Venerdí, 4 maggio 2007

«Dovremmo avvisare la polizia». La governante Parveen Multani era molto preoccupata. «Dev’esserle successo qualcosa. Le sue medicine sono tutte qui. Dico davvero, signora Kohlhaas, ho un brutto presentimento».

Alle sette e mezzo del mattino la donna si era accorta che mancava un’ospite. Sparita nel nulla, senza una spiegazione. Renate Kohlhaas, la direttrice della lussuosa residenza per anziani Taunusblick, era piuttosto irritata. Proprio il giorno della visita! Alle undici doveva accogliere la delegazione inviata dagli americani – i proprietari della residenza – per il solito “controllo qualità”. Non aveva intenzione di chiamare la polizia. Immaginava che idea si sarebbero fatti gli americani se avessero scoperto che aveva “perso” un’ospite.

«Me ne occupo io» disse alla governante, cercando di tranquillizzarla con un sorriso. «Torni pure al lavoro e non parli con nessuno di questa storia. Sono sicura che non ci vorrà molto per ritrovare la signora Frings».

«Ma non sarebbe meglio…». Parveen Multani provò a insistere, ma la direttrice la interruppe con un cenno della mano.

«Ho detto che me ne occupo io». Dopo aver fatto uscire la dipendente, la signora Kohlhaas si sedette al computer e aprí la cartella della donna scomparsa. Anita Frings aveva ottantotto anni ed era ospite della Taunusblick da quasi quindici. Da molto tempo, a causa di una grave artrite, era praticamente bloccata su una sedia a rotelle. Non c’erano parenti che potessero piantare grane, ma il nome della persona da avvisare in caso di malattia o morte le fece suonare un campanello d’allarme nella testa. Se la vecchia non fosse tornata subito – sana e salva – nel suo appartamento al terzo piano, le cose si sarebbero messe male.

«Ci mancava solo questa!» mormorò la direttrice, afferrando il telefono. Aveva circa due ore per trovare Anita Frings. Data la situazione, chiamare la polizia sarebbe stata la scelta sbagliata.

Con le braccia incrociate sul petto, Bodenstein osservava la grande lavagna nella sala riunioni dell’ufficio 11. David Goldberg. Herrmann Schneider. Monika Krämer. E ancora nessuna traccia di Robert Watkowiak, nonostante gli appelli lanciati attraverso la radio locale, come era stato deciso il giorno precedente. Fece scorrere lo sguardo su cerchi e frecce tracciati da Kathrin Fachinger col pennarello. Si notavano subito alcuni punti di contatto. Goldberg e Schneider erano accomunati dalla vicinanza alla famiglia Kaltensee, dall’arma del delitto e dall’appartenenza alle SS in giovane età. Purtroppo questi elementi non portavano da nessuna parte. Sospirò. C’era da impazzire. Che cosa poteva inventarsi? In che modo poteva giustificare un nuovo colloquio con Vera Kaltensee? Dato che ufficialmente non era piú il titolare delle indagini sull’omicidio di Goldberg, non poteva parlare né dei risultati di laboratorio né del DNA trovato sul bicchiere di vino. Per quanto riguardava la ragazza, non era detto che fosse stata uccisa dalla stessa persona che aveva sparato a Goldberg e Schneider. Non c’erano testimoni oculari né impronte digitali né tracce di altro tipo. A parte quelle di Watkowiak, naturalmente. Era davvero il colpevole ideale: aveva lasciato tracce della sua presenza in tutte e tre le case, conosceva le vittime e aveva urgente bisogno di denaro. Poteva aver ucciso Goldberg perché non voleva sganciare un soldo, Schneider perché minacciava di denunciarlo e Monika Krämer perché costituiva un pericolo. A prima vista tutto quadrava. Mancavano solo la pistola e il coltello.

La porta si aprí e Bodenstein non rimase particolarmente sorpreso vedendo entrare Nicola.

«Buongiorno, dottoressa Engel» disse in tono cortese.

Lei inarcò le sopracciglia. «Preferisci che ci comportiamo in modo formale? Okay. Buongiorno, commissario Von Bodenstein».

«Il “von” non è necessario. Come posso aiutarla?».

Nicola Engel posò lo sguardo sulla lavagna e corrugò la fronte. «Credevo che i casi Goldberg e Schneider fossero risolti».

«Temo di no».

«A sentire il dottor Nierhoff, ci sono prove schiaccianti contro lo stesso uomo che ha ucciso la compagna».

«Ci sono tracce della presenza di Watkowiak, niente di piú» precisò il commissario. «Sappiamo solo che è stato in tutte e tre le case. Per come la vedo io, questo non lo rende automaticamente colpevole».

«I giornali di oggi dicono che è lui l’assassino».

«Non importa».

Per un attimo si fissarono in silenzio. Poi lei distolse lo sguardo, incrociò le braccia e si appoggiò a un tavolo.

«Quindi ha lasciato che il suo superiore diffondesse informazioni sbagliate durante la conferenza di ieri. L’ha fatto per un motivo particolare o qui si usa cosí?».

Bodenstein non reagí alla provocazione.

«Nierhoff era perfettamente informato. È solo che a volte si comporta in modo un po’ precipitoso, soprattutto quando ritiene di dover chiudere in fretta un caso».

«Oliver! Come futura responsabile di questo comando pretendo di sapere cosa sta succedendo! Perché è stata organizzata una conferenza stampa se gli omicidi non sono ancora stati risolti?». Il suo tono aspro e sgradevole ricordò a Bodenstein un altro caso e un altro luogo. Non era disposto a farsi trattare cosí, neanche dalla donna che avrebbe preso il posto del suo diretto superiore.

«Perché Nierhoff non mi ha dato retta e ha fatto di testa sua!» rispose con la stessa asprezza, mantenendo però un’espressione rilassata, quasi indifferente. Si guardarono negli occhi per un paio di secondi, poi lei fece marcia indietro e si sforzò di usare un tono piú gentile.

«Credi che i tre omicidi non siano opera della stessa persona?».

Bodenstein non fece caso al tu. Era in polizia da tanti anni e conosceva bene le tattiche di interrogatorio; non si lasciava certo spiazzare da cambi di atteggiamento cosí repentini.

«Goldberg e Schneider sono stati sicuramente uccisi dalla stessa persona. Secondo me qualcuno che non vuole ulteriori indagini si è dato da fare perché i sospetti ricadessero su Watkowiak, che tra l’altro sembra scomparso nel nulla. È solo una mia teoria, però».

Nicola Engel si mise davanti alla lavagna.

«Perché vi hanno tolto il caso Goldberg?».

Era una donna minuta eppure, quando voleva, riusciva a intimidire chiunque. Bodenstein si domandò come avrebbero reagito i colleghi, in particolare Behnke. Era chiaro che, diversamente da Nierhoff, la dottoressa Engel non si sarebbe accontentata di qualche rapporto scritto. La conosceva fin troppo bene. Era sempre stata una perfezionista con la mania del controllo, che insisteva per essere informata su tutto e che non disdegnava gli intrighi.

«Qualcuno in grado di esercitare forti pressioni ad alto livello voleva evitare che scoprissimo un certo segreto».

«Cioè?».

«Che Goldberg non era un ebreo sopravvissuto all’Olocausto, bensí un ex membro delle SS, come dimostrato chiaramente dal gruppo sanguigno tatuato sul braccio. Per fortuna siamo riusciti a fare l’autopsia prima che portassero via il cadavere».

Senza commentare, Nicola Engel girò intorno al tavolo e si fermò a un’estremità.

«Hai detto a Cosima che diventerò il tuo capo?» chiese con noncuranza. L’improvviso cambio di argomento non sorprese il commissario. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto affrontare il passato.

«Sí, gliel’ho detto».

«E come ha reagito?».

Per un istante fu tentato di sbatterle in faccia la dura verità, ma si trattenne. Sarebbe stato un errore inimicarsi Nicola. Lei interpretò questa esitazione nel modo sbagliato.

«Non le hai detto niente» fece con espressione trionfante. «Come immaginavo! Non sei cambiato affatto. Sei sempre il solito vigliacco».

