Lunedí, 30 aprile 2007
«Ich hab getanzt heut’ Nacht, die ganze Nacht heut’ Nacht! Ach wär’s doch nie vorbei! Ich möcht noch so viel mehr, auch wenn es Sünde wär!».
Erano passate da poco le sette quando Bodenstein fece per entrare in sala riunioni e con grande sorpresa si trovò davanti la collega che canticchiava danzando con un partner immaginario tra il tavolo e la lavagna. Si schiarí la voce. «Il suo direttore di zoo si è comportato bene? Sembra particolarmente contenta stamattina».
«Sono al settimo cielo!». Pia Kirchhoff si voltò con un’ultima piroetta, abbassò le braccia e con un sorriso raggiante abbozzò un inchino. «E il mio direttore di zoo si comporta sempre bene. Le posso portare un caffè, capo?».
Il commissario inarcò le sopracciglia. «Che c’è? Vuole chiedermi qualche giorno di ferie?».
«Mio Dio, com’è sospettoso! No, sono solo di buon umore. Sabato sera ho ricontrato una vecchia amica che conosceva Goldberg di persona e…».
«Goldberg non è piú un nostro caso» la interruppe lui. «Tra un attimo saprà anche perché. Mi faccia il favore di radunare tutti qui».
Poco dopo i membri dell’ufficio 11 di Hofheim, raccolti intorno al tavolo della sala riunioni, ascoltarono in silenzio il breve comunicato con cui Bodenstein li informò che le indagini sull’omicidio di Goldberg erano ufficialmente chiuse. Andreas Hasse, che invece del solito completo marrone indossava una camicia giallo intenso, un pullover fantasia senza maniche e un paio di pantaloni di velluto a coste, accolse la notizia senza battere ciglio. Non mostrava alcuno slancio sul lavoro; nonostante avesse solo cinquantacinque anni, era già parecchio tempo che faceva il conto alla rovescia per la pensione. Anche Behnke si mostrò del tutto indifferente. Con la testa chiaramente altrove, continuò a masticare la gomma che aveva in bocca. Non essendoci altri casi urgenti, Bodenstein permise ai propri uomini di affiancare i colleghi dell’ufficio 10 nelle indagini su una banda di trafficanti d’auto dell’Est che da mesi operavano nella regione Reno–Meno. Kai Ostermann e Pia Kirchhoff dovevano invece rivedere un caso di rapina ancora irrisolto. Non appena gli altri se ne furono andati, il commissario capo riferí ai due collaboratori tutto quello che aveva scoperto sul passato di Goldberg e raccontò loro degli strani avvenimenti della domenica mattina in seguito ai quali l’ufficio 11 non poteva piú indagare sull’omicidio del vecchio.
«Quindi è proprio finita?» domandò Ostermann, incredulo.
«Ufficialmente sí». Bodenstein sottolineò la risposta con un cenno del capo. «Gli americani e quelli del BKA non sembrano minimamente interessati a risolvere il caso e Nierhoff è contento di essersi sbarazzato di questa patata bollente».
«E il materiale prelevato dalla scientifica? Che fine ha fatto?» s’informò Pia.
«Non mi sorprenderei se se ne fossero dimenticati. Ostermann, chiami subito il laboratorio e provi a indagare. Se c’è qualche risultato, vada di persona a Wiesbaden».
Ostermann annuí.
«La governante mi ha detto che giovedí pomeriggio Goldberg ha ricevuto due visite: un uomo pelato e una signora dai capelli scuri» continuò Pia. «Martedí sera, sul presto, c’era invece un altro uomo. La governante l’ha incontrato prima di uscire. Aveva parcheggiato la macchina proprio davanti al cancello. Un’auto sportiva con targa di Francoforte».
«È già qualcosa. C’è altro?».
«Sí» fece lei consultando il taccuino. «Due volte a settimana arrivava il fiorista con i fiori freschi. Lo scorso mercoledí, però, la consegna è stata effettuata da un uomo piuttosto trasandato tra i quaranta e i quarantacinque anni. Dopo che la governante lo ha fatto entrare, è andato dritto da Goldberg e gli ha rivolto la parola usando il tu. La signora non è riuscita a capire cosa dicevano perché l’uomo aveva chiuso la porta del soggiorno, ma pare che il vecchio non abbia gradito molto la visita. Le ha ordinato di farsi consegnare i fiori sulla porta d’ingresso e di non lasciar entrare piú nessuno».
