. Non somigliava neanche lontanamente all’elegante e cordiale signora che all’inizio era riuscita a impietosire la commissaria.
«Chi ha avuto l’idea di uccidere i Zeydlitz–Lauenburg e gli Endrikat?».
«Io» rispose la donna, sorridendo con evidente soddisfazione.
«Credeva fosse la sua grande occasione, vero? Voleva il titolo nobiliare e se l’è preso. Ma da quel momento ha vissuto nella paura di essere scoperta. Per sessant’anni è andato tutto bene, poi il passato è tornato a tormentarla. E come ho già detto, lei si è spaventata a morte. Non temeva per la sua vita, ma per la sua reputazione, che è sempre stata la cosa piú importante. Per questo ha fatto uccidere suo nipote Robert e Monika Krämer e ci ha portato a sospettare di Elard. È stata lei con sua figlia Jutta, per cui la reputazione è altrettanto importante. Beh, ora è finita. La biografia uscirà e il primo capitolo sarà un duro colpo per tutti. Il marito di Marleen non si è lasciato intimidire».
«Mia nipote è divorziata» replicò Vera Kaltensee.
«Forse prima. Una decina di giorni fa ha sposato in gran segreto Thomas Ritter. E aspetta già un bambino». Con piacere Pia vide un misto di rabbia e impotenza negli occhi di Vera. «Sí, il secondo uomo che piaceva a lei e che ha scelto un’altra. Dopo Elard von Zeydlitz–Lauenburg, che ha preferito sposare Vicky Endrikat, anche Thomas Ritter…».
Prima che Vera potesse ribattere, dalla cantina uscí Miriam.
«Ce l’abbiamo fatta!» annunciò ansimando. «Abbiamo trovato le ossa!».
La commissaria incrociò lo sguardo di Elard Kaltensee e sorrise. Poi si rivolse di nuovo a Vera.
«La dichiaro in arresto. È sospettata di aver istigato sette omicidi».
Sina, la segretaria di Weekend, riconobbe senza esitazione Henri Améry. Era lui l’uomo che si era presentato in redazione mercoledí sera. Nicola Engel lo mise davanti a una scelta: parlare o essere accusato di sequestro di persona, ostacolo alla giustizia e sospetto omicidio. Il direttore della K–Secure non era certo stupido e cosí, dopo averci pensato dieci secondi, scelse la prima soluzione. Confessò di aver aggredito Marcus Nowak insieme a Moormann e a un collega e di aver sorvegliato il dottor Ritter per un paio di giorni su richiesta di Siegbert Kaltensee. Durante la sorveglianza aveva scoperto che Ritter era sposato con Marleen Kaltensee. Jutta aveva insistito perché questo particolare non venisse riferito al fratello. Alla fine proprio Siegbert aveva ordinato di prelevare Ritter «per fare quattro chiacchiere con lui».
Questa fu l’espressione usata da Améry.
«Cosa doveva fare di preciso?» domandò Bodenstein.
«Dovevo portare Ritter in un certo posto senza dare nell’occhio».
«Quale posto?».
«Il Kunsthaus di Francoforte. A Römerberg. L’abbiamo portato lí, come ci ha chiesto il signor Kaltensee».
«E poi?».
«L’abbiamo portato in cantina e ce ne siamo andati. Non so cos’è successo dopo».
Il Kunsthaus. Un’idea geniale. Se da quella cantina fosse spuntato un cadavere, i sospetti sarebbero ricaduti subito su Elard.
«Cosa voleva Siegbert Kaltensee da Ritter?».
«Non ne ho idea. Mi limito a eseguire gli ordini, non chiedo spiegazioni».
«E Marcus Nowak? L’avete torturato per sapere qualcosa, no?».
«È stato Moormann a fare le domande. C’era di mezzo un baule».
«Cosa c’entra Moormann con la k–Secure?».
«In realtà niente. Ma sa come sciogliere la lingua alle persone».
«Da buon agente della Stasi». Bodenstein annuí. «Però Nowak non ha parlato».
«No, infatti. Neanche mezza parola».
«Com’è andata con Robert Watkowiak?».
«La scorsa settimana l’ho portato a Mühlenhof, sempre su richiesta di Siegbert Kaltensee. È successo mercoledí. I miei uomini l’avevano cercato dappertutto. Alla fine l’ho trovato quasi per caso a Fischbach».
Il commissario capo pensò subito al messaggio lasciato da Watkowiak all’amico Kurt Frenzel. Gli scagnozzi della mia matrigna mi stavano aspettando… «Ha ricevuto ordini anche da Jutta Kaltensee?» s’intromise la dottoressa Engel. Améry esitò un attimo, poi fece cenno di sí.
«Quali?».
All’improvviso il viscido direttore della K–Secure perse tutta la sua sicurezza. Sembrava quasi imbarazzato.
«Allora?». Nicola Engel picchiò le nocche sul tavolo, spazientita.
«Sono stato incaricato di scattare delle foto» ammise infine l’uomo, posando gli occhi su Bodenstein. «Di lei e della signora Kaltensee».
Il commissario si sentí avvampare e contemporaneamente provò un grande sollievo. Incrociò lo sguardo di Nicola, ma sul suo viso non lesse alcuna emozione. Era impassibile.
«Ci racconti tutto».
«L’altro giorno la signora mi ha detto di rimanere a disposizione. Alle dieci e mezza ho ricevuto un sms in cui mi chiedeva di raggiungere il Rote Mühle nel giro di venti minuti per fare delle foto».
Améry lanciò un’altra occhiata a Bodenstein e accennò un sorriso.
«Mi dispiace. Niente di personale».