La forte emozione dietro queste parole lo lasciarono confuso e allarmato. Lavorare con Nicola Engel non sarebbe stato facile. Prima che potesse chiarire l’equivoco, sulla porta apparve Ostermann. I suoi occhi si posarono sulla dottoressa, ma si dovette accontentare di salutarla con un cenno del capo perché Bodenstein non si disturbò a fare le presentazioni.

«È urgente» disse, rivolto al commissario.

«Arrivo tra un attimo».

«Vada pure, Bodenstein». Nicola Engel sorrise, sorniona come un gatto. «Ci rivedremo presto».

L’anziana donna era nuda e coperta di sangue. Le avevano legato i polsi e ficcato una calza in bocca per evitare che gridasse. «Un colpo alla nuca» spiegò il medico chiamato dai primi agenti arrivati sul posto. «La morte è avvenuta circa dieci ore fa».

Indicò le gambe della vittima.

«Le hanno anche sparato nelle ginocchia».

«Grazie». Bodenstein fece una smorfia. L’assassino di Goldberg e Schneider aveva colpito ancora. Non c’erano dubbi: aveva scritto il numero 16145 sulla schiena della donna usando il suo stesso sangue. Non aveva neanche tentato di occultare il cadavere; probabilmente voleva che fosse scoperto subito.

«Questa volta ha agito all’aperto». Pia s’infilò i guanti di lattice e si accovacciò per esaminare il corpo. «Perché?».

«Viveva alla Taunusblick, la residenza per anziani qui vicino» s’intromise il collega della polizia ordinaria che aveva coordinato le prime operazioni. «Forse l’assassino non voleva rischiare che qualcuno sentisse gli spari».

«Come sa della Taunusblick?» chiese lei, sorpresa.

«Ho letto il nome sulla carrozzina». L’uomo indicò una sedia a rotelle abbandonata tra i cespugli a pochi metri di distanza. Osservando il cadavere, scoperto dal cane di un passante, Bodenstein provò un misto di compassione e rabbia. Povera donna, cos’aveva dovuto sopportare negli ultimi minuti della sua lunga vita! Paura, umiliazione… Era inquietante sapere che in giro c’era un assassino che stava diventando sempre piú sadico. Con l’ultima vittima aveva addirittura corso il rischio di essere notato. Di colpo il commissario fu assalito da un’irritante sensazione di impotenza. Quattro omicidi in una settimana e ancora brancolava nel buio.

«Abbiamo a che fare con un serial killer» aggiunse Pia, come se non fosse già abbastanza chiaro. «Se continua cosí, la stampa ci farà a pezzi».

Un agente si avvicinò passando sotto il nastro che delimitava la scena del crimine e fece un cenno di saluto a Bodenstein. «Nessuna denuncia di scomparsa» riferí. «Quelli della scientifica stanno arrivando».

«Grazie». Il commissario annuí. «Noi andiamo a fare qualche domanda nel posto in cui la signora viveva. Magari non si sono ancora accorti della sua scomparsa».

Poco dopo erano alla residenza Taunusblick. Entrando nell’enorme atrio con il pavimento di marmo splendente e le passatoie bordeaux, Pia rimase a bocca aperta. L’unico ricovero per anziani che aveva mai visto dall’interno era quello in cui sua nonna aveva trascorso gli ultimi anni di vita. Ricordava con chiarezza i pavimenti in linoleum, i corrimano di legno alle pareti e l’odore di urina e disinfettante. La Taunusblick sembrava piú un grand hotel, anche per il lungo bancone della reception in mogano tirato a lucido, le belle decorazioni floreali sistemate un po’ dappertutto, le targhe con le indicazioni a lettere dorate e il piacevole sottofondo musicale. La receptionist salutò entrambi con un gran sorriso e si informò gentilmente sul motivo della visita.

«Vorremmo parlare con la direttrice» disse Bodenstein, mostrando il tesserino della polizia. La giovane smise di sorridere e allungò una mano verso il telefono.

«Avverto subito la signora Kohlhaas. Un attimo solo».

«Scommetto che una pensione normale non basta per un posto cosí» sussurrò Pia al suo capo. «È incredibile!».

«È una residenza di lusso» confermò lui. «Ci sono persone che pagano con vent’anni di anticipo per passare qui la vecchiaia. Un appartamento costa tremila euro al mese».

Pia si sentí un po’ in colpa. Dopo una vita di duro lavoro sua nonna, ancora lucidissima, aveva dovuto trascorrere gli ultimi tre anni in mezzo a persone affette da demenza o gravemente non autosufficienti perché la famiglia non si era potuta permettere una sistemazione migliore. Pia avrebbe voluto farle visita piú spesso, ma non sopportava la vista di tutti quegli anziani in accappatoio con lo sguardo perso nel vuoto. Era troppo deprimente. I pasti preparati senza amore, la perdita dell’individualità, le cure insufficienti da parte di operatori oberati di lavoro e quasi sempre di malumore che non avevano tempo per parlare con gli ospiti… Non era giusto finire cosí la propria esistenza. Di sicuro quelli che potevano permettersi una vecchiaia serena alla Taunusblick erano sempre stati dei privilegiati. Una doppia ingiustizia.

Prima che potesse condividere questi pensieri, nell’atrio comparve la direttrice. Renate Kohlhaas era una donna dal fisico asciutto che dimostrava circa cinquant’anni. Aveva un caschetto brizzolato, un moderno paio di occhiali con montatura squadrata e un elegante tailleur pantalone. I vestiti puzzavano di fumo.

«Come posso aiutarvi?» chiese sorridendo nervosamente.

«Circa un’ora fa nel bosco è stato trovato il cadavere di una donna anziana» spiegò Bodenstein. «A poca distanza dal corpo c’era una sedia a rotelle con il nome della vostra residenza. Vorremmo sapere se la signora era un’ospite della Taunusblick».

Pia vide un lampo di paura negli occhi della direttrice.

«In effetti una delle nostre ospiti è sparita» ammise Renate Kohlhaas dopo un attimo di esitazione. «L’abbiamo cercata dappertutto, ma senza risultato. Ho appena telefonato alla polizia».

«Come si chiama la signora scomparsa?» domandò Pia.

«Anita Frings. Cos’è successo alla donna che avete trovato nel bosco?».

«Pare sia stata aggredita». Il commissario capo preferí tenersi sul vago. «Potrebbe aiutarci con l’identificazione?».

«Mi dispiace, ma…». Renate Kohlhaas s’interruppe a metà frase, forse perché all’improvviso le era venuto in mente che un rifiuto sarebbe sembrato strano. I suoi occhi guizzavano da una parte all’altra; stava diventando sempre piú nervosa.

«Ah, Multani!». Visibilmente sollevata, chiamò con un cenno la donna che stava uscendo proprio in quel momento dall’ascensore. «È la nostra governante. Un punto di riferimento per tutti gli ospiti. Vi sarà senz’altro piú utile di me».

Pia non poté non notare l’occhiata fulminante che la direttrice lanciò alla sottoposta prima di allontanarsi tacchettando. Dopo aver presentato se stessa e il commissario, tese la mano alla signora Multani, una bellezza asiatica con lucidi capelli neri, denti bianchissimi e uno sguardo di velluto che esprimeva una certa preoccupazione. Senza dubbio, con la sua sola presenza, una donna cosí addolciva la vecchiaia a tutti gli ospiti maschili. L’elegante divisa blu scuro e la camicetta bianca la facevano somigliare a una hostess della Cathay Pacific.

«Siete qui per la signora Frings?» chiese quasi senza accento. «È da stamattina presto che non si trova».

«Davvero? E come mai non avete chiamato subito la polizia?» s’informò Pia. La governante rimase un po’ spiazzata, poi guardò nella direzione in cui era scomparsa la direttrice.

«Veramente… La signora Kohlhaas ha detto che… Cioè, voleva chiamare subito alle sette e mezza».

«Ma se n’è dimenticata. Evidentemente ha cose piú importanti da fare».

Multani tentennò, ma non tradí la dirigente.

