Domenica, 6 maggio 2007
Il suono del telefono accanto al letto la svegliò di soprassalto. In camera non c’era un filo di luce, l’aria era pesante. Intontita dal sonno, accese la lampada sul comodino e alzò il ricevitore.
«Si può sapere dove sei?». Era il suo ex marito e sembrava piuttosto alterato. «Qui aspettiamo solo te! Prima insisti perché si faccia in fretta e poi non ti presenti?».
«Santo cielo, Henning» mormorò Pia. «È ancora notte».
«Sono le nove e un quarto!» esclamò lui. «Datti una mossa».
Un secondo dopo aveva già interrotto la comunicazione. La commissaria strizzò gli occhi e guardò la sveglia. Aveva ragione, erano le nove e un quarto! Si scoprí, saltò giú dal letto e barcollò verso la finestra. La sera prima aveva abbassato completamente le tapparelle, cosa che non faceva mai. Ecco perché non si vedeva niente e si respirava a fatica. Con una doccia veloce si svegliò del tutto, ma si sentiva come se avesse perso l’autobus.
Il procuratore aveva autorizzato un’autopsia immediata per Robert Watkowiak. A dire il vero Pia l’aveva quasi costretto, sottolineando il fatto che le sostanze con cui l’uomo si era ucciso – piú o meno intenzionalmente – sarebbero rimaste in circolo per poco tempo. Un’attesa troppo lunga avrebbe pregiudicato l’esito degli esami. Henning non aveva reagito bene quando l’aveva chiamato per chiedergli di effettuare l’autopsia il giorno seguente. Come se tutto ciò non bastasse, quand’era tornata a casa, alle nove passate, aveva scoperto che i due puledri di un anno erano evasi dal recinto per andare a mangiare le mele ancora acerbe nel frutteto di Elisabethenhof. Solo verso le undici, dopo averli rincorsi ovunque, era riuscita a chiudere entrambi i cavalli nella stalla e a varcare la soglia di casa con quel briciolo di forza che ancora le rimaneva. Nel frigorifero aveva trovato uno yogurt scaduto e mezza forma di camembert. L’unica nota positiva era stata la telefonata di Christoph, alla fine della quale era letteralmente crollata dal sonno. Peccato che non si fosse svegliata in tempo per l’autopsia! Nell’armadio la biancheria pulita cominciava a scarseggiare, quindi raccolse quella sporca e la infilò nella lavatrice per un ciclo a sessanta gradi. Naturalmente saltò la colazione. Non aveva tempo neanche per i cavalli; purtroppo sarebbero dovuti rimanere nei box fino al suo ritorno da Francoforte.
Arrivò all’istituto di Medicina legale poco prima delle dieci. A rappresentare la procura c’era di nuovo Valerie Löblich, che non indossava un elegante tailleur come la volta precedente, bensí un paio di jeans e una t–shirt troppo grande. Pia ci mise un secondo a capire che la maglietta era di Henning. L’ovvia conclusione fu un duro colpo per la sua psiche già indebolita.
«Finalmente possiamo cominciare» fece lui senza altri commenti. All’improvviso la commissaria si sentiva un’estranea nella stanza in cui aveva trascorso tante ore con l’ex marito. Per la prima volta si rese conto di essere uscita completamente dalla vita di Henning. Sí, era stata lei a lasciarlo; si era trovata un altro uomo e ora doveva accettare che lui facesse altrettanto. Ma era comunque uno shock e non riusciva a sopportarlo, non nelle condizioni in cui era.
«Scusate» disse con un filo di voce. «Torno subito».
«No, resta qui!». Il tono imperioso di Henning non la fermò. Uscí dalla sala autopsie per rifugiarsi nella stanza accanto. Dorit, l’assistente di laboratorio che era venuta apposta per analizzare i campioni prelevati da Watkowiak, aveva già preparato il caffè. Pia se ne versò un po’ in una tazza di porcellana. Era amaro come il fiele. Dopo aver posato la tazza, chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie con le dita, cercando di allentare la tensione. Si sentiva piú stanca e demoralizzata che mai. Forse dipendeva solo dal fatto che era nei giorni del ciclo. Non voleva assolutamente piangere, ma le lacrime già pungevano sotto le palpebre. Se solo avesse potuto parlare e ridere con Christoph! Premette i palmi sugli occhi e si sforzò di trattenere il pianto.
«Va tutto bene?». La voce di Henning la fece trasalire. Lo sentí entrare e chiudere la porta.
«Sí» rispose, continuando a dargli le spalle. «È solo… stanchezza. Gli ultimi giorni sono stati duri».
«Possiamo rinviare l’autopsia a questo pomeriggio».
Era chiaro che voleva sbarazzarsi di lei e tornare a letto con la Löblich.
«No! Non è necessario».
«Guardami». Il suo tono era cosí gentile che in un istante gli occhi le si riempirono nuovamente di lacrime. Scosse la testa, cocciuta come un bambino. E Henning fece una cosa che non aveva mai fatto durante gli anni di matrimonio: l’abbracciò e la strinse forte a sé. Pia s’irrigidí. Non voleva mostrargli la propria debolezza, anche perché era convinta che poi Henning avrebbe raccontato tutto alla sua nuova fiamma.
«Non posso vederti cosí triste» sussurrò lui. «Cosa combina il tuo direttore di zoo? Perché non si prende cura di te?».
«Perché è in Sudafrica». A questo punto lasciò che Henning la prendesse per le spalle, la girasse e le alzasse il mento.
«Apri gli occhi» ordinò. Pia obbedí e si accorse con sorpresa che era davvero preoccupato.
«Ieri sera i puledri sono scappati dal recinto, Neuville si è fatto male. Ci sono volute due ore di inseguimenti per farli rientrare» spiegò a bassa voce, come se ciò potesse giustificare il penoso stato in cui si trovava. Di colpo le lacrime cominciarono a rigarle il viso. Henning la strinse di nuovo tra le braccia e le accarezzò la schiena con fare consolatorio.
«La tua nuova compagna potrebbe arrabbiarsi se ci vedesse cosí». Le parole furono attutite dal camice verde contro cui era appoggiata.
«Non è la mia compagna» replicò lui. «Che c’è? Sei gelosa?».
«Lo so, non ne ho il diritto. Però sí».
Henning rimase in silenzio per un attimo. Quando riprese a parlare, la sua voce era diversa.
«Okay, lasciamo perdere l’autopsia e andiamo a fare una bella colazione. Poi posso accompagnarti a Birkenhof e dare un’occhiata a Neuville».
Era un’offerta sincera, non un goffo tentativo di avvicinamento. Il suo ex marito era un vero amante dei cavalli, e infatti l’anno prima aveva visto nascere il puledro che ora si era fatto male. La prospettiva di passare la giornata in compagnia era allettante, ma Pia cercò di farsi forza e di resistere alla tentazione. Non voleva la compassione di Henning e non era giusto illuderlo solo perché si sentiva sola e abbandonata. No, non se lo meritava. Fece un respiro profondo e riprese il controllo.
«Grazie, sei molto gentile» disse, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. «Sono contenta che andiamo ancora d’accordo, ma non posso accettare. Devo andare in ufficio».
Non era vero, ma non suonava proprio come un rifiuto.
«Va bene». Henning sciolse l’abbraccio, sul volto un’espressione difficile da decifrare. «Finisci il caffè con calma. Prenditi un po’ di tempo. Ti aspetto».
Pia annuí e si chiese se fosse consapevole del doppio senso celato nelle sue parole.