«Ha portato a termine l’incarico?» domandò Engel.
«Sí».
«Dove sono le foto?».
«Nel mio cellulare e nel computer in ufficio».
«Gliele sequestriamo».
Lui alzò le spalle. «Va bene».
«Perché ha preso ordini da Jutta Kaltensee? Che autorità aveva su di lei?».
«Mi ha pagato». Henri Améry era un mercenario e non conosceva la lealtà; inoltre sapeva che in futuro non avrebbe piú ricevuto un euro dai Kaltensee. «Di tanto in tanto ero anche la sua guardia del corpo. E il suo amante».
Nicola Engel annuí soddisfatta. Era esattamente quello che voleva sentire.
«Come è riuscito a portare Vera oltreconfine?» domandò Pia.
«L’ho chiusa nel bagagliaio». Elard Kaltensee fece un sorrisetto. «Dato che la Maybach ha una targa diplomatica, ho immaginato che ci avrebbero fatto passare senza controlli. E in effetti è andata cosí».
Alla commissaria tornarono in mente le parole della suocera di Bodenstein, secondo cui Elard non era un uomo che prendeva iniziative. Perché alla fine si era deciso ad agire?
«Se non fosse stato per Marcus, probabilmente avrei continuato a stordirmi col Tavor per non guardare in faccia la realtà» spiegò il professore. «Ma quando ho saputo che Vera non l’aveva ancora pagato per la ristrutturazione del mulino e quando l’ho visto in quel letto d’ospedale, cosí… ferito e malridotto, beh, dentro di me è scattato qualcosa. Mi sono arrabbiato con lei per come tratta le persone, per il suo disprezzo e la sua indifferenza! Ho sentito di doverla fermare, di dover impedire con ogni mezzo che fosse messo tutto a tacere».
Scosse la testa.
«Avevo capito che zitta zitta si stava preparando a scappare in Sud America attraverso l’Italia. Dovevo agire subito. Davanti al cancello della proprietà ho trovato un’auto della polizia, quindi sono passato da un ingresso secondario. Ho dovuto aspettare un bel po’, ma alla fine Jutta e Moormann se ne sono andati. Quando anche Siegbert si è tolto di mezzo, ho sorpreso e sopraffatto mia ma… cioè, questa donna. Il resto è stato un gioco da ragazzi».
«Perché ha lasciato la Mercedes all’aeroporto?».
«Doveva essere un falso indizio, non tanto per voi della polizia quanto per gli uomini di mio fratello, che stavano già cercando me e Marcus. Purtroppo lei è dovuta rimanere nel bagagliaio della Maybach finché non sono tornato».
«In ospedale si è fatto passare per il padre di Nowak». Pia lo guardò attentamente. Non l’aveva mai visto cosí rilassato. Aveva finalmente fatto i conti con se stesso e con il passato, liberandosi del fardello dell’incertezza. Il suo incubo personale era finito.
«No» intervenne Auguste Nowak. «L’ho solo presentato come mio figlio, il che è vero».
«Ha ragione». La commissaria annuí. «Ero convinta al cento per cento che l’assassino fosse lei, professore. E credevo che Marcus Nowak fosse suo complice».
«Non posso darle torto» replicò Elard. «Senza volerlo, ci siamo comportati in modo molto sospetto. Se devo essere sincero, non ho prestato molta attenzione agli omicidi. Ero troppo concentrato su me stesso. Io e Marcus eravamo cosí confusi, ci ostinavamo a negare l’evidenza. Ci sembrava… impossibile. Voglio dire, nessuno dei due aveva mai provato una cosa del genere… con un altro uomo».
Fece un gran sospiro.
«Le notti per cui non aveva un alibi le ha passate con me, nel mio appartamento di Francoforte».
«Ma è suo nipote. Siete consanguinei» fece notare Pia.
Sul volto di Elard Kaltensee apparve l’ombra di un sorriso. «Poco male. Non credo che avremo dei bambini».
A queste parole sorrise anche lei.
«Peccato che non ci abbia detto subito come stavano le cose, ci avrebbe risparmiato un bel po’ di lavoro. E ora? Cosa farà una volta tornato a casa?».
Il barone di Zeydlitz–Lauenburg inspirò profondamente. «Il tempo dei sotterfugi è finito. Io e Marcus abbiamo deciso di raccontare tutto alle nostre famiglie. Devono sapere la verità sul nostro rapporto, non vogliamo piú nasconderci. Per me non sarà una tragedia, la mia reputazione è già abbastanza dubbia, ma per Marcus non sarà facile».
Pia era d’accordo. Nessuno immaginava che tra il giovane restauratore e il professor Kaltensee ci fosse qualcosa di piú di una semplice amicizia. Probabilmente la famiglia si sarebbe suicidata in gruppo se a Fischbach si fosse diffusa la voce che Marcus Nowak aveva lasciato moglie e figli per un uomo piú vecchio di trent’anni.
«Vorrei tornare qui con Marcus». Elard Kaltensee fece scorrere lo sguardo sul lago, che luccicava sotto il sole. «Mi piacerebbe ricostruire il palazzo una volta risolta la questione della proprietà. Marcus mi darà il suo giudizio da esperto, ma credo che da queste rovine si potrebbe ricavare un fantastico albergo, proprio in riva al lago».
Pia sorrise e guardò l’orologio. Doveva chiamare Bodenstein!
«Direi di portare la signora Kaltensee in macchina. Poi andiamo tutti…».
«Nessuno si muove da qui!» tuonò qualcuno alle sue spalle. Pia si voltò di scatto e si trovò davanti la canna di una pistola. In cima alla scala c’erano tre uomini vestiti di nero con il viso coperto e le armi puntate. «Alleluia!» esclamò Vera Kaltensee. «Se l’è presa comoda, Moormann».