«Oggi abbiamo una visita importante. Una delegazione inviata dai nostri proprietari» disse per giustificarla. «Comunque io sono a vostra completa disposizione».

«Mio Dio!». Alla vista del cadavere la governante si coprí naso e bocca con le mani. Sembrava davvero sconvolta. «Sí, è la signora Frings. Ma cosa le hanno fatto?».

«Venga». Il commissario la prese delicatamente per un gomito e la riportò sul sentiero. Il collega della polizia ordinaria aveva ragione: l’assassino aveva agito nel bosco perché nella residenza per anziani troppe persone avrebbero potuto sentire gli spari. Bodenstein e Pia riaccompagnarono la signora Multani alla Taunusblick e salirono con l’ascensore al terzo piano, dove si trovava l’appartamento di Anita Frings. Volevano capire come si erano svolti i fatti. Possibile che l’assassino avesse portato via un’anziana in sedia a rotelle senza che nessuno vedesse niente?

«Avete un sistema di sorveglianza?» domandò Pia. «Delle telecamere?».

«No» rispose la governante dopo qualche secondo. «Molti ospiti vorrebbero, ma la direzione non si è ancora decisa».

Raccontò che la sera prima c’era stato un grosso evento, una rappresentazione teatrale nel parco della residenza con tanto di spettacolo pirotecnico. Avevano partecipato moltissime persone, sia ospiti sia visitatori giunti appositamente.

«A che ora è iniziato lo spettacolo pirotecnico?».

«Verso le undici e un quarto». A questa risposta Pia e Bodenstein si scambiarono un’occhiata. L’ora combaciava. L’assassino aveva approfittato dell’oscurità per condurre la donna nel bosco e durante lo spettacolo di fuochi artificiali le aveva sparato tre colpi.

«Quando vi siete accorti che era scomparsa?» domandò ancora Pia. La signora Multani si fermò davanti a una porta.

«Me ne sono accorta io a colazione. La signora Frings era sempre una delle prime a scendere. Anche se doveva usare la sedia a rotelle, si sforzava di essere autonoma.

Quando ho visto che non arrivava, l’ho chiamata. Poi sono salita a controllare».

«A che ora?».

«Sinceramente, di preciso non lo so». La governante era pallidissima. «Saranno state le sette e mezza, forse le otto. Dopo averla cercata dappertutto sono andata a informare la direttrice».

Pia guardò l’orologio. Erano le undici. La segnalazione del cadavere era arrivata verso le dieci. Cos’era successo dalle otto in poi? Chiederlo alla governante sarebbe stato inutile, era troppo confusa. La donna aprí la porta dell’appartamento e si spostò di lato per farli entrare. Pia si fermò all’ingresso del soggiorno e lasciò vagare lo sguardo. Moquette chiara, un tappeto persiano al centro, un divano in velluto con cuscini ornati di pizzo, una poltrona per la TV, un imponente mobile a ripiani, una credenza intagliata… «Strano» disse Parveen Multani alle sue spalle indicando la credenza. «Lí c’erano delle foto. E anche alla parete. E dove sono gli album e i raccoglitori che teneva su quei ripiani? Non c’è piú niente. Non è possibile! Quando sono entrata per cercarla era tutto a posto!».

Pia pensò subito al caso Goldberg e alla rapidità con cui si era agito per fermare le indagini. E ora? Cosa volevano nascondere? Com’era possibile che avessero saputo della morte di Anita Frings prima della polizia?

«Secondo lei, perché la direttrice non ha denunciato la scomparsa della signora non appena è stata informata?».

La signora Multani alzò le spalle.

«Credevo che l’avrebbe fatto. Mi ha detto che…». S’interruppe e scosse la testa.

«Ci sono state altre intrusioni in passato?».

La governante era chiaramente a disagio.

«Questa non è una residenza protetta» rispose con cautela. «I nostri ospiti possono andare e tornare come e quando vogliono. I visitatori sono piú che benvenuti. I nostri ristoranti e gli eventi sono aperti a tutti. Possiamo controllare ben poco».

Certo, il lusso della libertà aveva il suo prezzo. I controlli erano ridotti al minimo e il fatto che la residenza somigliasse in tutto e per tutto a un albergo spianava la strada ai malintenzionati. Pia si ripromise di cercare eventuali denunce per intrusioni o furti alla Taunusblick.

Bodenstein estrasse di tasca il cellulare e chiese l’intervento della scientifica. Poi, tutti e tre insieme, ripresero l’ascensore per tornare al pianterreno. La governante raccontò che Anita Frings era ospite della Taunusblick da ben quindici anni. «All’inizio capitava che andasse a trovare qualche amica e non tornasse per la notte. Ma parlo di tanto tempo fa. Ormai non poteva piú allontanarsi».

«Aveva amici tra gli altri ospiti della residenza?» chiese Pia.

Parveen ci pensò su. «No, non mi sembra. Era un tipo riservato, non dava molta confidenza».

L’ascensore si fermò con un leggero sobbalzo. Nell’atrio c’era la direttrice intenta a parlare con un gruppo di persone dall’aria professionale. Renate Kohlhaas non sembrò molto contenta di rivedere la polizia giudiziaria, tuttavia si scusò con i visitatori e si avvicinò a Bodenstein e Pia.

«Mi dispiace, ma ho pochissimo tempo. Devo tornare dai nostri ispettori esterni. Una volta all’anno vengono a fare un controllo per la certificazione di qualità».

«Ci vorrà solo un minuto» assicurò Pia. «Abbiamo avuto la conferma che la donna trovata nel bosco è la vostra ospite scomparsa, Anita Frings».

«Sí, l’ho saputo. È davvero terribile».

La direttrice cercò di assumere un’espressione affranta, ma si capiva benissimo che era irritata per i possibili risvolti negativi della faccenda. Sicuramente temeva che i dettagli dell’omicidio potessero causare un danno d’immagine alla sua rinomata residenza per anziani. Condusse entrambi in una piccola stanza dietro il bancone della reception.

«Posso fare qualcos’altro per voi?».

«Ci spieghi perché non ha denunciato subito la scomparsa della signora Frings». La richiesta di Pia irritò ulteriormente la direttrice.

«Veramente l’ho fatto» replicò quest’ultima. «Dopo aver parlato con la signora Multani ho chiamato immediatamente la polizia».

«La governante ci ha detto di averla informata tra le sette e mezza e le otto» intervenne Bodenstein. «E il cadavere è stato trovato verso le dieci».

«Non mi ha informato tra le sette e mezza e le otto. Erano circa le nove e un quarto quando Parveen è venuta da me».

«Ne è sicura?». Pia sentiva puzza di bruciato. Ma perché la signora Kohlhaas avrebbe dovuto aspettare prima di denunciare la scomparsa?

«Sí, sono sicurissima» dichiarò la direttrice.

«Ha già informato i parenti della signora Frings?» continuò Bodenstein. La donna esitò un attimo.

«La signora Frings non aveva parenti».

«Proprio nessuno?» insistette Pia. «Vi avrà sicuramente dato il nome di una persona da avvisare in caso di morte. Un avvocato, un conoscente…».

«Naturalmente ho chiesto subito alla mia segretaria di consultare la scheda della signora. Purtroppo non c’era nessun nome. Nessun numero da chiamare».

La commissaria decise di cambiare discorso.

«Secondo la governante, dall’appartamento della signora Frings sono sparite diverse cose. Chi può averle prese?».

«Ci dev’essere un errore, qui non ci sono ladri!». La direttrice sembrava indignata.

«A chi date le chiavi degli appartamenti?».

«Agli ospiti e a volte ai familiari. Ovviamente la signora Multani le ha tutte» rispose Renate Kohlhaas con evidente disagio. «Non vorrete sospettare della nostra governante, spero. Era l’unica a sapere della scomparsa della signora Frings, ma questo è irrilevante».

«Non era l’unica, anche lei era informata» fece notare Pia. La direttrice diventò paonazza, poi sbiancò.

«Farò finta di non aver sentito» disse freddamente.

«Scusate, devo tornare dagli ispettori».

