Martedí, 8 maggio 2007

Arrivarono a Mühlenhof di prima mattina. Il cancello era spalancato e delle guardie non c’era piú traccia.

«Ora che Watkowiak è morto e Nowak si trova in ospedale, la signora non ha piú paura» osservò Pia.

Bodenstein annuí con aria distratta; durante il viaggio non aveva detto una sola parola. Ad aprire la porta fu una donna dal fisico asciutto con una pratica acconciatura maschile. Li informò che in casa non c’era nessuno della famiglia Kaltensee. In un attimo il commissario capo cambiò completamente atteggiamento e sfoderando il suo affascinante sorriso chiese alla signora se aveva cinque minuti per rispondere a qualche domanda. Lei disse subito di sí, poteva dedicargli anche piú di cinque minuti. Pia sapeva che in certe situazioni era meglio lasciare la parola al capo. Nessuna donna poteva resistere al suo fascino, neanche Anja Moormann, la moglie del tuttofare di Vera Kaltensee, che prestava a sua volta servizio a casa della “padrona” – questa espressione strappò un sorriso divertito a Pia – da piú di quindici anni. I coniugi abitavano in una casetta all’interno della proprietà e ricevevano periodicamente i due figli ormai grandi con le rispettive famiglie.

«Conosce anche il signor Nowak?» domandò Bodenstein.

«Sí, certo». Anja Moormann annuí prontamente. Era davvero molto magra, non aveva un filo di grasso. La maglietta bianca e aderente evidenziava un seno appena accennato, sopra le clavicole sporgenti la pelle lentigginosa era tesissima. Pia le diede un’età compresa tra i quaranta e i cinquant’anni.

«Nel periodo in cui hanno lavorato qui, ho cucinato per lui e per tutta la sua squadra. Il signor Nowak è un uomo davvero gentile. Ed è anche bello!». Dalla bocca le uscí una risatina che stonava con il suo aspetto. O il labbro superiore era troppo corto o gli incisivi erano troppo grandi; in ogni caso Pia la paragonò d’istinto a un coniglio ansimante. «Non ho ancora capito perché la padrona è stata cosí ingiusta nei suoi confronti».

Anja Moormann poteva non essere particolarmente sveglia, però era curiosa e loquace. La commissaria era convinta che a Mühlenhof non si muovesse foglia senza che lei lo sapesse.

«Ricorda il giorno dell’incidente?» le chiese, riflettendo contemporaneamente sul suo accento. Di dov’era? Svevia? Sassonia? Saarland?

«Oh sí. Il professor Kaltensee e il signor Nowak erano nel cortile davanti al mulino e stavano guardando dei progetti. Gli avevo appena portato il caffè quando è arrivata la padrona insieme al dottor Ritter. Mio marito era andato a prenderli all’aeroporto». La domestica ricordava ogni singolo particolare. Si capiva che era molto contenta di trovarsi al centro dell’attenzione, forse perché non le capitava spesso. «La padrona è scesa dall’auto e si è arrabbiata moltissimo vedendo gli uomini nel mulino. Il signor Nowak ha provato a fermarla, ma lei lo ha spinto via ed è entrata di corsa. È salita subito al primo piano, ma il pavimento d’argilla era ancora fresco e ha ceduto sotto il suo peso. Urlava come una pazza».

«Perché è entrata nel mulino?».

«Per qualcosa nel sottotetto» spiegò Anja Moormann. «Comunque la padrona continuava a urlare e il signor Nowak stava lí impalato senza dire niente. Poi, nonostante il braccio rotto, lei si è trascinata fino all’officina».

«Fino all’officina? Perché?» chiese ancora Pia mentre la signora prendeva fiato. «E cosa c’era nel sottotetto?».

«Oh, un sacco di roba vecchia. La padrona non ha mai buttato niente. Si trattava soprattutto di bauli. Ce n’erano sei, tutti impolverati e pieni di ragnatele. Prima di rifare il pavimento gli uomini di Nowak avevano portato i bauli e tutto il resto nell’officina».

Anja Moormann aveva incrociato le braccia sul petto e premeva distrattamente i pollici contro i bicipiti supersviluppati.

«In officina hanno scoperto che mancava un baule» continuò. «A quel punto hanno ricominciato a urlare, e quando Ritter si è immischiato, la padrona è letteralmente esplosa. Gli ha gridato cose che non si possono ripetere».

Scosse la testa.

«Quando è arrivato il medico, la padrona ha urlato a Ritter che se non ritrovava il baule entro ventiquattr’ore si sarebbe dovuto cercare un altro lavoro».

«Ma che c’entrava Ritter?» domandò il commissario. «Era all’estero con la pa… con la signora Kaltensee, no?».

«Già» confermò la Moormann con un’alzata di spalle. «Ma una testa doveva cadere. Non potendo buttare fuori il professor Kaltensee, se l’è presa con il povero Nowak e con Ritter. Ha cacciato via il suo assistente dopo diciotto anni! Coprendolo di insulti, per di piú. Adesso vive in un misero monolocale e non può permettersi neanche un’auto. Tutto per un vecchio baule da viaggio!».

L’ultima frase risvegliò un vago ricordo nella mente di Pia, che però non riuscí a metterlo a fuoco.

«Dove sono ora i bauli?».

«Sempre in officina».

«Può mostrarceli?».

Anja Moormann ci pensò su un attimo e arrivò alla conclusione che non poteva esserci niente di male nel mostrare i bauli alla polizia. Bodenstein e Pia la seguirono intorno alla casa fino ai bassi fabbricati di servizio annessi all’abitazione. L’officina era in perfetto ordine. Sopra i banchi da lavoro in legno erano appesi tantissimi strumenti, i cui contorni erano stati tracciati accuratamente sulle pareti con il pennarello nero. La domestica aprí una porta.

«Ecco qua» disse. Bodenstein e Pia entrarono nel locale adiacente – una vecchia cella frigorifera, come si capiva dai muri piastrellati e dai tubi fissati al soffitto – e videro cinque bauli da viaggio ricoperti di polvere. All’improvviso la commissaria si rese conto di sapere dov’era il sesto. Anja Moormann continuò a chiacchierare allegramente e raccontò dell’ultima volta che aveva incontrato Marcus Nowak. Poco prima di Natale si era presentato a Mühlenhof e aveva detto di dover consegnare un regalo, ma una volta entrato con questa scusa si era diretto senza esitazione verso la sala dove la padrona e i suoi amici erano riuniti per la solita serata patriottica.