«Bene. Rimane da scoprire il significato del numero sullo specchio».
«Potrebbe essere un numero di telefono o una password» suggerí Ostermann. «Potrebbe indicare un armadietto, una cassetta di sicurezza o un conto svizzero. O anche essere un numero di riconoscimento…»
«Ma certo!» esclamò Pia. «Se il movente dell’omicidio sta davvero nel passato di Goldberg, forse 16145 è il numero di riconoscimento che aveva nelle SS».
«Goldberg aveva novantadue anni» osservò il collega. «Solo un’altra persona della sua età poteva conoscere quel numero».
«Non è detto» replicò Bodenstein, pensieroso. «Basterebbe una persona informata sul suo passato».
C’erano assassini che lasciavano un messaggio piuttosto evidente – una specie di macabro segno distintivo – sul luogo del delitto o sulla vittima. Assassini che amavano giocare con la polizia e mettersi alla prova in termini d’intelligenza o raffinatezza. Era questo che voleva l’assassino di Goldberg? Il numero scritto sullo specchio all’ingresso aveva un significato particolare? Cosa rappresentava? Era un indizio o un tentativo di depistaggio? Bodenstein aveva l’impressione di brancolare nel buio, come i suoi due colleghi, e cominciava a temere seriamente che l’omicidio di David Josua Goldberg sarebbe rimasto irrisolto.
Marcus Nowak era seduto alla scrivania del suo piccolo ufficio, intento a sistemare i documenti per l’incontro che si sarebbe tenuto due giorni dopo. Finalmente si stava muovendo qualcosa, forse c’era qualche possibilità per il progetto in cui aveva investito tanto tempo. Da poco la città di Francoforte aveva riacquistato il cosiddetto “municipio tecnico”, che doveva essere abbattuto nell’ambito di una vasta opera di riqualificazione del centro storico. Già nell’estate del 2005 si era discusso in modo molto animato all’interno del consiglio comunale per decidere che cosa dovesse sorgere al posto di quell’orribile struttura di cemento. Si era optato per la ricostruzione di alcune parti del vecchio centro storico: tra il duomo e il Römerberg dovevano essere riedificate, nel modo piú fedele possibile, sette case a graticcio di particolare valore che erano andate distrutte durante la guerra. Per un restauratore dotato ma ancora poco conosciuto come Marcus Nowak un incarico del genere non era solo un’incredibile sfida professionale e una garanzia di lavoro per gli anni a venire. Era anche un’opportunità unica per farsi conoscere al di fuori della regione perché l’ambizioso progetto avrebbe senz’altro suscitato grande attenzione.
La suoneria del cellulare lo richiamò alla realtà. Si mise a frugare tra montagne di carte, disegni, tabelle e fotografie, e quando infine trovò l’apparecchio e lesse il numero sul display graffiato, di colpo sentí il cuore battere piú veloce. Sapeva che quella telefonata sarebbe arrivata. La aspettava con ansia e insieme con un terribile senso di colpa. Esitò un attimo. Aveva promesso a Tina di raggiungerla piú tardi al campo dove la società sportiva di Fischbach aveva montato il solito tendone e organizzato come ogni anno una grande festa per la notte di Valpurga. Nowak osservò il cellulare mordendosi il labbro inferiore, poi cedette alla tentazione. «Al diavolo!» esclamò sottovoce e accettò la chiamata.
In tutto il giorno non si era fatto neanche un goccetto. Beh, quasi. Un’ora prima aveva buttato giú un sorso di vodka insieme alle due pasticche di Prozac, ma non se ne sarebbe accorto nessuno. Aveva promesso a Kurti di non bere niente e ora si sentiva benissimo. Aveva la mente lucida e le mani ferme. Robert Watkowiak sorrise alla propria immagine riflessa nello specchio. Un bel taglio di capelli e un abbigliamento decoroso potevano fare davvero miracoli! Il caro zio Herrmann era il classico impiegato tedesco, dava molta importanza a un aspetto pulito e curato. Voleva presentarsi da lui ben vestito e sbarbato, senza occhi rossi e alito che sapeva di alcol. I soldi li avrebbe ottenuti comunque, ma chiederli cosí era senz’altro piú carino.