Dall’appartamento era sparita ogni traccia della donna che vi aveva trascorso gli ultimi quindici anni di vita. Nessuna foto, nessuna lettera, nessun diario. Bodenstein e Pia non riuscivano a trovare una spiegazione. A chi potevano interessare gli effetti personali di un’ottantottenne?

«Mi sembra logico supporre che la signora Frings conoscesse Goldberg e Schneider» disse il commissario. «Il numero che li accomuna ha sicuramente un significato. E poi sono quasi certo che la signora conoscesse anche Vera Kaltensee».

«Perché la direttrice ha chiamato la polizia solo in tarda mattinata? L’assenza di Anita Frings è stata notata presto» rifletté Pia ad alta voce. «Quella donna si comporta in modo strano e non credo sia solo per la visita degli ispettori».

«Cosa ci guadagna dalla morte della signora Frings?».

«Un generoso lascito a favore della sua residenza? Forse ha fatto ripulire l’appartamento proprio per questo. Per eliminare qualunque indizio riguardante l’eredità».

«Ma non sapeva ancora che la signora era morta» obiettò Bodenstein.

Andarono a cercare Renate Kohlhaas nel suo ufficio. Nell’anticamera troneggiava una donna bassa e grassa ben oltre la cinquantina. I capelli tinti di biondo e messi in piega con quintali di lacca la facevano somigliare a una delle allegre Jacob Sisters, ma in realtà era un vero cerbero.

«Mi dispiace, ma la direttrice non è qui. Senza il suo permesso non posso darvi nessuna informazione sui nostri ospiti».

«Allora la chiami e si faccia autorizzare!» replicò bruscamente Pia, che non ne poteva piú. «Non abbiamo tutto il giorno!».

Senza battere ciglio, la segretaria la guardò da sopra gli occhiali con catenella dorata di gusto rétro.

«Abbiamo una visita importante» disse con freddezza. «La signora Kohlhaas sta facendo il giro della residenza. Non posso raggiungerla in nessun modo».

«A che ora dovrebbe tornare?».

«Verso le quindici». La segretaria sembrava irremovibile. Bodenstein decise di intervenire con un bel sorriso.

«So che la nostra presenza vi è d’intralcio, con gli ispettori e tutto il resto…» esordí con voce carezzevole. «Ma questa notte una delle vostre ospiti è stata rapita e barbaramente uccisa. Ci serve un indirizzo o un numero di telefono per informare i parenti. Se ci aiuta, eviteremo di disturbare la signora Kohlhaas».

La gentilezza del commissario riuscí laddove i modi bruschi di Pia avevano miseramente fallito. Il vecchio drago si ammorbidí all’istante.

«Posso estrarre tutte le informazioni necessarie dalla scheda della signora Frings» cinguettò.

«Grazie, davvero molto gentile». Bodenstein le fece l’occhiolino. «Se potesse darci anche una foto recente della signora, si libererebbe di noi in un secondo».

«Seduttore» mormorò Pia, strappando un rapido sorriso al suo capo. La segretaria batté sulla tastiera del computer e pochi istanti dopo la stampante laser sputò due fogli.

«Ecco». Con un enorme sorriso porse uno dei fogli a Bodenstein. «Questo dovrebbe aiutarvi».

«E l’altro?» chiese Pia.

«Informazioni interne» rispose la segretaria in tono sussiegoso. Poi, mentre la commissaria allungava una mano, compí un’elegante giravolta a sinistra con la sedia e sorridendo leziosamente infilò il foglio in un distruggidocumenti. «Ho istruzioni precise».

«Posso procurarmi un mandato di perquisizione in un’ora» minacciò Pia, ribollendo di rabbia. Tutto sommato, forse la Taunusblick non era il luogo ideale dove trascorrere la vecchiaia.

«Il materiale sta arrivando» disse Elard. «Subito dopo mezzogiorno davanti alla vecchia casa dei tuoi genitori. Va bene?».

Katharina guardò l’orologio che aveva al polso.

«Benissimo, grazie. Chiamo subito Thomas. È roba interessante?».

«Direi proprio di sí. Ci sono anche nove diari di Vera».

«Sul serio? Allora quello che ho sentito è vero».

«Sí, beh, è stato un piacere aiutarti. Buona…».

«Un attimo». Lo bloccò prima che potesse chiudere la telefonata. «Secondo te chi ha ammazzato i due vecchi?».

«Sono tre» la corresse lui.

«Tre?». Katharina si raddrizzò.

«Come, non lo sai?». La voce di Elard aveva una sfumatura divertita, quasi gli fosse stata appena fornita l’occasione di raccontare un buffo aneddoto. «Stanotte è stata uccisa la cara Anita. Un colpo alla nuca, come gli altri due».

«Non sembri particolarmente dispiaciuto».

«In effetti non lo sono. Non sopportavo nessuno dei tre».

«Neanch’io. Non è certo una novità».

«Goldberg, Schneider e Anita Frings» fece Elard, trasognato. «Resta solo Vera».

Il suo tono le fece drizzare le antenne. Possibile che fosse stato lui a uccidere i tre amici piú vecchi e intimi della madre? Il movente non gli mancava. L’avevano sempre trattato piú come un estraneo che come un membro della famiglia. La madre non gli dimostrava il minimo affetto, sembrava lo tollerasse a malapena.

«Secondo te chi è stato?» ripeté. «Hai qualche sospetto?».

«No, e comunque non m’interessa. Penso solo che l’assassino avrebbe dovuto agire trent’anni fa».

Nel primo pomeriggio Pia aveva parlato con una ventina di ospiti della Taunusblick – i piú vicini alla signora Frings, secondo la governante – e con alcuni assistenti. Purtroppo dai colloqui non era emerso niente di interessante. Anche l’estratto della scheda che Bodenstein, con i suoi modi galanti, aveva ottenuto dalla segretaria si era rivelato piuttosto inutile. Anita Frings non aveva né figli né nipoti; sembrava che in ottantotto anni di vita non avesse lasciato alcuna traccia di sé. Roba da stringere il cuore, il pensiero che nessuno avrebbe pianto la sua morte e sentito la sua mancanza. Era come se non fosse mai esistita. Presto avrebbero risistemato il suo appartamento alla Taunusblick e l’avrebbero assegnato al primo nome in lista d’attesa. Pia era comunque decisa a scoprire qualcosa di piú sull’anziana vittima. Senza dubbio non si sarebbe fatta scoraggiare da una segretaria che si credeva chissà chi e da una direttrice poco collaborativa. Si posizionò in un punto da cui poteva vedere la porta dell’ufficio di Renate Kohlhaas e attese pazientemente. Dopo tre quarti d’ora fu ricompensata: il cerbero dovette soddisfare un certo bisogno e si allontanò lasciando la porta aperta.

Pia sapeva che procurarsi del materiale senza autorizzazione era contro le regole, ma se ne fregò. Si accertò di non essere osservata, quindi attraversò il corridoio ed entrò nell’anticamera dell’ufficio. Con un paio di falcate raggiunse la scrivania, ci girò intorno e aprí il distruggidocumenti. La vecchia megera non si era data molto da fare, il contenitore era quasi vuoto. Afferrò la matassa di carta a striscioline e la nascose sotto la maglietta. Nel giro di un minuto era di nuovo in corridoio. Col cuore in gola attraversò l’atrio e uscí all’aperto, proseguendo poi lungo il margine del bosco in direzione della macchina, parcheggiata non lontano dal luogo in cui era stato rinvenuto il cadavere.

Nel momento in cui aprí la portiera ed estrasse la carta che pizzicava sotto la maglietta, si sorprese a pensare che la casa di Christoph si trovava ad appena due o trecento metri di distanza. Erano passate solo ventiquattr’ore dalla sua partenza, ma Pia ne sentiva già la mancanza, quasi come un dolore fisico. Per fortuna poteva distrarsi col lavoro, altrimenti avrebbe pensato soltanto a Christoph e a come trascorreva le sue serate in Sudafrica. Il suono del cellulare la riscosse bruscamente. Anche se il commissario capo le aveva ordinato piú volte di non accettare chiamate di tipo privato quand’era in servizio, non poté fare a meno di rispondere.