«Serata patriottica?» ripeté Bodenstein, perplesso.

«Sí». La domestica annuí.

«S’incontravano una volta al mese. Goldberg, Schneider, la signora Frings e la padrona. Quando il professor Kaltensee era via, si vedevano qui. Altrimenti a casa di Schneider».

Pia lanciò un’occhiata al suo capo. Era tutto molto interessante, ma al momento voleva sapere soprattutto di Nowak.

«Mmh. Poi cos’è successo?».

«Beh…». La Moormann si bloccò in mezzo all’officina e si grattò pensosamente la testa. «Il signor Nowak ha fatto notare alla padrona che doveva ancora pagargli la ristrutturazione del mulino. Si è espresso in modo molto garbato, l’ho sentito con le mie orecchie, ma la padrona è scoppiata a ridere e gli ha fatto una ramanzina come…».

S’interruppe a metà frase. Da dietro l’angolo della casa era spuntata una limousine Maybach. Facendo scricchiolare sotto le gomme la ghiaia rastrellata con cura, la grossa automobile passò proprio davanti all’officina e si fermò a due o tre metri di distanza. Attraverso i vetri oscurati Pia scorse una figura sul sedile posteriore, o almeno credette di scorgerla. Dalla limousine uscí solo Moormann, il tuttofare dal viso equino, in perfetta divisa da autista. Dopo aver chiuso la macchina col telecomando, si avvicinò a passo deciso.

«Mi dispiace, ma la signora Kaltensee è ancora indisposta». Pia capí subito che non era sincero, e infatti un secondo dopo notò uno scambio di occhiate tra l’uomo e la moglie. Com’era lavorare per persone ricche che ti costringevano a mentire o a tenere la bocca chiusa? Forse sotto sotto i due domestici odiavano la padrona. Dopotutto Anja Moormann non si era dimostrata particolarmente leale.

«Allora le porti i miei saluti» disse Bodenstein. «Mi rifarò vivo domani».

Moormann annuí. Poi, mentre il commissario e Pia si allontanavano, i due coniugi rimasero fermi davanti alla porta dell’officina e li seguirono con lo sguardo.

«Ha mentito» sussurrò Pia.

«Sí, sono d’accordo» rispose Bodenstein. «La signora è seduta in macchina».

«Andiamo là e apriamo la portiera, cosí le facciamo fare una bella figuraccia».

Lui scosse la testa.

«No, tanto non ci scappa. Per il momento può anche crederci stupidi».

Per l’incontro Thomas Ritter aveva suggerito il Caféhaus Siesmayer, nel Palmengarten di Francoforte, probabilmente perché si vergognava del suo appartamento. Quando entrarono nel locale, l’ex assistente di Vera Kaltensee era già seduto a uno dei tavoli dell’area fumatori. Non appena vide Bodenstein, spense la sigaretta nel posacenere e scattò in piedi. Pia gli diede circa quarantacinque anni. Viso spigoloso e leggermente asimmetrico, naso prominente, occhi azzurri un po’ troppo infossati e folti capelli ingrigiti prima del tempo: nel complesso non era male, ma di certo non rispettava i canoni della bellezza tradizionale. Il suo volto comunque aveva qualcosa che poteva anche attirare un secondo sguardo da parte delle donne. Ritter la squadrò da capo a piedi, ma non rimase molto colpito da ciò che vide e spostò di nuovo l’attenzione su Bodenstein.

«Preferite un tavolo per non fumatori?».

«No, questo va benissimo». Il commissario si accomodò sulla panca rivestita di pelle e andò dritto al punto.

«Stiamo cercando di risolvere cinque omicidi collegati alla sua ex datrice di lavoro. Nel corso delle indagini è emerso piú volte il suo nome. Cosa può dirci della famiglia Kaltensee?».

«Vi interessa qualcuno in particolare?». L’uomo inarcò le sopracciglia e si accese un’altra sigaretta. Il posacenere conteneva già tre mozziconi. «Sono stato l’assistente personale della signora Kaltensee per diciotto anni. So moltissime cose su di lei e sulla sua famiglia».

Si avvicinò una cameriera col menu; sembrava avesse occhi solo per Ritter. Bodenstein ordinò un caffè, Pia una coca light.

«Un altro latte macchiato?» chiese la giovane all’ex assistente di Vera Kaltensee. Lui annuí con disinvoltura, poi lanciò un’occhiata a Pia come per accertarsi che avesse notato il modo in cui ammaliava le donne.

Idiota, pensò la commissaria sorridendo.

«Cosa ha provocato la rottura tra lei e la signora Kaltensee?» domandò Bodenstein.

«Non c’è stata nessuna rottura. Dopo diciotto anni anche il lavoro piú interessante del mondo perde il suo fascino. Volevo cambiare».

«Ho capito». Il commissario finse di credergli. «Posso sapere cosa fa adesso?».

«Certo!». Ritter sorrise e incrociò le braccia sul petto. «Lavoro come redattore per una rivista di lifestyle, e inoltre scrivo libri».

«Sul serio? È la prima volta che incontro un vero scrittore». Pia gli rivolse uno sguardo di ammirazione, che lui accettò con evidente compiacimento. «Qual è il suo genere?».

«Scrivo soprattutto romanzi». Una risposta piuttosto vaga. Nel frattempo aveva accavallato le gambe nell’inutile tentativo di assumere un atteggiamento rilassato. Lo sguardo andava continuamente al cellulare appoggiato sul tavolo vicino al posacenere.

«A dire il vero, gli altri ci hanno raccontato che la separazione dalla signora Kaltensee non è stata consensuale. Perché è stato licenziato subito dopo l’incidente al mulino?» chiese Bodenstein.

Ritter rimase in silenzio. Il pomo d’Adamo si muoveva freneticamente su e giú. Credeva davvero di poter ingannare la polizia?