Per puro caso un paio di anni prima aveva scoperto l’oscuro segreto che il vecchio nascondeva a tutti con grande abilità e da allora erano diventati ottimi amici. Chissà cosa avrebbero detto zio Jossi e la matrigna se avessero saputo ciò che succedeva nella cantina del caro zio Hermann. Ridacchiando, Watkowiak distolse lo sguardo dallo specchio. Non era cosí stupido da pensare seriamente di informarli; se l’avesse fatto, addio fonte di reddito. Si augurava invece che il vecchio vivesse ancora a lungo. Con uno straccio lucidò le scarpe di vernice nera che aveva comprato appositamente, come il completo grigio, la camicia e la cravatta. Nel complesso aveva speso quasi la metà dei soldi avuti da zio Jossi, ma era sicuro che l’investimento avrebbe dato i suoi frutti. Poco prima delle otto si avviò allegramente verso la stazione. Kurti sarebbe passato a prenderlo alle otto in punto.
Auguste Nowak amava il crepuscolo. L’ora blu. Seduta sulla panchina di legno dietro la villetta in cui abitava, si godeva la tranquillità della sera e l’intenso profumo del vicino bosco. I meteorologi prevedevano un netto calo della temperatura con possibili piogge, eppure l’aria era mite e le prime stelle brillavano in un cielo terso. Due merli bisticciavano in mezzo al rododendro, sul tetto tubava un colombo. Erano le dieci e un quarto, gli altri stavano già festeggiando la notte di Valpurga al campo sportivo. Tutti tranne Marcus, che era sempre alla scrivania. Questo non lo vedevano gli invidiosi, che lo criticavano solo perché aveva successo! Nessuno di loro era disposto a lavorare sedici ore al giorno, senza weekend e senza vacanze!
Auguste Nowak posò le mani congiunte in grembo e incrociò i piedi. A pensarci bene, dopo tanta fatica e tante preoccupazioni, ora stava vivendo il periodo piú sereno della sua lunga esistenza. Suo marito Helmut – traumatizzato dalla guerra, psicologicamente debole, incapace di mantenere un lavoro per piú di quattro settimane – era morto due anni prima, dopo aver trascorso l’ultimo ventennio senza quasi muovere un passo fuori di casa. Auguste aveva ceduto alle pressioni del figlio e si era trasferita a Fischbach, nella casetta sul terreno dell’azienda. Non aveva motivo di rimanere nel Sauerland, non c’era piú niente che la legasse al paesino in cui aveva vissuto con Helmut. Finalmente poteva godersi un po’ di pace, non doveva piú sopportare il televisore sempre acceso e un uomo pieno di acciacchi verso il quale, nei momenti migliori del matrimonio, aveva provato al massimo indifferenza. Si udí il cancelletto che sbatteva; Auguste girò la testa e sorrise di gioia vedendo il nipote.
«Ciao, nonna. Ti disturbo?».
«Tu non disturbi mai» rispose lei. «Vuoi mangiare qualcosa? In frigorifero ho pasta e gulasch».
«No, grazie».
Marcus non aveva un bell’aspetto. Era molto teso e dimostrava piú dei suoi trentaquattro anni. Da settimane Auguste aveva l’impressione che qualcosa lo angustiasse.
«Siediti qui vicino a me». Batté la mano sul cuscino, ma lui non si mosse. Lo scrutò in volto. Non aveva difficoltà a decifrare le sue espressioni, era come un libro aperto.
«Gli altri sono alla festa. Perché non li raggiungi?».
«Sí, stavo giusto andando al campo sportivo. Volevo solo…».
S’interruppe, fissò lo sguardo a terra e rimase in silenzio.
«Che c’è? Problemi di lavoro? Hai bisogno di soldi?».
Lui fece cenno di no e tirò su la testa per guardarla. La confusione e il tormento che trasparivano dai suoi occhi scuri la colpirono nel profondo, provocandole una fitta al cuore. Dopo qualche altro istante di esitazione, Marcus si decise a prendere posto sulla panchina e si lasciò scappare un gran sospiro.