«Pia, sono Miriam». Sembrava agitata. «Hai un minuto?».

«Certo. È successo qualcosa?».

«Non lo so. Forse. Ho parlato con mia nonna di quello che ho scoperto all’istituto. Le ho spiegato che probabilmente Goldberg non era chi diceva di essere. All’inizio mi ha guardata in modo strano, credevo fosse arrabbiata; poi però mi ha chiesto perché stavo facendo ricerche sul suo passato… E io le ho raccontato tutto. Non ti dispiace, vero?».

«Se può esserci utile, non mi dispiace affatto». Pia incastrò il cellulare tra spalla e mento per liberare la mano destra e impugnare la leva del cambio.

«Mia nonna e Sarah, la moglie di Goldberg, andavano a scuola insieme a Berlino. Erano molto amiche, ma nel 1936 si dovettero separare. Dopo una brutta esperienza con tre tizi ubriachi, Sarah si trasferí in America con i genitori. Nonna dice che la sua amica non sembrava un’ebrea. Era alta, bionda… Faceva impazzire tutti i ragazzi. Una sera, mentre tornava a casa dopo il cinema, in tre cominciarono a importunarla. Le cose si stavano mettendo male, quando intervenne un giovane membro delle SS, che l’ha salvò e la accompagnò a casa. In segno di gratitudine lei gli regalò il medaglione che portava al collo. Si rincontrarono di nascosto un paio di volte, finché Sarah non lasciò Berlino con la famiglia. Undici anni piú tardi, però, Sarah rivide il medaglione su un ebreo di nome David Josua Goldberg! Se lo trovò davanti all’improvviso nella banca del padre a New York e in lui riconobbe subito il suo salvatore. Poco tempo dopo si sposarono. Sarah conosceva la vera identità del marito, ma non l’ha mai detto a nessuno, tranne che a mia nonna!».

Pia aveva ascoltato la storia in silenzio e con crescente incredulità. Era la prova definitiva della grande menzogna di David Goldberg, una menzogna che nel corso dei decenni aveva assunto dimensioni colossali.

«Per caso tua nonna si ricorda il vero nome di Goldberg?» chiese, trattenendo a stento l’emozione.

«Piú o meno. Ha detto che si chiamava Otto o Oskar. Comunque si ricorda che aveva frequentato l’accademia di Bad Tölz e che faceva parte della divisione SS Adolf Hitler. Sono sicura che queste informazioni ci aiuteranno ad approfondire le ricerche».

«Sei grande, Miri!». Pia sorrise. «Tua nonna ha aggiunto qualche altro particolare?».

«Goldberg non le è mai stato molto simpatico» continuò Miriam con voce tremante. «Ma Sarah le ha fatto giurare solennemente che avrebbe mantenuto il segreto. Non voleva che i figli sapessero la verità sul padre».

«A quanto pare l’hanno scoperta. Altrimenti perché Salomon Goldberg si sarebbe precipitato qui scomodando la CIA, il consolato generale e tutti gli altri?».

«Forse per motivi religiosi, come ti ho già spiegato» azzardò l’amica. «O forse perché Goldberg godeva di agganci dappertutto. A sentire mia nonna, aveva diversi passaporti e anche nel periodo piú “caldo” della guerra fredda riusciva a spostarsi nel blocco orientale senza nessun problema».

Fece una pausa.

«Vuoi sapere qual è l’aspetto piú scioccante di tutta questa storia?». Proseguí ancor prima di ricevere una risposta. «Non è il fatto che Goldberg fosse un ex nazista che si fingeva ebreo. No, questo lo posso anche accettare, in fondo non so come mi sarei comportata nella sua stessa situazione. Il desiderio di sopravvivenza è umano. Quello che mi sconvolge davvero è che abbia potuto mentire per sessant’anni…».

Finché non è finito sul tavolo di Henning Kirchhoff, pensò Pia.

«Ormai c’è solo una persona che conosce la verità».

La commissaria ne dubitava. Le persone informate sui fatti erano senz’altro di piú. Bisognava contare anche l’assassino di Goldberg, Schneider e Frings e quelli che stavano tentando di insabbiare tutto.

Thomas Ritter diede un tiro alla sigaretta e guardò spazientito l’orologio. Mezzogiorno e un quarto. Katharina l’aveva chiamato e gli aveva chiesto di raggiungere il parcheggio davanti al palazzo lussemburghese di Königstein per le undici. Qualcuno sarebbe passato a consegnare qualcosa. Thomas era arrivato puntuale, ormai aspettava da oltre un’ora e non ne poteva piú. Sapeva benissimo che la biografia di Vera Kaltensee aveva dei punti deboli, ma non sopportava che Katharina la definisse una schifezza priva di qualsiasi rivelazione scandalosa e con una qualità di scrittura insufficiente per un bestseller. Accidenti a lei! Ora era riuscita a procurargli altro materiale, tirandolo fuori dal cilindro come per magia. Cosa poteva essere? Aveva forse trovato il modo di dimostrare che l’incidente in cui aveva perso la vita Eugen Kaltensee era stato provocato? Di qualunque cosa si trattasse, per la prima edizione del libro era prevista una tiratura di centocinquantamila copie. Gli addetti stampa della casa editrice erano già all’opera per mettere a punto la strategia di lancio, organizzare interviste con i giornali tedeschi piú importanti e trovare un accordo con la Bild per un’anteprima esclusiva. Tutto questo metteva Ritter sotto pressione.

Attraverso il finestrino buttò via il mozzicone, che andò ad aggiungersi ai resti delle sigarette fumate nell’ultima ora. Un’anziana signora che stava passando con un barboncino altrettanto vecchio e acciaccato gli lanciò uno sguardo di rimprovero. Un secondo dopo nel parcheggio entrò un pick–up Mercedes color arancio. Il guidatore frenò, scese e si guardò intorno. Con grande sorpresa Ritter riconobbe Marcus Nowak, il restauratore che due anni prima aveva riportato all’antico splendore il mulino nella proprietà dei Kaltensee, i quali alla fine, come ringraziamento, l’avevano gabbato e diffamato nel peggiore dei modi. Anche quell’episodio aveva in parte contribuito alla rottura che da un giorno all’altro aveva sconvolto l’esistenza di Ritter, trasformandolo in un emarginato. Nel frattempo Nowak si era accorto della sua presenza e gli stava venendo incontro.

«Buongiorno» disse fermandosi accanto all’auto.

«Cosa vuole?». Ritter lo fissò con sospetto, senza fare il minimo gesto di scendere. Non voleva altri guai con Nowak.

«Credo di doverle consegnare qualcosa» replicò il restauratore, visibilmente nervoso. «Inoltre conosco una persona che potrebbe raccontarle altro su Vera Kaltensee. Mi segua con la macchina».

Ritter esitò. Sapeva che anche Nowak era una vittima della famiglia Kaltensee, ma non si fidava di lui. Che c’entrava con le informazioni promesse da Katharina? Non poteva permettersi alcun errore, soprattutto nell’ultima delicatissima fase del piano. Tuttavia era curioso. Fece un respiro profondo e si accorse di avere le mani che tremavano. Al diavolo! In gioco c’era del materiale sensazionale, almeno secondo Katharina. Ritter ne aveva bisogno, e comunque non aveva niente di meglio da fare. Doveva aspettare ancora un paio d’ore prima che Marleen tornasse a casa. Perché non usare questo tempo per parlare con l’amico o l’amica di Nowak?

Marie–Louise, la cognata di Bodenstein, socchiuse gli occhi e osservò attentamente la foto in bianco e nero che il commissario aveva ottenuto dalla segretaria di Renate Kohlhaas.

«Chi dovrebbe essere?».

«Ricordi se era presente alla festa di compleanno di Vera Kaltensee lo scorso sabato?» chiese lui. Era stata Pia a suggerirgli di fare qualche domanda al personale del castello in cui si era svolta la festa. Era infatti convinta che l’assassino non scegliesse le vittime a caso e che ci fosse un collegamento tra Anita Frings e Vera Kaltensee.