«Il licenziamento è arrivato dopo una lite che, a quanto ci hanno detto, riguardava un baule dal contenuto misterioso. Ne sa qualcosa?».

«Sono solo chiacchiere» replicò l’uomo con un gesto irritato. «Tutta la famiglia era gelosa del mio ottimo rapporto con Vera. Mi consideravano una spina nel fianco, avevano paura che la influenzassi troppo. La separazione è avvenuta in modo amichevole».

Era talmente convincente che Pia non avrebbe avuto il minimo dubbio senza la testimonianza della signora Moormann.

«Cos’aveva di tanto importante quel baule?». Bodenstein si portò la tazza alle labbra e bevve un sorso di caffè. Gli occhi di Ritter furono attraversati da un bagliore, cosa che non sfuggí alla commissaria. Le sue dita continuavano a giocherellare con le sigarette. Pia avrebbe voluto portargli via il pacchetto, il suo nervosismo era contagioso.

«Non ne ho idea» disse l’ex assistente. «È vero, è sparito uno dei bauli conservati nel sottotetto del mulino, ma io non ne so niente. Non l’avevo mai visto».

All’improvviso il ragazzo dietro il bancone fece cadere una pila di piatti, che s’infransero rumorosamente sul pavimento di granito. Ritter trasalí e sbiancò come se gli avessero sparato. Aveva davvero i nervi a fior di pelle.

«Non ha proprio la minima idea di che cosa ci fosse in quel baule?» insistette Bodenstein. Per tutta risposta l’uomo fece un respiro profondo e scosse la testa. Era chiaro che stava mentendo. Ma perché? Si vergognava? O forse credeva che parlando avrebbe attirato i sospetti su di sé? Senza dubbio aveva subito un grave torto da parte di Vera Kaltensee. Qualunque uomo con un briciolo di autostima avrebbe avuto difficoltà ad accettare l’umiliazione di un licenziamento cosí plateale.

«Che tipo di auto guida?» chiese Pia, cambiando inaspettatamente discorso.

«Perché?». Ritter la fissò con aria seccata e fece per prendere un’altra sigaretta, scoprendo però che erano finite.

«Semplice curiosità». La commissaria infilò una mano nella borsa e mise sul tavolo un pacchetto di Marlboro già iniziato. «Prenda pure».

Lui esitò un attimo, poi accettò l’offerta.

«Mia moglie ha una BMW Z3. A volte la uso anch’io».

«L’ha usata anche lo scorso giovedí?».

«Può darsi». Ritter accese la sigaretta e diede un lungo tiro. «Perché vuole saperlo?».

Pia gettò uno sguardo a Bodenstein e decise di rischiare. Forse l’uomo con l’auto sportiva era proprio Ritter.

«C’è un testimone che l’ha vista con Robert Watkowiak» disse incrociando le dita. «Di cosa avete parlato?».

Un sussulto quasi impercettibile le fece capire che aveva colpito nel segno.

«Perché me lo chiede?» domandò lui con aria diffidente, confermando cosí la sua ipotesi.

«Probabilmente è stato uno degli ultimi a parlare con Watkowiak. Pensiamo che sia lui l’assassino di Goldberg, Schneider e Frings. Forse sa già che si è ucciso lo scorso weekend con un’overdose di farmaci».

Per un istante Ritter sembrò sollevato.

«Sí, l’ho sentito». Emise uno sbuffo di fumo dalle narici. «Comunque non c’è molto da dire. Robert mi ha chiamato perché aveva un problema. Voleva che lo tirassi fuori dai guai, come avevo già fatto piú di una volta su richiesta di Vera. Ma ormai non potevo piú aiutarlo».

«E ci ha messo due ore a farglielo capire? Non credo proprio».

«Può anche non crederci, ma è la verità».

«Ha fatto visita a Goldberg il giorno prima che fosse ucciso. Perché?».

«Andavo spesso a trovarlo» rispose Ritter, guardandola negli occhi senza battere ciglio. «Non mi chieda di che cosa abbiamo parlato quella sera perché non me lo ricordo».

«Sta mentendo da un quarto d’ora» affermò lei. «Perché? Ha qualcosa da nascondere?».

«Non sto mentendo. E no, non ho niente da nascondere».

«Allora ci dica di che cosa ha parlato con Goldberg e Watkowiak».

«Non lo so. Del piú e del meno, immagino. Altrimenti me ne ricorderei».

«Conosce Marcus Nowak?» s’intromise Bodenstein.

«Nowak il restauratore? L’ho incontrato qualche volta. Direi che lo conosco piú che altro di vista. Perché?».

«Strano» osservò Pia, prendendo il taccuino dalla borsa. «Qui tutti si conoscono in modo superficiale».

Tornò indietro di qualche pagina.

«Ah, ecco! Secondo la moglie, dopo l’incidente al mulino – quello che ha portato al suo improvviso licenziamento – lei e il professor Kaltensee siete andati piú volte da Marcus Nowak. I vostri incontri sono durati ore». A queste parole Ritter mostrò nuovamente segni di disagio. Era tanto superbo da credersi piú intelligente degli altri, soprattutto della polizia, ma aveva commesso l’errore di sottovalutare la commissaria e ora se ne stava rendendo conto. Diede un’occhiata all’orologio e decise di battere in ritirata.

«Mi dispiace, ma devo tornare in redazione». Si sforzò di sorridere. «Ho un impegno importante».

«Certo». Pia annuí. «Non si preoccupi, vada pure. Continueremo questo discorso con la signora Kaltensee. Sono sicura che lei ci dirà perché è stato licenziato. Potrebbe addirittura aiutarci a capire di cosa ha parlato con Goldberg e Watkowiak».

Ritter smise di sorridere, ma non fiatò. La commissaria gli porse un biglietto da visita.

«Ci chiami se le viene voglia di raccontare la verità».

«Come ha capito che l’uomo della gelateria poteva essere Ritter?» chiese Bodenstein mentre attraversavano il Palmengarten per tornare alla macchina.

Pia alzò le spalle. «Intuito. Mi sembrava il tipo da auto sportiva».

Per un po’ camminarono in silenzio.