«Dov’è Moormann?» domandò il commissario capo al direttore della K–Secure.
«Se ha preso una macchina, posso scoprirlo». Henri Améry non aveva nessuna voglia di sporcarsi la fedina penale, quindi si stava dimostrando piú che collaborativo. «Tutti i veicoli della famiglia Kaltensee e della K–Secure sono dotati di un chip che può essere localizzato con l’aiuto di un software».
«Come?».
«Se mi date un computer, vi faccio vedere».
Bodenstein esitò un attimo, poi prese l’uomo e lo portò al primo piano.
«Prego». Gli indicò una scrivania, poi – insieme a Ostermann, Behnke e Nicola Engel – rimase a guardare con interesse mentre Améry digitava l’indirizzo di un sito web chiamato Minor Planet. Una volta visualizzata la home page, inserí nome utente e password. Sullo schermo apparve una cartina dell’Europa sotto la quale erano indicati tutti i veicoli con rispettiva targa.
«Questo sistema mi permette di vedere in qualunque momento dove sono i miei collaboratori» spiegò Amèry. «Sarebbe utile anche se dovessero rubare uno dei veicoli».
«Quale macchina può aver preso Moormann?» chiese Bodenstein.
«Non lo so, dovrò procedere per tentativi».
Nicola Engel fece cenno al commissario di seguirla in corridoio.
«Mi procuro un mandato d’arresto per Siegbert Kaltensee» disse a bassa voce. «Con Jutta sarà un po’ piú complicato perché ha l’immunità parlamentare. Comunque cercherò di portarla qui per un colloquio».
«Okay». Bodenstein annuí. «Io vado al Kunsthaus con Améry. Forse Ritter è ancora là».
«Secondo me Siegbert Kaltensee sa tutto. Si sente in colpa nei confronti della figlia».
«Lo penso anch’io».
«Ci siamo!» esclamò il direttore della K–Secure. «Credo di averlo trovato. La Mercedes Classe M di Mühlenhof non è dove dovrebbe essere. Si trova in Polonia, in un posto chiamato… Doba. È lí da quarantatré minuti».
Bodenstein sentí il sangue gelarsi nelle vene. Moormann, il presunto assassino di Robert Watkowiak e Monika Krämer, si trovava in Polonia! Pia aveva chiamato un paio d’ore prima per dire che erano arrivati a destinazione e che il dottor Kirchhoff era pronto a ispezionare ogni centimetro della cantina. Era quindi improbabile che avessero già lasciato il palazzo. Perché Moormann era in Polonia? Mentre si faceva questa domanda, all’improvviso capí dov’era finito Elard Kaltensee. Si rivolse ad Améry.
«Controlli la Maybach» ordinò con voce velata. «Dov’è?».
L’uomo cliccò sulla targa della limousine.
«A Doba, come la Mercedes. No, un momento. È appena ripartita».
Lo sguardo del commissario incrociò quello di Nicola Engel. Lei sembrò leggergli nel pensiero.
«Ostermann, tenga d’occhio i due veicoli» disse deciso. «Informo subito la polizia polacca e poi vado a Wiesbaden».
Uno degli uomini vestiti di nero se n’era andato con Vera. Gli ordini della signora erano chiari: Elard Kaltensee, Auguste Nowak e la commissaria Kirchhoff dovevano essere legati e uccisi nella cantina del palazzo. Pia si stava spremendo le meningi per trovare una via d’uscita. Doveva avvertire Miriam e Henning. Gli uomini in nero non avrebbero avuto nessuna pietà, avrebbero portato a termine l’incarico e sarebbero tornati tranquillamente in Germania. Pia si sentiva responsabile per l’ex marito e l’amica. Dopotutto, senza di lei non si sarebbero cacciati in un guaio simile! Di colpo fu sopraffatta dalla rabbia. Non aveva nessuna intenzione di farsi condurre al macello come una pecora! Non voleva morire senza aver rivisto Christoph. Christoph! Sarebbe tornato dal Sudafrica in serata, doveva andare a prenderlo all’aeroporto! Si bloccò davanti all’apertura che portava in cantina.
«Cosa volete fare?» chiese per guadagnare tempo.
«Hai sentito la signora» rispose il capo degli uomini in nero, la voce attutita dal cappuccio che gli copriva il viso.
«Ma perché…». Prima che potesse terminare la frase, l’uomo le assestò un violento colpo alla schiena e la fece cadere di testa su un cumulo di macerie. Essendo legata, Pia non poté aiutarsi con le mani. Qualcosa di duro le si infilò dolorosamente nel diaframma. Con un lamento si girò sul dorso e cercò di riprendere fiato, sperando di non essersi rotta niente. Vide l’altro uomo pungolare Elard Kaltensee e Auguste Nowak per farli avanzare. Anche loro avevano le mani legate dietro la schiena.
«In piedi!». L’incappucciato numero uno le piombò addosso e la tirò per un braccio. «Forza!».
Di colpo Pia capí cos’era l’oggetto che le aveva quasi rotto le costole: la pistola di Elard infilata nei pantaloni! Doveva assolutamente avvisare Henning e Miriam!
«Ahi!» gridò con tutta la voce che aveva in gola. «Il braccio! Cosí me lo rompi!».