«Sí, è possibile» rispose Marie–Louise. «Ma perché me lo chiedi?».

«Stamattina abbiamo trovato il suo cadavere». Bodenstein sapeva che la cognata non si sarebbe sbottonata finché lui non avesse soddisfatto la sua curiosità.

«Quindi la nostra cucina non c’entra niente».

«Certo che no. Allora, te la ricordi?».

Marie–Louise guardò di nuovo la foto e alzò le spalle.

«Possiamo chiedere al personale di servizio. Vieni. Vuoi mangiare qualcosa?».

Quando c’era di mezzo del buon cibo, Bodenstein mostrava spesso e volentieri una terribile mancanza di disciplina. Un’offerta allettante come quella della cognata non si poteva rifiutare. Si lasciò condurre di buon grado nell’enorme cucina del ristorante, dove regnava già un’attività frenetica. Le stravaganti invenzioni culinarie dello chef Jean–Yves St Clair richiedevano ogni giorno diverse ore di preparazione. Il risultato, però, era sempre eccezionale.

«Ciao, papà». Per i gusti di Bodenstein, Rosalie aveva le guance un po’ troppo rosse e il corpo un po’ troppo vicino a quello del grande cuoco, che nonostante la qualifica era intento a tagliare personalmente le verdure. St Clair alzò lo sguardo e sorrise.

«Oliver! Non sapevo che la polizia giudiziaria si occupasse anche di cucina!».

Teniamo d’occhio gli chef di trentacinque anni che fanno perdere la testa alle apprendiste diciannovenni, pensò il commissario, senza però dire niente. Per quanto ne sapeva, St Clair si era sempre comportato in modo molto corretto nei confronti di Rosalie, con grande dispiacere di quest’ultima. Bodenstein si fermò un attimo a chiacchierare col francese e ne approfittò per informarsi sui progressi della figlia. Poco dopo Marie–Louise gli portò un piatto con una varietà incredibile di leccornie. Poi, mentre Bodenstein gustava astice, animella e sanguinaccio, mostrò la foto di Anita Frings al personale.

«Sí, sabato era qui» ricordò una ragazza. «Era su una sedia a rotelle».

Incuriosita, anche Rosalie diede un’occhiata alla foto.

«È vero» confermò. «Bastava che lo chiedessi alla nonna, era seduta proprio vicino a questa signora».

«Davvero?». Bodenstein riprese il foglio.

«Le è successo qualcosa?».

«Rosalie! Vieni a darmi una mano con queste verdure!» gridò St Clair dal fondo della cucina. La ragazza lo raggiunse in un lampo e Bodenstein guardò la cognata.

«Gli anni di apprendistato non sono una passeggiata» spiegò lei con un sorriso divertito, poi aggrottò le sopracciglia. Il ristorante avrebbe aperto nel giro di un’ora e senza dubbio c’erano ancora diverse cose da fare. Il commissario la ringraziò per lo spuntino e, decisamente corroborato, lasciò il castello.

Era quasi sera quando arrivò a Mühlenhof, dove fu accolto dal professor Elard Kaltensee. Purtroppo la madre non poteva ricevere nessuno; la notizia della tragica morte di una vecchia amica l’aveva sconvolta a tal punto che il medico le aveva dato un tranquillante e le aveva ordinato di riposare.

«Prego, entri». Il professore stava andando via, ma cambiò prontamente i suoi piani e fece accomodare Bodenstein in casa. «Posso offrirle qualcosa da bere?».

Il commissario lo seguí nel salone e rifiutò cortesemente l’offerta di un drink. Attraverso le finestre si vedevano guardie armate che camminavano in coppia avanti e indietro.

«Avete aumentato notevolmente le misure di sicurezza» osservò. «Come mai?».

Elard Kaltensee si preparò un bicchiere di cognac e si fermò con espressione assente dietro una delle poltrone. Era chiaro che la morte di Anita Frings non lo rattristava piú di quella di Goldberg o Schneider, tuttavia sembrava molto provato. La mano con il bicchiere tremava, il viso era segnato dalla stanchezza.

«Mia madre ha sempre avuto una leggera mania di persecuzione. Ora crede che sarà la prossima. Ha paura che qualcuno voglia spararle alla nuca qui in casa. E cosí mio fratello ha mandato i suoi uomini a sorvegliare la proprietà».

Bodenstein rimase sorpreso da tanto cinismo.

«Cosa può dirmi di Anita Frings?».

«Non molto». Kaltensee lo guardò con occhi arrossati. «Era un’amica di gioventú di mia madre, come lei originaria della Prussia orientale. Ha vissuto a lungo nella DDR, ma in seguito alla morte del marito, subito dopo la riunificazione, si è trasferita alla Taunusblick».

«Quando l’ha vista l’ultima volta?».

«Sabato, alla festa di compleanno di mia madre. Non ci siamo detti molto. In realtà non la conoscevo bene».

Il professore bevve un sorso di cognac.

«Purtroppo non sappiamo ancora da che parte indirizzare le indagini su questi omicidi» ammise Bodenstein. «Se mi potesse dire qualcosa di piú sugli amici di sua madre, ci sarebbe molto utile. Chi poteva volere la morte di persone cosí anziane?».

«Mi dispiace, non ne ho idea» rispose Kaltensee con cortese distacco.

«Goldberg e Schneider sono stati uccisi con la stessa arma, caricata con munizioni della seconda guerra mondiale. E su tutti e tre i luoghi del delitto abbiamo trovato il numero 16145. Crediamo sia una data, ma dobbiamo ancora capire cosa significhi. Per caso il 16 gennaio 1945 le suggerisce qualcosa?».

Bodenstein scrutò il viso impassibile del professore, nella speranza di scorgere un qualunque segno di emozione.

«Mi viene in mente il bombardamento di Magdeburgo da parte degli Alleati» disse l’uomo da vero esperto di storia. «Il 16 gennaio 1945 Hitler lasciò il quartier generale segreto nella Wetterau e si trasferí con i suoi fedelissimi nel bunker sotto la Cancelleria del Reich, da dove non è piú uscito».

Fece una breve pausa di riflessione.

«Mia madre e io siamo fuggiti dalla Prussia orientale proprio nel gennaio del 1945. Non so se fosse esattamente il 16».

«Si ricorda di quel periodo?».

«Solo vagamente. Non ho ricordi precisi, ero troppo piccolo. A dire il vero, quelli che considero ricordi potrebbero anche essere qualcosa di diverso. Forse sono spezzoni di film e documentari che ho visto nel corso degli anni e che mi sono rimasti impressi».

«Quanti anni aveva quand’è fuggito con sua madre? Se posso chiederlo, naturalmente».

«Non c’è problema». Kaltensee rigirò tra le dita il bicchiere ormai vuoto. «Sono nato il 23 agosto 1943».

«Allora dubito che possa ricordare qualcosa. Non aveva neanche due anni».

«Sí, in effetti è strano. Sono tornato diverse volte nella mia vecchia patria. Forse cosí mi sono costruito dei finti ricordi».

Elard Kaltensee conosceva il segreto di Goldberg? Difficile dirlo. Il professore era un tipo davvero indecifrabile. All’improvviso Bodenstein ebbe un’illuminazione.

«Ha conosciuto il suo vero padre?». A questa domanda notò un lampo di sorpresa negli occhi dell’altro.

«Il mio vero padre?».

«Lei non può essere figlio di Eugen Kaltensee».

«Ha ragione. Mia madre non ha mai ritenuto necessario rivelarmi l’identità dell’uomo con cui mi ha concepito. A cinque anni sono stato adottato dal mio patrigno».

«Che cognome aveva prima?».

«Zeydlitz–Lauenburg, quello di mia madre. Non era sposata».

Un orologio sistemato chissà dove segnò l’ora con sette melodiosi rintocchi.

«È possibile che fosse Goldberg il suo vero padre?» continuò il commissario. Kaltensee storse le labbra in un mezzo sorriso.

«Per carità! Al solo pensiero mi vengono i brividi».