«Perché ci ha mentito? Non riesco a credere che dopo diciotto anni Vera Kaltensee abbia licenziato in tronco il suo assistente, che conosce un sacco di cose su di lei, solo perché è sparito un baule. C’è dietro qualcos’altro».

«Sí, ma cosa? Chi potrebbe saperlo?» rifletté il commissario.

«Elard Kaltensee» suggerí Pia. «Dovremmo tornare a trovarlo. Il baule mancante è nella sua camera, proprio accanto al letto».

«Quando è entrata nella camera di Elard Kaltensee?». Bodenstein si fermò di colpo e la guardò con la fronte corrugata. «E perché non ha parlato subito del baule?».

«Mi è venuto in mente nell’officina di Mühlenhof. Comunque ne sto parlando adesso».

Lasciato il parco e attraversata Siesmayerstraße, il commissario capo sbloccò le portiere dell’auto con il telecomando. Nel momento stesso in cui impugnò la maniglia per salire dalla parte del passeggero, Pia posò lo sguardo su un edificio al di là della strada. Era un elegante palazzo ottocentesco con la facciata ben ristrutturata; di sicuro i grandi appartamenti al suo interno avevano un valore enorme sul mercato immobiliare.

«Guardi là. Non è il nostro bugiardo patentato?».

Il commissario capo si voltò.

«Già, è proprio lui».

Ritter teneva il cellulare tra l’orecchio e la spalla e armeggiava con un mazzo di chiavi davanti alle cassette per le lettere. Un attimo dopo, sempre parlando al telefono, aprí il portone ed entrò. Bodenstein richiuse la portiera con un colpo. Insieme attraversarono la strada e controllarono i nomi all’ingresso.

«Nessuna redazione». Pia indicò una delle targhette di ottone. «Però c’è qualcuno che si chiama M. Kaltensee. Cosa diavolo sta succedendo?».

«Lo scopriremo» rispose il commissario, buttando indietro la testa per guardare la facciata. «Ma prima andiamo dal suo sospettato preferito».

Friedrich Müller–Mansfeld era un uomo alto e magro con i capelli bianchi e una bella chierica cosparsa di macchie senili. Aveva un viso rugoso e allungato e una vecchia montatura con lenti spesse dietro cui gli occhi cerchiati di rosso apparivano incredibilmente grandi. Venerdí mattina era andato dalla figlia, che viveva sul lago di Costanza, ed era tornato solo lunedí sera. Il suo nome era uno degli ultimi nella lunga lista di ospiti e dipendenti della Taunusblick da interrogare. Kathrin Fachinger non nutriva grandi speranze, era sicura che avrebbe ripetuto piú o meno quello che avevano già detto le altre trecentododici persone. Gli fece comunque le solite domande. Per sette anni il vecchio Müller–Mansfeld aveva vissuto porta a porta con Anita Frings e ora sembrava particolarmente colpito dalla notizia del suo omicidio.

«L’ho vista la sera prima di partire» dichiarò con voce roca e tremolante. «Sembrava di ottimo umore»..

Si strinse il polso destro con la sinistra, ma non riuscí a fermare il tremito.

«Parkinson» spiegò. «Di solito non ho problemi, ma oggi sono un po’ stanco per il viaggio».

«Cercherò di fare in fretta» assicurò lei in tono gentile.

«No, non si preoccupi. Ci metta tutto il tempo che vuole». Per un istante i suoi occhi chiari luccicarono. «È un piacere parlare con una signorina cosí bella. Qui sono sempre circondato da vecchie».

Kathrin sorrise.

«Bene. Ha detto di aver visto la signora Frings la sera del 3 maggio. Era sola o in compagnia?».

«Da sola faceva fatica a muoversi. Quella sera c’era uno spettacolo nel parco, qui intorno era pieno di gente. Anita era in compagnia dello stesso uomo che le faceva visita regolarmente».

La poliziotta drizzò le orecchie.

«Per caso ricorda a che ora li ha visti?».

«Certo! Ho il Parkinson, non l’Alzheimer».

Era una battuta, ma Kathrin Fachinger se ne accorse in ritardo perché il viso dell’uomo rimase impassibile.

«Sa che sono di Berlino Est?» continuò lui. «Insegnavo Fisica applicata alla Humboldt–Universität. Durante il Terzo Reich mi hanno tagliato fuori perché simpatizzavo per i comunisti, allora sono andato all’estero e ci sono rimasto per diversi anni. Poi nella DDR io e la mia famiglia ci siamo trovati bene».

«Immagino» fece lei, ascoltandolo solo per educazione. Non capiva dove volesse arrivare.

«Conoscevo di persona tutti i membri piú importanti del Partito socialista unificato. In realtà non mi erano molto simpatici, ma non importava. Volevo solo proseguire la mia attività di ricerca. Alexander, il marito di Anita, era un funzionario “speciale” del ministero della Sicurezza di Stato. Si occupava di operazioni segrete per il procacciamento di valuta estera…».

Kathrin Fachinger si raddrizzò di colpo e lo guardò attentamente.

«Conosceva già la signora Frings?».

«Sí, non gliel’ho detto?». Il vecchio ci pensò su, poi alzò le spalle. «Piú che altro conoscevo suo marito. Durante la guerra Alexander Frings lavorava nell’Abwehr, precisamente nella sezione Eserciti stranieri orientali. Era uno stretto collaboratore del generale Reinhard Gehlen. L’ha mai sentito nominare?».

Lei scosse la testa e continuò a prendere appunti, maledicendosi per aver lasciato il registratore sulla scrivania.

«Come agente segreto, Frings conosceva molto bene i russi. Nel maggio del 1945 Gehlen e i suoi uomini si arresero agli americani e confluirono in quella che sarebbe diventata la CIA. Qualche anno dopo, con la benedizione degli Stati Uniti, venne fondata l’Organizzazione Gehlen, che diede poi origine all’attuale BND». Friedrich Müller–Mansfeld scoppiò in una risata roca, che degenerò in un attacco di tosse. Ci volle un po’ prima che potesse riprendere il discorso. «In poco tempo tanti nazisti convinti si trasformarono in democratici altrettanto convinti. Frings non andò negli Stati Uniti, preferí restare nella zona di influenza sovietica. Con l’approvazione e il sostegno degli americani entrò nel ministero della Sicurezza di Stato e diventò procacciatore di valuta pregiata per la DDR, ma rimase comunque in contatto con il CIC, la CIA e Gehlen».