Uno dei due killer si lasciò sfuggire un’imprecazione, poi, con l’aiuto del collega, la rimise in piedi e la spinse nel corridoio. Pia sperava ardentemente che Henning e Miriam avessero sentito le grida e si fossero nascosti. Vera Kaltensee aveva dimenticato di dire agli uomini in nero che nella cantina c’erano altre due persone. Mentre percorrevano il corridoio, tentò di allentare i nodi senza dare nell’occhio. In un attimo raggiunsero la cantina. Il faretto era ancora acceso, ma di Henning e Miriam non c’era traccia. Pia aveva la gola secca, il cuore le martellava nel petto. L’uomo che l’aveva spinta fin lí si tolse il cappuccio e mostrò il viso.
«Signora Moormann!». La commissaria era sbalordita. «Credevo che… lei… cioè… suo marito…».
«Doveva restare in Germania» disse la domestica di Vera Kaltensee – evidentemente non una semplice donna di servizio – alzando la pistola col silenziatore e puntandola alla testa di Pia. «È colpa sua se si trova in questa brutta situazione».
«Ma non può spararci! I miei colleghi sanno che siamo qui…».
«Silenzio!». Il viso di Anja Moormann era totalmente inespressivo, gli occhi sembravano di vetro. «Mettetevi in fila».
Auguste Nowak ed Elard Kaltensee non si mossero.
«Abbiamo avvisato i colleghi polacchi, se non mi faccio sentire arriveranno in un lampo» insistette Pia, girando disperatamente i polsi dietro la schiena. Le dita erano quasi addormentate, ma aveva l’impressione che i nodi si stessero allentando. Doveva guadagnare tempo!
«La sua padrona sarà arrestata alla frontiera! Perché eseguire un ordine tanto assurdo? Lasci perdere!».
Anja Moormann la ignorò e puntò la pistola verso Elard. «Forza, professore, in ginocchio».
«Non me lo sarei mai aspettato da lei» dichiarò Kaltensee, sorprendentemente calmo. «Sono molto deluso. Davvero molto deluso».
«In ginocchio!» ripeté la donna.
Pia era in un bagno di sudore. All’improvviso la corda cedette e riuscí a liberare le mani. Le strinse a pugno e le riaprí per recuperare un minimo di sensibilità. Doveva puntare tutto sull’effetto sorpresa. Con espressione rassegnata, Elard Kaltensee si avvicinò alla buca scavata da Henning e Miriam e s’inginocchiò a terra. Ma prima che Anja Moormann o il suo complice potessero fare qualcosa, Pia estrasse la pistola dai pantaloni, tolse la sicura e premette il grilletto. La pallottola, esplosa con un rumore assordante, colpí alla coscia il secondo killer in nero. Moormann reagí immediatamente: tenendo l’arma puntata alla testa di Elard Kaltensee, fece fuoco. Nello stesso istante Auguste Nowak si gettò in avanti per proteggere il figlio inginocchiato. Lo sparo quasi non si sentí, ma l’impatto fu violento. La signora Nowak venne colpita al petto e sbalzata indietro. Anja Moormann cercò di sparare di nuovo, ma la commissaria le si scagliò contro e la colpí con tutto il peso del proprio corpo. Finirono entrambe a terra. In un secondo Pia si ritrovò distesa sulla schiena con addosso l’avversaria. Sentendo le sue mani intorno al collo, cominciò a dibattersi con tutte le forze. Avrebbe voluto ricordare almeno una delle mosse apprese durante i corsi di autodifesa, ma forse non sarebbe servito a niente: stava lottando con una killer professionista allenata e pronta a tutto. Nella luce sempre piú fioca – la batteria del faretto si stava esaurendo – il viso contratto di Anja Moormann si fece sfocato. Non riusciva a respirare, aveva l’impressione che gli occhi stessero per schizzarle fuori dalle orbite. Doveva far arrivare un po’ di ossigeno al cervello, altrimenti nel giro di venti secondi avrebbe perso conoscenza e sarebbe morta. Durante l’autopsia il medico legale avrebbe riscontrato un’emorragia della congiuntiva, una frattura dello ioide e una serie di ecchimosi nella cavità orale e nella faringe. Ma non voleva morire! Non ora, non in questa cantina! Non aveva nemmeno quarant’anni! Con la forza della disperazione si liberò una mano e piantò le unghie nel viso della Moormann. La donna ansimò, Pia mostrò i denti e ringhiò come un pitbull: la stretta s’indebolí. Poi la commissaria fu colpita alla tempia con qualcosa di duro e perse i sensi.
Jutta Kaltensee era seduta tra i membri del proprio gruppo nella sala del parlamento assiano, in terza fila di fronte al banco del governo, e ascoltava distrattamente la solita schermaglia tra il primo ministro e il leader del partito Die grünen/Bündnis 90, che si stavano scontrando sul punto sessantasei dell’ordine del giorno, riguardante l’ampliamento dell’aeroporto. Con la testa era da tutt’altra parte. L’avvocato Rosenblatt l’aveva rassicurata dicendo che la polizia non aveva niente contro di lei, che tutti i sospetti e le accuse si concentravano su Siegbert e Vera. Ciò nonostante era inquieta. Ora sapeva di aver sbagliato, non doveva incontrare il commissario e far scattare quelle foto. Doveva restarne fuori. Se solo quel rammollito di Berti, che per anni aveva eseguito gli ordini della madre senza scrupoli e senza domande, non avesse mostrato improvvisi segni di cedimento! Jutta non poteva permettersi di essere associata a indagini per omicidio e oscuri segreti di famiglia. Al prossimo congresso del partito sarebbe stata presentata come la candidata di punta per le elezioni di gennaio. Fino a quel momento doveva assolutamente tenere la situazione sotto controllo.