Auguste lo amava come una madre. Forse perché i suoi genitori, tutti presi dall’azienda, non avevano mai avuto tempo per lui, che era il figlio piú piccolo, e quindi gli avevano fatto trascorrere buona parte dell’infanzia con la nonna. O forse perché il ragazzo le ricordava Ulrich, il fratello maggiore che aveva perso tanto tempo prima. Ulrich era incredibilmente dotato, un vero artista. Sarebbe potuto arrivare molto lontano se la guerra non avesse sconvolto i suoi piani e distrutto tutti i suoi sogni. Era caduto in Francia nel giugno del 1944, tre giorni prima del suo ventitreesimo compleanno. Marcus gli somigliava molto anche dal punto di vista fisico; aveva lo stesso viso delicato ed espressivo, gli stessi capelli biondi e lisci che finivano negli occhi scuri, le stesse labbra carnose e ben disegnate. Nonostante la giovane età, la sua fronte era già segnata da profonde rughe. Spesso le appariva come un bambino costretto a portare troppo presto il fardello di un adulto. Improvvisamente Marcus le mise la testa in grembo, com’era solito fare da piccolo, quando aveva bisogno di conforto. Auguste gli accarezzò i capelli canticchiando a bocca chiusa.
«Ho fatto una cosa molto, molto brutta, nonna» confessò con voce strozzata. «Andrò sicuramente all’inferno».
Lo sentí rabbrividire. Il sole era scomparso dietro i monti del Taunus, faceva quasi freddo. Ci volle ancora un attimo, ma alla fine Marcus si decise a vuotare il sacco e, superati i primi tentennamenti, cominciò a parlare in modo sempre piú rapido, contento di poter dividere con qualcuno il peso del segreto che gli gravava sulla coscienza.
Dopo che il nipote si fu alzato dalla panchina, Auguste Nowak rimase sola a riflettere nell’oscurità. La confessione l’aveva sconvolta, ma non per ragioni morali. Marcus era nato in una famiglia di gretti con cui aveva ben poco in comune, era come un martin pescatore in un gruppo di gru. Inoltre aveva sposato una donna che non mostrava la minima comprensione per il suo animo d’artista. Auguste da un po’ di tempo aveva il sospetto che il loro matrimonio fosse in crisi, ma non gli aveva mai fatto domande al riguardo.
Lui la cercava tutti i giorni, le parlava delle sue piccole e grandi preoccupazioni, dei suoi nuovi incarichi, dei successi e degli insuccessi; insomma di tutto ciò che lo riguardava. In teoria certi discorsi avrebbe dovuto farli con la moglie. Anche Auguste non si sentiva particolarmente legata alla famiglia; vivevano tutti sotto lo stesso tetto, ma solo per comodità, non per rispetto o affinità. Per lei erano sempre stati degli estranei. Parlavano, parlavano, ma in fondo non dicevano niente, e tuttavia si davano un gran daffare per difendere l’immagine della famiglia felice.
Mezz’ora dopo, quando Marcus era ormai andato al campo sportivo, entrò in casa e si mise un fazzoletto in testa, quindi prese la giacca a vento scura, la torcia elettrica e la chiave dell’ufficio del nipote. Anche se lui diceva sempre che non era necessario, gli puliva regolarmente lo spazio in cui lavorava. Non era capace di stare con le mani in mano, e comunque il lavoro manteneva giovani. Guardò l’immagine riflessa nello specchio vicino alla porta d’ingresso. Conosceva bene i segni che il tempo le aveva lasciato sul viso; tuttavia a volte rimaneva stupita nel vedere le rughe, le palpebre cascanti e le labbra che si ripiegavano per la mancanza dei denti. Tra poco saranno ottantacinque, pensò. Non riusciva a crederci. A dire il vero le sembrava di averne al massimo cinquanta. Era forte, piena di energia e piú sciolta di certi trentenni. A sessant’anni aveva preso la patente, a settanta era andata in vacanza per la prima volta. Gioiva per le piccole cose, non si lamentava di niente. E poi aveva ancora qualcosa da fare, qualcosa di molto importante. La morte, con cui aveva già avuto un incontro ravvicinato piú di sessant’anni prima, avrebbe dovuto attendere pazientemente che fosse tutto sistemato. Auguste ammiccò all’immagine nello specchio e uscí. Attraversò il cortile in direzione del capannone che Marcus aveva costruito un paio di anni prima sul prato vicino alla villetta, aprí la porta dell’edificio annesso e raggiunse il suo ufficio. Erano già le undici e mezzo, almeno stando all’orologio sopra la scrivania. Se voleva che nessuno si accorgesse di niente, doveva fare in fretta.