«Come fa a essere cosí informato?» domandò Kathrin Fachinger, sorpresa.

«Ho ottantanove anni» rispose l’uomo. «Nella mia vita ho visto e sentito tante cose, e molte le ho anche dimenticate, ma Alexander Frings mi è rimasto impresso. Parlava perfettamente sei o sette lingue, era molto intelligente e istruito e faceva il doppio gioco. Era il referente di moltissime spie del blocco sovietico, aveva piena libertà di movimento e in Occidente conosceva tutti quelli che contavano a livello politico ed economico. Aveva molti amici soprattutto nella lobby delle armi».

Fece una pausa e si massaggiò il polso ossuto.

«Sinceramente non so cos’abbia trovato di tanto speciale in Anita. A parte la bellezza esteriore, ovvio».

«Cosa intende?».

«Era una donna fredda come il ghiaccio. Girava voce che avesse fatto la sorvegliante nel campo di concentramento di Ravensbrück e che non volesse trasferirsi a ovest per paura di essere riconosciuta da qualche ex prigioniera. Frings la conobbe nel 1945 a Dresda. Dato che allora aveva già contatti sia con gli americani che coi russi, sposandola la mise al riparo da qualunque azione penale. Anita cambiò cognome e mentalità, rinunciò all’ideologia nazista ed entrò a sua volta nel ministero della Sicurezza di Stato. Però…». Müller–Mansfeld fece una risatina maligna. «Aveva un debole per i beni di consumo occidentali, e infatti a Wandlitz la conoscevano tutti come “Miss America”. Un soprannome che ha sempre odiato».

«Cosa sa dell’uomo che ha visto con lei l’altra sera?».

«Anita riceveva molte visite. La sua vecchia amica Vera veniva a trovarla spesso. E a volte si faceva vedere anche il professore».

La giovane poliziotta cercò di pazientare mentre il vecchio frugava nei ricordi e con la mano tremante si portava un bicchiere d’acqua alle labbra.

«Si paragonavano ai quattro moschettieri» disse infine con un’altra risata roca e beffarda. «S’incontravano due volte all’anno a Zurigo, anche dopo che Anita e Vera erano rimaste vedove».

«Di chi sta parlando?» chiese lei, confusa. «Chi sono questi quattro moschettieri?».

«I quattro vecchi amici d’infanzia. Si conoscevano fin da piccoli. Anita, Vera, Oskar e Hans».

«Oskar e Hans?».

«Sí, il commerciante d’armi e l’agente del fisco».

«Goldberg e Schneider?». Kathrin Fachinger si piegò in avanti. «Li conosceva?».

Gli occhi del vecchio scintillarono di divertimento.

«Non può neanche immaginare quanto sia difficile passare il tempo in un ospizio, anche in uno lussuoso e confortevole come questo. Anita amava parlare. Visto che non aveva parenti, ero io il suo confidente. Di me si fidava. Dopotutto eravamo entrambi dell’Est. Era una donna furba, ma non quanto la sua amica Vera. Quella sí che è una volpe. Guardi dov’è arrivata. Mica male per una semplice ragazza venuta dalla Prussia orientale».

Si sfregò le nocche, pensieroso.

«La scorsa settimana Anita era molto agitata, ma non mi ha detto perché. Ha ricevuto un sacco di visite. Il figlio di Vera, quello con la testa pelata, è venuto piú di una volta. E anche sua sorella, la deputata. Sono andati giú in caffetteria con Anita e ci sono rimasti ore. E poi “Katerchen”… Lui veniva regolarmente. La portava in giro sulla sedia a rotelle…».

«Katerchen?».

«Quello giovane. Lei lo chiamava cosí».

Kathrin si domandò cosa potesse significare “giovane” per un ottantanovenne.

«Me lo può descrivere?».

«Mmh… Occhi marroni. Magro. Altezza media. Viso anonimo. La spia perfetta». Müller–Mansfeld sorrise. «Oppure un banchiere svizzero».

«È lo stesso che ha visto giovedí sera?». La giovane investigatrice tentò di controllarsi, anche se sotto sotto fremeva d’impazienza. Bodenstein sarebbe stato molto contento.

«Sí». L’uomo annuí e lei prese subito il cellulare per cercare la foto di Marcus Nowak che Ostermann le aveva inviato mezz’ora prima.

«È questo?». Gli porse il telefonino e aspettò che si tirasse su gli occhiali per osservare attentamente il display da distanza ravvicinata.

«No, ma ho visto anche lui. La stessa sera, se non sbaglio».

Corrugò la fronte, sforzandosi di ricordare.

«Sí, è stato giovedí verso le dieci e mezza. Lo spettacolo teatrale era appena finito e stavo andando a prendere l’ascensore. Lui era nell’atrio, sembrava stesse aspettando qualcuno. Mi è sembrato molto nervoso. Continuava a guardare l’orologio».

«È sicuro che si trattasse proprio di quest’uomo?» chiese la poliziotta alzando il cellulare.

«Sicurissimo. Ho un’ottima memoria per le facce».

Non avendo trovato il professor Kaltensee al Kunsthaus, Pia e Bodenstein tornarono al commissariato. Ostermann li accolse con una brutta notizia: il procuratore non aveva autorizzato la perquisizione dei veicoli di Nowak poiché riteneva che le motivazioni fossero insufficienti.

«Ma all’ora del delitto era davanti alla casa in cui abbiamo trovato il cadavere di Watkowiak!» esclamò Pia. «E una delle sue macchine è stata vista di fronte all’abitazione di Schneider!».

Bodenstein si versò del caffè.

«Novità dall’ospedale?». Fin dalle prime ore del mattino fuori dalla stanza di Nowak c’era un agente di guardia che prendeva nota di tutte le visite.

«Stamattina è passata la moglie» rispose Ostermann. «A mezzogiorno, la nonna e uno dei suoi dipendenti».

«Tutto qui?». Pia era delusa. Non stavano facendo progressi.