Continuava a guardare il display del cellulare, che aveva dovuto mettere in modalità silenziosa. Per questo non si accorse subito dell’agitazione che serpeggiava nella sala. Quando però il primo ministro s’interruppe bruscamente, alzò la testa e vide due poliziotti in divisa e una donna dai capelli rossi davanti al banco del governo. Dopo aver scambiato qualche parola sottovoce con il primo ministro e il presidente della camera, che assunsero un’espressione costernata, i tre si guardarono intorno come se stessero cercando qualcuno. Jutta sentí un brivido scenderle lungo la schiena. Era impossibile, non avevano niente contro di lei. Henri si sarebbe fatto squartare piuttosto che aprire bocca. La rossa le venne incontro a passo deciso. Anche se la paura le scorreva nelle vene come acqua ghiacciata, la deputata Kaltensee si sforzò di mantenere un’aria rilassata. Aveva l’immunità, non potevano arrestarla La cantina fredda e umida sapeva di chiuso. Bodenstein tastò il muro in cerca dell’interruttore e tirò un sospiro di sollievo quando, alla luce tremolante del tubo al neon, vide Thomas Ritter legato e disteso su un tavolo metallico macchiato di colore. Avevano dovuto suonare il campanello diverse volte, ma alla fine una ragazza giapponese era venuta ad aprire la porta che dava sul Römerberg. Era una dei giovani artisti sostenuti dalla fondazione Eugen Kaltensee e come tale viveva e lavorava presso il Kunsthaus da circa sei mesi. Muta e confusa, era rimasta a guardare mentre il commissario capo, Behnke, Améry e quattro agenti della polizia di Francoforte puntavano dritti alla porta della cantina.
«Buongiorno, signor Ritter» disse Bodenstein, avvicinandosi al tavolo. Il suo cervello ci mise un paio di secondi a registrare la realtà. Ritter era sdraiato con gli occhi spalancati, morto. Qualcuno gli aveva infilato una cannula nella carotide e battito dopo battito il cuore aveva pompato il sangue fuori dal corpo, in un secchio sotto il tavolo. Il commissario contrasse il viso in una smorfia disgustata e distolse lo sguardo. Non ne poteva piú di sangue e morte. Era stufo di essere sempre un passo indietro rispetto ai criminali, di non poter evitare mai niente! Perché Ritter aveva ignorato tutti gli avvertimenti? Come aveva potuto prendere le minacce dei Kaltensee con tanta leggerezza? Per Bodenstein era inconcepibile che il desiderio di vendetta fosse piú forte del buonsenso. Se Thomas Ritter avesse rinunciato alla sua stramaledetta biografia e ai diari di Vera, sarebbe diventato padre e forse avrebbe avuto una vita lunga e felice! Il suono del cellulare lo riportò alla realtà.
«La Mercedes Classe M ha appena lasciato Doba» comunicò Ostermann. «Però non riesco a contattare Pia».
«Maledizione!». Bodenstein non si era mai sentito cosí impotente. Aveva sbagliato tutto. Doveva vietarle di andare in Polonia. Nicola aveva ragione: quello che era successo sessant’anni prima non li riguardava, dovevano solo far luce sugli ultimi omicidi.
«E Ritter?» domandò Ostermann. «L’avete trovato?».
«Sí. Morto».
«Merda! Sua moglie è qui sotto. Dice che se ne andrà solo dopo aver parlato con lei o con Pia».
Il commissario capo guardò il cadavere e il secchio pieno di sangue. Di colpo sentí un nodo allo stomaco. Possibile che anche la collega fosse morta? No, non voleva neanche pensarci.
«Continui a chiamarla. Provi anche col cellulare di Henning Kirchhoff». Con queste parole mise fine alla telefonata.
«Posso andare?» chiese Henri Améry.
«No, è sospettato di omicidio» rispose Bodenstein senza neanche guardarlo.
Poi, ignorando le sue proteste, lasciò la cantina. Cos’era successo in Polonia? Perché le due auto stavano tornando? Dove diavolo era finita Pia? Aveva promesso di farsi sentire! La dolorosa sensazione di cerchio alla testa, unita alla bocca impastata, gli ricordò improvvisamente che non aveva ancora mangiato nulla. In compenso aveva ingerito un’enorme quantità di caffè. Appena tornò all’aperto, fece un respiro profondo. La situazione gli era sfuggita di mano. Avrebbe voluto fare una lunga passeggiata per riordinare la mente, affollata da mille pensieri, ma sapeva di dover raggiungere Marleen Ritter in commissariato. Doveva trovare le parole giuste per informarla che era appena diventata vedova.
Pia rinvenne con un terribile dolore al collo; quasi non riusciva a deglutire. Aprí le palpebre e nella luce fioca riconobbe la cantina. Con la coda dell’occhio vide un movimento, aveva qualcuno alle spalle. Sentí un respiro ansimante e in un attimo ricordò tutto. Anja Moormann, la pistola, lo sparo, Auguste Nowak colpita al petto! Per quanto tempo era rimasta incosciente? Con orrore udí il clic di una sicura che veniva tolta. Avrebbe voluto gridare, ma dalla bocca le uscí un rantolo. La paura le attorcigliò le viscere. Chiuse gli occhi. Cosa avrebbe provato? Si sarebbe accorta della pallottola che le perforava il cranio? Sarebbe stato doloroso?
«Pia!». Sentendosi afferrare per le spalle, riaprí gli occhi e fu travolta da un’ondata di sollievo. Il volto che aveva davanti era quello di Henning. Si portò le mani alla gola e tossí.
«Come… Cosa…». Non riusciva a parlare. Lui, pallido come un cadavere, la strinse forte tra le braccia e cominciò a singhiozzare. Una vera sorpresa.