«Perché?».

L’uomo si girò di nuovo verso il mobile e si versò dell’altro cognac.

«Goldberg non mi sopportava» spiegò. «E io non sopportavo lui».

Bodenstein aspettò invano che proseguisse.

«Sua madre come l’ha conosciuto?» domandò.

«Sono cresciuti nella stessa zona. Goldberg si è diplomato con uno dei miei zii, quello di cui porto il nome».

«Allora sua madre avrebbe dovuto saperlo».

«Cosa?».

«Che Goldberg non era ebreo».

«Come?». Kaltensee sembrava sinceramente stupito.

«Nel corso dell’autopsia abbiamo scoperto che Goldberg aveva il gruppo sanguigno tatuato sul suo braccio sinistro. Come lei forse saprà, è un segno distintivo delle SS».

Il professore lo fissò in silenzio, con una vena ben visibile che pulsava sulla tempia.

«Se è cosí, spero proprio che non fosse il mio padre biologico» disse senza l’ombra di un sorriso.

«Probabilmente è per questo che ci hanno tolto le indagini sul suo omicidio. Qualcuno vuole che la vera identità di Goldberg rimanga nascosta. Ma chi può avere interesse a mantenere un segreto del genere?».

Elard Kaltensee non rispose. Le ombre sotto gli occhi erano ora piú profonde. Aveva davvero un brutto aspetto. Si accasciò su una poltrona passandosi una mano sul viso.

«Crede che sua madre conoscesse il segreto di Goldberg?».

L’uomo ci pensò un attimo.

«Non lo so» ammise infine con una nota di amarezza nella voce. «Una donna che si rifiuta di dire al figlio chi sia il suo vero padre può senz’altro mentire al mondo intero per sessant’anni».

Evidentemente non correva buon sangue tra Kaltensee e la madre. Ma perché vivevano sotto lo stesso tetto? Il professore sperava ancora che un giorno lei gli avrebbe raccontato la verità sulla sua nascita? O il motivo era un altro? Quale?

«Anche Schneider era un ex membro delle SS» aggiunse Bodenstein. «Nella sua cantina abbiamo trovato un vero e proprio museo del nazismo. Inoltre aveva lo stesso tatuaggio di Goldberg».

Elard Kaltensee rimase immobile e muto, lo sguardo fisso nel vuoto. Il commissario avrebbe dato qualunque cosa per leggergli nel pensiero.

Pia sparpagliò sul tavolo della cucina la carta che aveva preso dal distruggidocumenti della segretaria e si mise al lavoro. Con cura cominciò a stendere le strisce e a sistemarle l’una accanto all’altra, ma c’era da sudare. La carta si ripiegava su se stessa, rifiutando ostinatamente di rivelare il suo segreto. Pia non aveva mai avuto molta pazienza e dopo un po’ capí che era inutile continuare cosí. Perplessa, si grattò la testa e cercò di trovare un modo per semplificare l’operazione. Il suo sguardo andò ai quattro cani di casa, poi all’orologio. Meglio smettere e occuparsi degli animali, altrimenti, in un impeto di rabbia, avrebbe buttato via tutto. In realtà si era ripromessa di fare un po’ d’ordine tra le scarpe sporche, le giacche, le cavezze e i secchi che si erano accumulati vicino alla porta d’ingresso, ma poteva anche rimandare.

Raggiunse a passo spedito la stalla, pulí i box e stese della paglia fresca sul pavimento. Poi fece entrare i cavalli che scorrazzavano nel recinto. Se il clima non avesse giocato qualche brutto tiro, presto sarebbe arrivato il momento di raccogliere il fieno. Le due strisce di verde ai lati della strada d’accesso, invece, erano pronte per essere tagliate già da tempo. Non appena aprí la porta del locale dove teneva il cibo per gli animali, come per magia apparvero i due gatti che da un paio di mesi avevano deciso di vivere a Birkenhof. Quello nero saltò sullo scaffale vicino al piano che Pia usava come appoggio quando preparava da mangiare. Prima che potesse impedirglielo, il micio rovesciò un’intera fila di scatolette e barattoli e corse a nascondersi.

«Dispettoso!» lo rimproverò, chinandosi per raccogliere tutto. All’improvviso, prendendo in mano lo spray per le code e le criniere, ebbe un’idea. Dopo aver dato da mangiare a cani, gatti, pennuti e cavalli rientrò velocemente in casa. Buttò il liquido nel lavandino e riempí il contenitore dello spray di acqua fresca, poi mise le strisce di carta su un canovaccio, le lisciò con le dita e le bagnò con lo spruzzo, coprendole infine con un secondo canovaccio. Forse non sarebbe servito a niente, ma valeva la pena tentare. L’atteggiamento della segretaria l’aveva decisamente insospettita. Chissà se la strega si era accorta che il distruggidocumenti era stato svuotato. Ridacchiando, si mise in cerca del ferro da stiro.

Prima, quando viveva con Henning, ogni cosa aveva il suo posto e la casa era sempre in perfetto ordine. A Birkenhof regnava invece il caos. Dopo piú di due anni non aveva ancora vuotato tutti gli scatoloni del trasloco. C’era sempre qualcosa di piú urgente da fare. Alla fine trovò il ferro nell’armadio in camera e poté stirare la carta inumidita. Si concesse solo una pausa per mangiare una lasagna vegetariana scaldata nel forno a microonde e un’insalata già pronta. Forse non era un esempio di alimentazione sana e ricca di vitamine, ma döner kebab e fast food erano senz’altro peggio. Per mettere insieme le strisce dovette usare tutta la pazienza e la precisione di cui era capace. Continuava a imprecare per la propria goffaggine e per le dita che tremavano, ma al termine della ricomposizione fu ripagata degli sforzi fatti.

«Caro gatto, questa volta ti devo proprio ringraziare» mormorò con un sorriso. Il foglio conteneva tutti i dati sensibili di Anita Frings, nata Willumat. Compreso l’ultimo indirizzo – Potsdam – prima del trasferimento alla Taunusblick. Ma perché la segretaria si era rifiutata di consegnarlo? Mentre si faceva questa domanda, le saltò all’occhio un nome. Guardò l’orologio alla parete. Le nove appena passate. Non era ancora troppo tardi per chiamare il commissario capo.

Il cellulare, impostato sulla modalità silenziosa, si mise a vibrare nella tasca interna della giacca. Bodenstein lo prese e sul display lesse il nome della collega. Elard Kaltensee era ancora seduto zitto e immobile, lo sguardo fisso nel vuoto e il bicchiere senza cognac in una mano.

«Sí?» fece il commissario a bassa voce.

«Capo, ho scoperto qualcosa» disse Pia Kirchhoff, tutta emozionata. «È già stato a Mühlenhof?».

«Ci sono in questo momento».

«Chieda alla padrona di casa come e quando ha saputo della morte di Anita Frings. Sono curiosa di sentire cosa risponde. Nella scheda della signora Frings c’è il nome di Vera Kaltensee. Era lei la persona da contattare in caso di necessità. Non solo era la tutrice dell’amica, ma le pagava anche l’appartamento alla Taunusblick. Ricorda che la governante è rimasta piuttosto sorpresa quando ha scoperto che non ci avevano ancora informato della scomparsa? Secondo me la direttrice ha chiamato subito Vera Kaltensee per farsi dare istruzioni».

Bodenstein ascoltò con attenzione e non poté evitare di domandarsi come la collega avesse ottenuto quelle informazioni.

«Forse non ha potuto avvisarci prima perché i Kaltensee volevano un po’ di tempo per ripulire l’appartamento di Anita Frings».

Davanti alle finestre passò un’auto, poi un’altra. Le gomme fecero scricchiolare la ghiaia.

Il commissario interruppe il flusso di parole della collega. «Devo chiudere. La richiamo io».

Poco dopo la porta del salone si aprí ed entrò una donna alta dai capelli scuri, seguita da Siegbert Kaltensee. Elard rimase seduto in poltrona, non li degnò neanche di uno sguardo.

«Buonasera, signor commissario». Siegbert gli diede la mano con un accenno di sorriso. «Le presento mia sorella Jutta».