«Ho scoperto tutto il possibile sulla KMF». Il collega frugò tra i documenti che aveva accumulato, finché non trovò il fascicolo giusto. Eugen Kaltensee si era impossessato dell’azienda negli anni Trenta, dopo che il suo capo – ebreo – aveva capito che le cose si stavano mettendo male ed era scappato dalla Germania con tutta la famiglia. Si trattava di un comportamento deprecabile, ma piuttosto normale per quel periodo. Kaltensee aveva usato le invenzioni del predecessore per l’industria bellica, si era espanso in tutto l’Est e aveva guadagnato una fortuna. In quanto fornitore della Wehrmacht era anche membro del Partito nazionalsocialista. Era stato uno dei principali profittatori della guerra.

«Come lo sai?» lo interruppe Pia, meravigliata.

«Ci fu un processo» spiegò lui. «Dopo la guerra il precedente proprietario, Josef Stein, chiese la restituzione dell’azienda. Pare che Kaltensee avesse firmato una dichiarazione con cui s’impegnava in tal senso, dichiarazione che però, guarda caso, non si trovava piú. Si andò in giudizio e Stein ottenne una parte delle quote. La storia fece scalpore, anche perché venne fuori che Kaltensee aveva sfruttato la manodopera dei campi di concentramento nei suoi stabilimenti orientali. C’erano diverse prove, ma fu comunque scagionato da ogni accusa».

Ostermann sorrise soddisfatto.

«Ho rintracciato il vecchio procuratore della KMF, che è andato in pensione cinque anni fa. Non mi ha parlato granché bene di Vera e Siegbert Kaltensee. Sembra che gli abbiano dato il benservito senza tanti complimenti. Mi ha raccontato tutta la storia dell’azienda, fin nei minimi dettagli».

Verso la metà degli anni Ottanta erano sorti gravi contrasti. Vera e Siegbert volevano maggiore influenza e tramavano alle spalle di Eugen Kaltensee. Quest’ultimo aveva quindi modificato la situazione, adottando un nuovo statuto e assegnando i diritti di voto a parenti e amici in modo del tutto arbitrario. Una decisione drastica che era ancora motivo di scontro all’interno della famiglia. Siegbert e Vera possedevano il venti per cento ciascuno, Elard, Jutta, Schneider e la Frings il dieci, Goldberg l’undici, Watkowiak il cinque e una donna di nome Katharina Schmunck il quattro per cento. Prima che potesse fare altri cambiamenti, Eugen Kaltensee era caduto dalla scala della cantina e si era rotto il collo.

All’improvviso il cellulare di Bodenstein suonò. Era Kathrin Fachinger. «Capo, ho grandi novità!» gridò tutta emozionata. Il commissario fece cenno a Ostermann di aspettare un attimo, poi ascoltò con attenzione il racconto della collaboratrice piú giovane.

«Ottimo lavoro, Fachinger» disse infine. Chiuse la telefonata, guardò gli altri e sorrise.

«Ora potremo arrestare Nowak e perquisire sia la casa che l’azienda».

23 agosto 1942. Non scorderò mai questo giorno! Sono diventata zia! Che emozione! Alle dieci e un quarto di questa sera Vicky ha dato alla luce un bel maschietto. E io ero presente! Pensavo ci volessero ore e ore, invece è successo tutto cosí in fretta! La guerra è insieme vicina e lontana. Elard non ha ottenuto la licenza, è ancora in Russia. La mamma ha pregato tutto il giorno perché non gli succedesse niente, non oggi! Le doglie sono arrivate nel pomeriggio. Papà ha mandato Schwinderke a Doben per far venire subito la signora Wermin, ma lei era già impegnata. A Rosengarten c’è la moglie del contadino Krupski che è in travaglio da due giorni e ha quasi quarant’anni! Vicky è stata molto coraggiosa. Ha tutta la mia ammirazione! È stato terribile, ma anche meraviglioso. Mamma, Edda, io e la signora Endrikat ce l’abbiamo fatta anche senza la Wermin. Papà ha aperto una bottiglia di champagne e se l’è scolata con il signor Endrikat. I due nonni! Erano piuttosto alticci quando la mamma li ha raggiunti per mostrare il bambino. Hanno permesso anche a me di tenerlo in braccio. È difficile credere che un giorno questo esserino con mani e piedi minuscoli diventerà un uomo grande e forte. Vicky ha messo insieme il nome di mio padre e quello del suo e l’ha chiamato Heinrich Arno Elard, anche se Edda insisteva a dire che il secondo nome, se non il primo, doveva essere Adolf. A questo punto i due nonni hanno versato qualche lacrimuccia di commozione e hanno stappato un’altra bottiglia di champagne. Quando finalmente è arrivata la signora Wermin, Vicky stava già allattando il bambino. La signora Endrikat l’aveva pulito e fasciato perbene. Hanno deciso che sarò io la madrina!!! Ah, la vita è davvero emozionante. Il piccolo Heinrich Arno Elard non ha fatto una piega quando papà, tutto serio, gli ha spiegato che un giorno diventerà signore di Lauenburg. Anzi, gli ha addirittura rigurgitato sulla spalla. Che risate! È stato un giorno fantastico, sembrava quasi di essere tornati indietro nel tempo. Appena Elard avrà la licenza, faremo il battesimo. E poi il matrimonio! Allora Vicky diventerà mia sorella, anche se per me lo è già. Siamo le migliori amiche che si possano immaginare… Thomas Ritter attaccò un bigliettino giallo sul bordo della pagina di diario e si sfregò gli occhi stanchi. Era incredibile! La lettura lo aveva trasportato in un altro mondo, purtroppo scomparso da tempo. Il mondo di una ragazzina cresciuta al riparo da tutto nella grande casa paterna in Masuria. I soli diari avrebbero fornito materiale sufficiente per un grandioso romanzo, un requiem alla vecchia Prussia orientale, quasi all’altezza di Arno Surminski e Siegfried Lenz. La giovane Vera aveva descritto la regione e i suoi abitanti con attenzione e dovizia di particolari, ma aveva anche illustrato la situazione politica dal proprio punto di vista, quello di figlia di un barone che, dopo aver perso due figli nella prima guerra mondiale, aveva deciso di ritirarsi con la moglie nella sua tenuta prussiana. Entrambi erano molto critici nei confronti di Hitler e del nazismo, ma avevano comunque accettato che Vera e le sue amiche Edda e Vicky entrassero a far parte della Lega delle fanciulle tedesche. La descrizione del viaggio compiuto dalle tre ragazze e dalle loro compagne della Lega per partecipare ai giochi olimpici di Berlino era davvero affascinante, come anche le pagine dedicate ai soggiorni di Vera in un collegio femminile in Svizzera, dove la mancanza di Vicky si era fatta sentire in maniera straziante. Elard, il fratello maggiore di Vera, era entrato nell’aeronautica allo scoppio della guerra e, grazie alle sue capacità, aveva fatto rapidamente carriera. Le pagine che raccontavano com’era nato e cresciuto l’amore tra lui e la bella Vicky Endrikat, la figlia dell’amministratore della tenuta, erano particolarmente toccanti.