«Ho avuto paura di perderti» le mormorò tra i capelli.
«Ma… sei ferita! Hai la testa sporca di sangue».
Pia tremava da capo a piedi, il collo le faceva malissimo, ma la consapevolezza di essere scampata alla morte per un soffio la riempí di una gioia quasi folle. Poi le tornarono in mente Elard Kaltensee e Auguste Nowak. Si liberò dall’abbraccio dell’ex marito e si tirò su a fatica. Kaltensee era seduto nella sabbia tra le ossa dei parenti uccisi, con la madre tra le braccia e il viso rigato di lacrime.
«Mamma» sussurrò. «Mamma, ti prego… non morire!».
«Dov’è Anja Moormann?» chiese Pia sottovoce. «E il tizio a cui ho sparato?».
«Là. Ho visto che voleva spararti e l’ho steso con la torcia. La donna è scappata».
«Miriam?». La commissaria si guardò intorno e incontrò i suoi occhi spalancati per il terrore.
«Sto bene» disse l’amica con un filo di voce. «Dobbiamo chiamare un’ambulanza per la signora».
Camminando a quattro zampe, Pia si avvicinò al professore e alla madre. I soccorsi sarebbero arrivati troppo tardi, Auguste Nowak stava morendo. Dall’angolo della bocca le scendeva un rivolo di sangue. Aveva gli occhi chiusi, ma respirava ancora.
«Signora Nowak, mi sente?».
L’anziana aprí le palpebre; lo sguardo era incredibilmente lucido. La sua mano cercò quella del figlio che aveva perso sessant’anni prima nello stesso luogo. Elard Kaltensee gliela strinse e lei emise un sospiro. Dopo tanto tempo il cerchio si era finalmente chiuso.
«Heini?».
«Sono qui, mamma» rispose lui, controllando a stento la voce. «Sono qui con te. Andrà tutto bene. Ti rimetterai».
«No, tesoro». Auguste Nowak sorrise. «Sto morendo… Ma non devi… piangere, Heini… Non piangere… Va bene cosí… Torno dal mio… Elard».
Kaltensee le accarezzò il viso.
«Prenditi cura… di Marcus…». Per un attimo la signora fu sopraffatta dalla tosse. Dalla bocca le uscí una schiuma mista a sangue, gli occhi si appannarono. «Il mio ragazzo…».
Ancora un respiro profondo, poi la testa le cadde di lato.
«No!». Elard Kaltensee cercò di raddrizzarle il capo e la strinse forte a sé. «No, mamma! Non puoi morire!».
Singhiozzava come un bambino. Anche Pia aveva gli occhi umidi. In un impeto di solidarietà gli posò una mano sulla spalla. Continuando a stringere la madre, lui alzò lo sguardo e mostrò il viso bagnato di lacrime e distorto dal dolore.
«È morta in pace» sussurrò la commissaria. «Tra le braccia di suo figlio e vicino al resto della famiglia».
Nel piccolo locale attiguo alla stanza interrogatori Marleen Ritter si muoveva avanti e indietro come una tigre in gabbia. Ogni tanto lanciava un’occhiata al padre, che sedeva immobile dall’altra parte del vetro, l’aria stanca e lo sguardo perso nel vuoto. Sembrava una marionetta a cui erano stati tagliati i fili. Marleen aveva dovuto accettare di colpo ciò che per anni si era rifiutata di vedere: la nonna non era una signora buona e gentile, al contrario! Aveva mentito e ingannato a suo piacimento. Si fermò davanti al vetro e fissò il padre. Un uomo che aveva sempre fatto di tutto per soddisfare i capricci materni, per rendere Vera felice e ottenere la sua approvazione. Senza mai riuscirci. Di sicuro stava soffrendo, ora che sapeva di essere stato sfruttato vergognosamente. Eppure non le suscitava alcuna pietà.
«Siediti un attimo» disse Katharina.
«Non posso». Marleen scosse la testa. «Sto diventando matta». La Ehrmann le aveva raccontato tutto: le aveva parlato del baule, della biografia e dei diari che avevano fornito a Thomas la prova della falsa identità di Vera.
«Se gli è successo qualcosa, con mio padre ho chiuso» dichiarò in tono cupo. Prima che Katharina potesse rispondere, Jutta Kaltensee, la sua ex migliore amica, venne condotta nella stanza interrogatori. Siegbert alzò la testa.
«Sapevi tutto, vero?». Attraverso un altoparlante la sua voce si diffondeva anche nel locale accanto. Marleen strinse i pugni.
«A cosa ti riferisci?» chiese freddamente Jutta.
«All’omicidio di Robert. L’ha fatto uccidere lei per evitare che parlasse. E ha fatto ammazzare anche la sua amica. E Ritter? Volevate tutte e due che sparisse perché avevate paura di quello che avrebbe scritto nel suo libro».
«Non so di cosa stai parlando, Berti». La sorella si accomodò su una sedia e accavallò tranquillamente le gambe. Impassibile e sicura della propria intoccabilità.
«Tutta sua madre» mormorò Katharina.
«Sapevi che Thomas aveva sposato mia figlia» continuò Siegbert. «E sapevi che Marleen è incinta!».
«Se anche fosse?». Jutta alzò le spalle. «Non potevo immaginare che l’avreste rapito».
«Se avessi saputo la verità, mi sarei opposto».
«Come no!». Lei scoppiò in una risata sprezzante. «Tu odi Thomas, lo sanno tutti. L’hai sempre considerato una spina nel fianco».
Marleen era come paralizzata. Si udí bussare e nello stanzino entrò Bodenstein.