Cominciò a sentire i bassi ritmati della musica mentre attraversava il parcheggio pieno di auto. Il dj lanciava una hit dopo l’altra. Erano già tutti brilli; Marcus non si aspettava di trovarli cosí, in fondo era ancora presto. Alcuni bambini, tra cui i suoi, stavano giocando a calcio sul campo erboso. Sotto il tendone sgomitavano circa trecento persone. I meno giovani si erano ritirati al bar del centro sportivo, a parte un paio di eccezioni. Marcus si sentí male alla vista di due uomini decisamente ubriachi che rivolgevano sguardi lascivi alle ragazzine.
«Ehi, Nowak!». Qualcuno col fiato che puzzava di alcol gli diede una pacca sulla spalla. «Che sorpresa!».
«Ciao, Stefan. Hai visto Tina?».
«No. Dai, unisciti a noi. Vieni a bere qualcosa».
Marcus si sentí afferrare per un braccio e trascinare verso il fondo del tendone. Controvoglia seguí l’amico in mezzo a una folla allegra e sudata.
«Ragazzi, guardate chi vi ho portato!» gridò Stefan.
Si girarono tutti verso di lui, ridendo e urlando. Visi familiari con occhi acquosi, segno che l’alcol scorreva a fiumi già da un po’. Una volta anche lui faceva parte del gruppo; erano vecchi compagni di scuola, di allenamento e di scorribande, gli stessi con cui aveva giocato a calcio dal livello pulcini fino alla prima squadra, gli stessi con cui aveva prestato servizio nel corpo volontario dei vigili del fuoco e partecipato a tante feste come quella in corso. Li conosceva tutti dall’infanzia, ma all’improvviso era come se fossero degli estranei. Si strinsero per lasciargli un posto. Facendo buon viso a cattivo gioco, Marcus si sedette sorridendo e in un attimo si trovò in mano un bicchiere del tradizionale cocktail all’asperula. Brindarono alla sua salute, e non poté evitare di berne un sorso. Quand’è che aveva smesso di amare certe cose? Perché, a differenza dei suoi vecchi compagni, non riusciva piú a divertirsi e a godere con semplicità? Fu l’unico a non vuotare il bicchiere in cinque minuti. A un certo punto sentí vibrare il cellulare nella tasca dei jeans. Quando lo tirò fuori e vide il mittente del messaggio appena arrivato, il cuore gli rimbalzò nel petto. Il testo gli fece invece ribollire il sangue.
«Marcus, ti do un consiglio da amico» gli biascicò all’orecchio Chris Wiethölter, un ex compagno di squadra che ora allenava i ragazzini. «Heiko si è preso una bella cotta per Tina. Fossi in te, starei in campana».
«Lo farò. Grazie». Come doveva rispondere al messaggio? Doveva ignorarlo? Spegnere il cellulare e continuare a bere con gli amici di un tempo? Rimase immobile sulla panca, le dita strette intorno al bicchiere con il cocktail ormai tiepido. Incapace di pensare lucidamente.
«Io ti ho avvisato. Una donna cosí…» aggiunse Wiethölter, tracannandosi poi una birra e concludendo con un sonoro rutto.
«Hai ragione». Marcus si alzò. «Vado subito a cercarla».
«Bravo, vai…».
Tina non avrebbe mai accettato le avance di Heiko Schmidt né di altri uomini, e comunque a Marcus non importava. Aveva solo approfittato dell’occasione per liberarsi. Ancora una volta avanzò a fatica tra i corpi sudati, salutando a destra e a manca, augurandosi di non finire tra le braccia della moglie o di una sua amica. Quando aveva capito di non essere piú innamorato di Tina? Non era neanche in grado di dire cosa fosse cambiato. Tina era la stessa di sempre; quindi non aveva nessuna colpa. Era soddisfatta della vita che conduceva, al contrario di Marcus, che sentiva il bisogno di evadere. Senza dare nell’occhio lasciò il tendone e per accorciare la strada passò dal bar del centro sportivo. Si accorse troppo tardi dell’errore, quando ormai suo padre, seduto al bancone con gli amici come quasi tutte le sere, gli aveva già messo gli occhi addosso.
«Marcus!». Manfred Nowak si pulí i baffi sporchi di schiuma con il dorso della mano. «Vieni qui!».
Con la morte nel cuore, Marcus obbedí. Capí subito che il genitore aveva già fatto il pieno di alcol e si preparò psicologicamente a ciò che sarebbe successo. L’orologio appeso alla parete segnava le undici e mezzo.