Ma perché Vera non voleva assolutamente che nei primi capitoli della biografia venisse descritta la sua giovinezza nella Prussia orientale? Non aveva niente di cui vergognarsi, a parte forse l’adesione alla Lega delle fanciulle tedesche. E comunque in quel periodo – soprattutto in campagna, dove ci si conosceva tutti – sarebbe stato impossibile tenersi fuori da certe cose senza conseguenze. Poco a poco, però, proseguendo nella lettura, Ritter aveva capito per quale motivo Vera avrebbe gettato i suoi ricordi tra le fiamme piuttosto che farli finire nelle mani di uno sconosciuto. Alla luce di ciò che aveva saputo il venerdí precedente, il contenuto dei diari era davvero esplosivo. Non aveva smesso un attimo di prendere appunti e mentalmente stava già cominciando a riscrivere i primi capitoli del libro. Nel diario del 1942 trovò una prova fondamentale. Dopo aver letto le annotazioni del 23 agosto – giorno del primo bombardamento di Stalingrado – si collegò subito a internet e cercò una breve biografia di Elard Kaltensee.

«Non è possibile» mormorò, fissando lo schermo del laptop. Elard era nato il 23 agosto del 1943. Possibile che Vera avesse partorito a un anno preciso dalla nascita del nipote? Ritter prese il diario del 1943 e lo sfogliò velocemente fino ad agosto.

Oggi Heini compie un anno! È cosí dolce… Lo mangerei di baci! Ha già imparato a camminare… Torno indietrò di qualche pagina, poi andò avanti. In luglio Vera aveva lasciato la Svizzera per tornare a casa dei genitori e trascorrere lí l’estate. Un’estate funestata dalla morte di Walter, il fratello maggiore di Vicky Endrikat, caduto durante la battaglia di Stalingrado. Vera non faceva il minimo accenno a uomini o gravidanze! Non c’erano dubbi: Elard Kaltensee era in realtà Heinrich Arno Elard, il bambino venuto alla luce il 23 agosto 1942. Ma perché nella biografia si diceva che era nato nel 1943? Si era tolto un anno per vanità? Il suono del telefonino lo fece trasalire. Era Marleen, tutta preoccupata perché alle dieci passate non era ancora tornato a casa. Thomas Ritter cercò freneticamente una scusa. Non poteva interrompere la lettura dei diari sul piú bello!

«Purtroppo farò tardi» disse, sforzandosi di sembrare davvero dispiaciuto. «Domani ho una consegna. Torno appena possibile, ma non mi aspettare. Vai pure a letto, amore».

Dopo aver chiuso la telefonata, avvicinò il portatile e cominciò subito a scrivere. Voleva mettere nero su bianco le frasi che aveva formulato mentalmente durante la lettura.

Mentre le dita si muovevano rapide sulla tastiera, non riuscí a trattenere un sorriso. Ora che i sospetti erano confermati da solide prove, poteva scrivere il libro–bomba che Katharina e quelli della sua casa editrice aspettavano da mesi.

«Quindi giovedí sera Nowak era alla Taunusblick» concluse Bodenstein, finendo di ragguagliare i colleghi su ciò che Kathrin Fachinger aveva saputo dal vicino di camera della signora Frings.

«Di sicuro non ci è andato per lo spettacolo teatrale» commentò Pia.

«Continui con con la storia della KMF» ordinò il commissario capo e Ostermann obbedí.

Vera Kaltensee si era arrabbiata moltissimo quando, alla lettura del testamento, aveva scoperto i cambiamenti apportati dal marito prima di morire. Aveva tentato inutilmente di annullarli, poi aveva provato a comprare le quote di Goldberg, Schneider e Frings, cosa non consentita dal nuovo statuto.

«Elard Kaltensee fu sospettato di omicidio. Pensavano avesse spinto giú dalla scala il patrigno, con cui non andava molto d’accordo» aggiunse Ostermann. «La morte venne però dichiarata accidentale e il caso fu archiviato». Alzò lo sguardo dagli appunti. «Vera Kaltensee non sopportava di dover interpellare i vecchi amici, il figliastro e l’amica della figlia prima di prendere qualunque iniziativa. Comunque con l’aiuto di Goldberg è riuscita a diventare console onorario del Suriname, ad accaparrarsi i diritti di sfruttamento dei depositi di bauxite e a entrare direttamente nell’industria dell’alluminio. Il ruolo di fornitore non le bastava piú. Un paio di anni dopo i diritti sono stati venduti all’americana ALCOA e la KMF è diventata leader mondiale nel campo degli estrusori per alluminio. Le consociate che amministrano il capitale proprio hanno sede in Svizzera, nel Liechtenstein, alle Isole Vergini britanniche, a Gibilterra, nel Principato di Monaco… In pratica non pagano tasse».

«C’entra qualcosa Herrmann Schneider?» chiese Pia, che poco a poco stava mettendo insieme quello che aveva scoperto il collega con ciò che già sapeva. Era una specie di puzzle. Ogni singolo pezzo aveva un significato che sarebbe apparso chiaramente una volta completato il quadro.

«Sí». Ostermann annuí. «Schneider era consulente di KMF Suisse».

«E ora? Come sono distribuite le quote?» s’informò Bodenstein.