«Mio marito è stato rapito! Sono stati mio padre e mia zia! Hanno…».
Vedendo l’espressione del commissario, s’interruppe bruscamente. Intuí la brutta notizia ancora prima di sentirla. Le gambe cedettero, cadde in ginocchio e si mise a piangere.
A tarda sera Pia salí le scale del commissariato sentendosi come un ostaggio liberato dopo una lunga prigionia. I colleghi polacchi erano arrivati una ventina di minuti dopo la morte di Auguste Nowak e avevano portato tutti – Henning, Miriam, Elard Kaltensee e la commissaria – alla stazione di polizia di Gizycko. C’erano volute diverse telefonate tra la polizia locale e la dottoressa Engel per chiarire la situazione, ma alla fine Pia ed Elard avevano avuto il permesso di partire. Henning e Miriam erano rimasti a Gizycko per tornare il mattino dopo nella cantina e recuperare le ossa con l’aiuto degli esperti polacchi. Quando erano atterrati all’aeroporto di Francoforte, Behnke era già lí per prelevare entrambi. Il professor Kaltensee era stato subito accompagnato in ospedale da Marcus Nowak. Alle dieci Pia percorse il corridoio desolato e bussò alla porta di Bodenstein. Il commissario capo si alzò dalla scrivania e cogliendola alla sprovvista le diede un breve ma caloroso abbraccio, poi la prese per le spalle e la guardò in un modo che la mise a disagio.
«Grazie a Dio è tornata. Sono cosí contento di vederla».
«Non può aver sentito tanto la mia mancanza, sono stata via solo ventiquattr’ore». Per superare il momento d’imbarazzo, Pia cercò di scherzare. «Può anche lasciarmi andare, capo. Sto bene».
Con suo grande sollievo Bodenstein cambiò atteggiamento e tornò quello di sempre.
«A volte ventiquattr’ore sono troppe» disse, mollando la presa con un sorriso. «Mi vedevo già a combattere da solo contro le scartoffie».
Sorridendo a sua volta, Pia si scostò una ciocca dal viso.
«Tutto chiarito, vero?».
«Sembra di sí». Il commissario le fece cenno di sedersi. «Grazie al software di localizzazione, Vera Kaltensee e Anja Moormann sono state arrestate al confine tedesco–polacco. La Moormann ha già confessato. Oltre a Robert Watkowiak e Monika Krämer, ha ucciso anche Thomas Ritter».
«Non credevo che una come lei avrebbe confessato». Pia si toccò il bernoccolo dolorante all’altezza della tempia, dove la donna l’aveva colpita con la pistola automatica, e ripensò con un brivido al suo sguardo freddo come il ghiaccio.
«È stata una delle migliori spie della DDR. Aveva un bel po’ di crimini sulla coscienza» spiegò il commissario capo. «Con la sua testimonianza ha incastrato Siegbert Kaltensee. È stato lui a ordinare gli omicidi».
«Davvero? Credevo fosse stata Jutta».
«No, lei è troppo furba. Siegbert ha ammesso tutto. Abbiamo trovato gli effetti personali di Anita Frings a Mühlenhof, tranne quello che è stato infilato nello zaino di Watkowiak per far ricadere i sospetti su di lui. A proposito, ora sappiamo esattamente com’è stato ucciso. La Moormann lo ha ammazzato nella cucina di casa sua».
«Mio Dio, che donna mostruosa». Pia sapeva di essere stata molto fortunata; l’incontro con Anja Moormann avrebbe potuto finire nel peggiore dei modi. «Ma chi ha portato il cadavere nella casa di Königstein? Quello è stato un lavoro da dilettanti. Se invece di pulire di sotto l’avessero lasciato sul materasso al piano superiore, probabilmente non avrei notato nulla di strano».
«Sono stati gli uomini di Améry. Non si può dire che siano dei geni».
La commissaria trattenne a stento uno sbadiglio. Aveva bisogno di una doccia calda e di ventiquattr’ore di sonno ininterrotto. «C’è una cosa che ancora non mi è chiara: perché hanno ucciso Monika Krämer?».
«Semplice: per aumentare i sospetti nei confronti di Watkowiak. Il denaro che abbiamo trovato nello zaino proveniva dalla cassaforte di Anita Frings».
«E Vera Kaltensee? Siegbert non ha agito di testa sua, ha fatto quello che voleva la madre».
«Non possiamo dimostrarlo. E comunque per lui non cambierebbe niente. La procura ha intenzione di riaprire il caso di Eugen Kaltensee e di avviare un’indagine per l’omicidio di Danuta Watkowiak. La ragazza era entrata in Germania illegalmente, per questo nessuno ne ha mai denunciato la scomparsa».
«Ma Moormann sapeva di essere sposato con un’assassina? E dove diavolo è stato negli ultimi giorni?».
«La moglie l’ha chiuso nella vecchia cella frigorifera, dove abbiamo visto i bauli» spiegò Bodenstein. «Naturalmente conosceva il passato di Anja. Ha lavorato anche lui per la Stasi, come i suoi genitori».
«I suoi genitori?». Pia si grattò istintivamente la tempia col bernoccolo.
«È il figlio di Anita Frings. Ovvero “Katerchen”, l’uomo che andava a trovarla con regolarità e che la portava in giro sulla sedia a rotelle».
«Ma guarda».
Per un po’ rimasero seduti in silenzio.
«Però la corrispondenza che abbiamo trovato…». Pia aggrottò le sopracciglia. «Il DNA che collegava i nostri omicidi a due casi irrisolti in Germania orientale… era maschile! Ovviamente non è quello di Anja Moormann».