«Una birra per mio figlio!» ordinò Manfred con voce tonante. Poi si rivolse agli attempati compagni, che si ostinavano a portare tuta e scarpe da ginnastica anche se i loro miseri successi sportivi appartenevano ormai a un lontano passato.
«Il mio ragazzo diventerà famoso! Ricostruirà il centro storico di Francoforte, casa per casa! Siete rimasti senza parole, eh?».
Manfred Nowak diede una pacca al figlio. I suoi occhi non rivelavano né apprezzamento né orgoglio paterno, bensí pura e semplice derisione. Marcus si lasciò prendere in giro senza aprir bocca, cosa che tolse ogni freno al vecchio. Gli altri sghignazzavano. Conoscevano benissimo la situazione dei Nowak, sapevano che il padre aveva fatto bancarotta e che il figlio si era rifiutato di rilevare la sua impresa di costruzioni. In una piccola frazione come Fischbach non si poteva nascondere niente; di certo non un fallimento di simili proporzioni. Il cameriere posò sul bancone la birra ordinata per Marcus.
«Salute!» gridò il vecchio Nowak alzando il proprio bicchiere. Bevvero tutti tranne Marcus.
«Che c’è? Non vuoi abbassarti a bere con noi?».
Ecco la rabbia da sbornia. Marcus la vedeva chiaramente negli occhi del padre.
«Non ho voglia di sentire certe stupidaggini» disse. «Raccontale ai tuoi amici. Forse loro ti credono ancora».
Manfred diede sfogo al rancore che covava da tempo tentando di mollare un ceffone al figlio, come aveva fatto tante volte in passato, ma l’alcol lo rallentò nei movimenti. Marcus schivò il colpo con facilità, poi, senza la minima compassione, guardò il vecchio perdere l’equilibrio e cadere rumorosamente a terra insieme allo sgabello. Non aspettò che si rialzasse, scappò via piú in fretta che poté. Una volta uscito dal centro sportivo tirò un sospiro di sollievo. Attraversò il parcheggio a passo spedito fino alla macchina, si sedette al posto di guida e partí sgommando. Dopo meno di duecento metri fu fermato dalla polizia.
«Allora?» chiese l’agente, puntandogli il fascio di luce della torcia in pieno viso. «Festeggiato per bene?».
Aveva un tono odioso. Marcus riconobbe subito la voce e tornò con la mente agli anni in cui era stato capocannoniere della propria serie. In quel periodo Siggi Nitschke giocava nella prima squadra di Ruppertshain.
«Ciao, Siggi».
«To’, chi si vede! Nowak. Il grande imprenditore. Favorisca patente e libretto».
«Non posso, non li ho portati».
«Che sfortuna! Mi dispiace, ma devo chiederle di scendere dall’auto».
Marcus sospirò e obbedí. Nitschke non aveva mai avuto simpatia nei suoi confronti, in gran parte perché come calciatore era sempre stato un gradino piú giú. Ora stava sicuramente ringraziando il cielo per aver fermato la macchina giusta al momento giusto. Marcus si lasciò trattare come il peggiore dei deliquenti senza opporre resistenza. Gli agenti gli ordinarono di soffiare nell’etilometro, ma si mostrarono piuttosto contrariati quando sul display apparve un bello zero.
«Droghe?». Nitschke non voleva lasciarlo andare cosí facilmente. «Fumato o sniffato qualcosa?».
«Neanche per sogno» rispose Marcus, cercando di evitare lo scontro. «Non mi sono mai drogato, lo sai anche tu».
«Manteniamo le distanze, per favore. Finché sono in servizio deve chiamarmi agente Nitschke, ha capito?».
«Dai, Siggi, non ha senso trattenerlo» disse l’altro poliziotto a mezza voce. L’agente Nitschke fissò Marcus con espressione truce, spremendosi le meningi per trovare un modo di metterlo in difficoltà. Un’occasione simile poteva non ripresentarsi piú.
«Entro le dieci di domani mattina deve portare patente e libretto ai miei colleghi di Kelkheim» sentenziò infine. «Adesso via, fuori dai piedi. La prossima volta non sarai cosí fortunato».
Marcus risalí in macchina senza fiatare, accese il motore, allacciò la cintura e si allontanò. Avevano mandato all’aria tutti i suoi buoni propositi. Prese il cellulare e scrisse un sms di risposta. Sto arrivando, ci vediamo tra poco.