«Qui viene il bello! Secondo lo statuto, le quote societarie non sono né cedibili né ereditabili. Alla morte del titolare passano all’amministratore. Mi sembra che questa clausola possa anche giustificare i nostri quattro omicidi».

«In che senso?» domandò il commissario capo.

«Secondo le stime degli auditor, la KMF vale circa quattrocento milioni di euro. Questo è l’attuale valore di mercato, ma una società inglese ha presentato un’offerta di acquisto per piú del doppio. Fate due conti e avrete il valore di ogni singola quota».

Bodenstein e Pia si scambiarono un’occhiata.

«L’amministratore della KMF è Siegbert Kaltensee» osservò il commissario. «Ora che Goldberg, Schneider, Watkowiak e la Frings sono morti, le quote passano a lui».

«Già». Ostermann rimise gli appunti sulla scrivania e si guardò intorno con aria trionfante. «Direi che ottocento milioni di euro sono un ottimo movente».

Per un attimo rimasero tutti in silenzio.

«Sono d’accordo» dichiarò infine Bodenstein.

«Finora Siegbert Kaltensee non poteva né vendere la società né quotarla in borsa perché non aveva la maggioranza. Ma adesso è cambiato tutto. Se non sbaglio, sommando il suo venti per cento alle quote delle quattro vittime, arriviamo al cinquantasei per cento».

«Anche solo il dieci per cento di ottocento milioni sarebbe una cifra considerevole» rifletté Pia. «Chiunque di loro poteva aver avuto interesse a trasferire la maggioranza delle quote a Siegbert in modo da ottenere la propria parte di profitto una volta conclusa la vendita».

«Sí, però non credo che sia questo il movente degli omicidi». Bodenstein finí il caffè e scosse la testa. «Penso piuttosto che l’assassino, senza volerlo, abbia fatto un grosso favore ai Kaltensee».

Pia stava studiando gli appunti che aveva recuperato dalla scrivania del collega.

«Chi è questa Katharina Schmunck? Cosa c’entra con i Kaltensee?».

«Oggi si chiama Katharina Ehrmann» spiegò Ostermann. «È la migliore amica di Jutta Kaltensee».

Il commissario capo corrugò la fronte, poi si illuminò. Gli erano appena tornate in mente le foto che aveva visto a Mühlenhof. Prima che potesse aprire bocca, Pia si alzò di scatto e si mise a frugare nella borsa in cerca del biglietto da visita su cui l’agente immobiliare aveva scritto un nome.

«Non è possibile!» esclamò appena lo ebbe trovato. «Katharina Ehrmann è la proprietaria della casa di Königstein in cui è stato scoperto il cadavere di Watkowiak! Che significa?».

«Lo so io» affermò Ostermann, chiaramente convinto che l’avidità dei Kaltensee fosse un movente piú che plausibile. «Hanno ucciso Watkowiak e provato a far ricadere i sospetti sulla Ehrmann. Per prendere due piccioni con una fava».

Ritter aveva gli occhi che bruciavano e la testa che scoppiava. Le lettere sullo schermo cominciavano a confondersi. Nelle ultime due ore aveva scritto venticinque pagine; era esausto e insieme euforico. Con un clic del mouse salvò il file e lo allegò a un’email. Voleva che il mattino seguente Katharina vedesse subito come aveva usato il materiale che lei stessa aveva procurato. Sbadigliando per la stanchezza, si alzò e andò alla finestra. Prima di tornare a casa doveva assolutamente chiudere i diari in una cassetta di sicurezza. Marleen poteva anche essere una grande ingenua, ma di sicuro avrebbe capito tutto se li avesse trovati. E nel peggiore dei casi si sarebbe schierata con la nonna e il resto della famiglia. Ormai il parcheggio era deserto, oltre alla sua cabrio c’era solo un furgone scuro. Ritter stava per distogliere lo sguardo quando, per una frazione di secondo, nell’abitacolo del furgone si accese una luce e apparvero due uomini. Fu subito preso dalla paura, il battito del cuore accelerò di colpo. Katharina aveva detto che il materiale era scottante, forse addirittura pericoloso. Durante il giorno non ci aveva pensato minimamente, ma ora, alle dieci e mezzo di sera in un edificio deserto nella zona industriale di Fechenheim, avvertiva un senso di minaccia. Prese il cellulare e chiamò Katharina, che rispose solo dopo il decimo squillo.

«Kati, credo di essere sorvegliato». Cercò di controllare la voce per non sembrare troppo teso. «Sono rimasto in ufficio fino a tardi per lavorare al libro. Qui sotto c’è un furgone con dentro due uomini. Cosa devo fare? Chi potrebbero essere?».

«Stai tranquillo» disse lei a bassa voce. In lontananza si udivano altre voci e le note di un pianoforte. «Ti sei lasciato suggestionare. Non…».

«Suggestionare un corno! Sono là sotto e quasi sicuramente aspettano me! Sei stata tu a dire che questo materiale potrebbe essere pericoloso!».

«Ma no, hai capito male» replicò Katharina in tono conciliante. «Non parlavo di un pericolo concreto. E poi non lo sa nessuno che abbiamo il materiale. Vai a casa e fatti una bella dormita».

Ritter raggiunse l’interruttore vicino alla porta e spense la luce, poi tornò alla finestra. Il furgone era ancora nel parcheggio.

«Va bene. Però devo ancora passare in banca per mettere i diari al sicuro. Ho paura che mi possa succedere qualcosa».

«Ma per favore, non dire sciocchezze!».

«Okay». Ritter si sentí un po’ piú calmo. Se fosse stato davvero in pericolo, Katharina avrebbe reagito diversamente. Non avrebbe rischiato di perdere la sua gallina dalle uova d’oro. All’improvviso si vergognò del proprio comportamento. Aveva fatto la figura del vigliacco!

«Ti ho mandato il testo».

«Fantastico! Lo leggerò subito domani mattina. Scusa, ora devo andare».

«Certo. Buona notte». Ritter chiuse il cellulare, mise i diari in un sacchetto del supermercato e infilò il portatile nello zaino. Con le ginocchia che tremavano, si avviò lungo il corridoio. «Andrà tutto bene» mormorò tra sé e sé.