«La signora è una vera professionista. Per i suoi “incarichi” indossava una parrucca di capelli veri. Ogni volta ne staccava uno e lo lasciava sul luogo del crimine. Per sviare le indagini».
«Pazzesco». Scosse la testa, incredula. «La dottoressa Engel si è data molto da fare per chiarire la mia situazione coi colleghi polacchi. Non erano molto contenti della nostra iniziativa».
«Già» confermò il commissario capo. «Si è comportata in modo molto corretto. Credo che non sarà poi cosí male averla come capo».
Pia esitò un attimo. «E… l’altro problema?».
«Risolto anche quello» disse semplicemente Bodenstein. Si alzò, aprí l’armadio e tirò fuori una bottiglia con due bicchieri.
«Se Nowak e il professor Kaltensee fossero stati sinceri fin dall’inizio, sarebbe stato tutto molto piú facile». La commissaria lo guardò versare due dita di cognac nei bicchieri. «Ammetto che non mi ha mai sfiorato l’idea che potessero essere una coppia. Ero completamente fuori strada».
«Anch’io». Prese il bicchiere che lui le stava porgendo.
«A cosa brindiamo?» chiese con un sorrisetto.
«Se non sbaglio, abbiamo appena risolto… quindici omicidi. Piú i due casi di Dessau e Halle. Possiamo brindare a noi».
«Ci sto!». Pia alzò il bicchiere.
«Un attimo. Stavo pensando che d’ora in avanti potremmo anche fare come tutti gli altri colleghi e darci del tu. Che ne dice? Io mi chiamo Oliver».
Lei inclinò la testa e sorrise.
«Basta che poi non voglia brindare con baci e abbracci e cose simili».
«Per carità!» esclamò Bodenstein con aria divertita. Fece toccare i due bicchieri e mandò giú un sorso. «Il suo direttore di zoo mi torcerebbe il collo».
«Oh merda!». Pia abbassò di colpo il proprio cognac. «Mi sono dimenticata di Christoph! Dovevo andare a prenderlo all’aeroporto alle otto e mezza! Che ore sono?».
«Le undici meno un quarto».
«Accidenti! Non so il numero a memoria. E il mio cellulare sarà finito in qualche lago della Masuria!».
«Se me lo chiede gentilmente, le presto il mio» propose lui, magnanimo. «Ho ancora il numero di Christoph Sander in memoria».
«Non dovevamo darci del tu?».
«Dopo aver bevuto. Il suo cognac è ancora intatto». Pia lo fissò per un istante, poi sollevò il bicchiere e lo vuotò d’un fiato con una smorfia.
«Fatto. Adesso prestami il tuo cellulare, Oliver».
Le figlie di Christoph rimasero piuttosto sorprese quando, alle undici e mezzo, Pia si presentò alla loro porta. Il padre non si era fatto sentire; erano convinte che fosse andata lei a prenderlo. Annika provò a chiamarlo sul cellulare, che però era spento.
«Forse l’aereo è in ritardo». La secondogenita non sembrava molto preoccupata. «Si farà vivo».
«Va bene, grazie». Con il morale a terra, Pia si rimise al volante della Nissan e lasciò Bad Soden alla volta di Birkenhof. Bodenstein era già tornato da Cosima, che gli aveva perdonato lo “scivolone”. Henning e Miriam erano insieme in un albergo di Gizycko; di sicuro sarebbe successo qualcosa, si capiva che tra i due era scattata la scintilla. Elard Kaltensee era in ospedale accanto al suo Marcus. Solo lei era sola. Sperava che Christoph la stesse aspettando a casa, ma all’arrivo rimase molto delusa. Birkenhof era immersa nell’oscurità, davanti all’ingresso non c’era nessuna macchina. Sforzandosi di non piangere, salutò i cani e aprí la porta. Magari aveva provato inutilmente a chiamarla e dopo aver aspettato un po’ era andato a bere un drink con la sua bella collega di Berlino. Accidenti! Come aveva potuto dimenticarsi di lui? Accese la luce e lasciò cadere la borsa sul pavimento. Poi, vedendo la tavola apparecchiata con piatti e bicchieri del servizio buono, rimase senza fiato. In un secchiello pieno di ghiaccio mezzo sciolto era infilata una bottiglia di champagne, sui fornelli c’erano pentole e tegami coperti. Pia sorrise stupefatta. In soggiorno trovò Christoph profondamente addormentato sul divano e all’improvviso il cuore le si gonfiò di gioia.
«Ehi» sussurrò, inginocchiandosi vicino al divano. Lui aprí gli occhi e sbatté un paio di volte le palpebre, accecato dalla luce.
«Ehi. Mi dispiace per la cena, ormai sarà fredda».
«E a me dispiace di non essere venuta a prenderti. Avrei voluto avvisarti, ma ho perso il cellulare. Comunque abbiamo risolto tutto. Il caso è chiuso».
«Bene». Christoph allungò un braccio per sfiorarle dolcemente una guancia. «Sembri distrutta».
«Gli ultimi giorni sono stati molto stressanti».
«Mmh». La osservò attentamente. «Hai una voce strana. Cos’è successo?».
«Niente» rispose Pia con un’alzata di spalle. «La domestica dei Kaltensee ha cercato di strangolarmi nella cantina di un palazzo semidistrutto in Polonia».
«Ah». Sorrise, convinto che fosse uno scherzo. «Per il resto tutto okay?».
«Sí».
Christoph si sedette e allargò le braccia.
«Non puoi neanche immaginare quanto mi sei mancata».
«Davvero? Hai sentito la mia mancanza in Sudafrica?».
«Oh sí!». La strinse forte e la baciò. «Ogni minuto».