Dal vivo la severa donna politica che Bodenstein aveva visto solo in televisione sembrava completamente diversa: era piú femminile, piú carina… Anzi, era proprio bella. Anche se non era esattamente il tipo di donna che preferiva, il commissario provò un’attrazione immediata. La spogliò con gli occhi ancora prima che tendesse la mano. Immaginarla nuda era alquanto inappropriato, ne era ben consapevole, e infatti per poco non arrossí davanti al suo sguardo azzurro e indagatore. Jutta Kaltensee lo squadrò dalla testa ai piedi, dando l’impressione di gradire ciò che vedeva.

«Mia madre mi ha parlato molto di lei. È un piacere conoscerla di persona». Sorridendo con misura, gli strinse la mano e la tenne un po’ piú a lungo del necessario. «Peccato che le circostanze siano cosí tristi».

«In effetti ero venuto per parlare con sua madre». Bodenstein si sforzò di controllare l’agitazione interiore provocata dagli occhi chiari della donna. «Ma suo fratello mi ha spiegato che ora non può ricevere nessuno».

«Anita era un’amica di vecchissima data». Jutta Kaltensee gli lasciò la mano e sospirò. «Gli avvenimenti degli ultimi giorni l’hanno messa a dura prova. A dire il vero, sono piuttosto preoccupata. Non è piú cosí forte come sembra. Ma chi è stato?».

«Stiamo cercando di scoprirlo, ma ci serve anche il vostro aiuto. Potete dedicarmi qualche minuto? Vorrei farvi un paio di domande».

«Certo» risposero in coro Siegbert e la sorella. Di colpo Elard si riscosse dal torpore, si alzò, posò il bicchiere vuoto su un tavolino e con gli occhi iniettati di sangue fissò gli altri due, che gli arrivavano alla spalla.

«Sapevate che Goldberg e Schneider erano membri delle SS?» chiese rivolto ai fratellastri.

Siegbert Kaltensee si limitò a inarcare brevemente le sopracciglia, ma il viso di Jutta fu attraversato da un lampo di paura. O almeno cosí sembrò al commissario.

«Zio Jossi nelle SS? Che assurdità!». Incredula, scoppiò a ridere e scosse il capo. «Come ti è venuta quest’idea? Mi sa che hai bevuto un po’ troppo».

«No, sono perfettamente sobrio. Come non mi succedeva da anni» replicò Elard Kaltensee, guardando con odio prima la sorella e poi il fratello. «Forse è per questo che adesso mi sembra tutto cosí chiaro. Non ne posso piú di questa famiglia dove si raccontano continuamente bugie!».

Jutta era visibilmente imbarazzata dal comportamento del fratello maggiore. Posò lo sguardo su Bodenstein e si scusò con un sorriso.

«Avevano il gruppo sanguigno tatuato sul braccio, come si usava nelle SS» proseguí Elard con espressione cupa. «Piú ci penso, piú mi convinco che erano davvero due nazisti. Goldberg, poi…».

«È la verità?» chiese Jutta, interrompendolo e tenendo gli occhi fissi sul commissario.

«Sí». Bodenstein annuí. «L’autopsia ha confermato che avevano entrambi quel tatuaggio».

«Non può essere!». La donna si girò verso Siegbert e gli prese la mano, come per farsi coraggio. «Posso anche credere che Herrmann fosse un nazista, ma non zio Jossi!».

Elard Kaltensee aprí la bocca per dire qualcosa, ma il fratello lo precedette.

«Siete riusciti a trovare Robert?».

«No, non ancora». Bodenstein seguí l’istinto e non si lasciò sfuggire una parola sul brutale omicidio di Monika Krämer. All’improvviso si rese conto che Elard non aveva chiesto notizie di Watkowiak.

«Professor Kaltensee, quando e come avete saputo della morte di Anita Frings?».

«Questa mattina, verso le sette e mezza, mia madre ha ricevuto al telefono la notizia che Anita era scomparsa. Un paio di ore dopo ci hanno informato che era morta».

Il commissario rimase stupito da questa risposta sincera. O il professore non aveva la presenza di spirito di mentire o era davvero in buona fede. Forse Pia Kirchhoff si sbagliava, forse non erano stati i Kaltensee a ripulire l’appartamento dell’anziana vittima.

«Come ha reagito sua madre?».

Si udí un trillo. Elard diede un’occhiata al display del cellulare e di colpo il suo viso impassibile si illuminò.

«Scusi, devo scappare. Ho un appuntamento importante in città».

Un secondo dopo era già sparito, senza un saluto o una stretta di mano. Jutta scrollò il capo.

«Il vizio di andare con ragazze che hanno la metà dei suoi anni lo sta distruggendo» commentò sarcastica. «Alla sua età dovrebbe darsi una regolata».

«Elard è in un periodo di crisi» spiegò Siegbert. «Non faccia caso al suo comportamento. Da quando è diventato professore emerito, circa sei mesi fa, non è piú lo stesso».

Bodenstein osservò i due Kaltensee rimasti; nonostante la differenza d’età, sembravano uniti. Attento e fin troppo gentile, Siegbert era un altro tipo difficile da decifrare. Non si capiva cosa pensasse davvero del fratello maggiore.

«Voi quando avete saputo della morte di Anita Frings?».

L’uomo corrugò la fronte, sforzandosi di ricordare. «Elard mi ha chiamato verso le dieci e mezza. Ero a Stoccolma per lavoro. Sono tornato a casa col primo aereo».

La sorella si sedette su una sedia, tirò fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca della giacca, ne accese una e inspirò profondamente.

«Sí, sono una fumatrice» ammise, strizzando l’occhio al commissario. «Non lo dica ai miei elettori o a mia madre».

«Promesso». Bodenstein annuí sorridendo. Nel frattempo Siegbert Kaltensee si versò del bourbon. Offrí da bere anche al commissario, che rifiutò di nuovo.

«Io sono stata avvisata con un sms» disse Jutta. «Eravamo in seduta plenaria e quindi avevo il cellulare in modalità silenziosa».

Bodenstein si avvicinò lentamente a un mobile su cui erano posate diverse foto di famiglia incorniciate in argento.

«Avete già qualche sospetto? Sapete chi può aver commesso questi tre omicidi?» domandò Siegbert.

Il commissario scosse la testa.

«Purtroppo no. Voi conoscevate bene tutte e tre le vittime. Chi poteva volere la loro morte?».

«Nessuno» rispose Jutta Kaltensee con decisione, dando un altro tiro alla sigaretta. «Non avevano mai fatto del male a nessuno. Zio Jossi l’ho conosciuto quand’era già vecchio, ma è sempre stato molto gentile. Mi portava sempre un regalo».

Questo ricordo le strappò un sorriso.

«Ricordi la sella da cowboy, Berti?» chiese al fratello, che storse il naso sentendosi chiamare cosí.

«Se non sbaglio, avevo otto o nove anni. Quella sella era talmente pesante che riuscivo a malapena a sollevarla. Ma il mio pony…».

«Ne avevi dieci» la corresse affettuosamente Siegbert. «E la prima volta hai usato quella cosa per cavalcare me in soggiorno».

«È vero. Il mio fratellone ha sempre fatto tutto quello che volevo».

L’accento cadde sulla parola «tutto». Con uno sbuffo di fumo dal naso, la donna fissò Bodenstein e gli regalò un altro sorriso. Non era una semplice manifestazione di curiosità. All’improvviso il commissario capo sentí un gran caldo.

«A volte ho questo potere sugli uomini» aggiunse lei senza distogliere lo sguardo.

«Jossi Goldberg era una persona molto attenta e disponibile» disse Siegbert, mettendosi accanto alla sorella con il bicchiere di bourbon in mano. I due continuarono a raccontare a turno, descrivendo Goldberg e Schneider in modo completamente diverso rispetto a Elard. Si comportavano con grande naturalezza, eppure Bodenstein aveva l’impressione di assistere a una recita.

«Herrmann e la moglie erano una coppia deliziosa». Jutta Kaltensee schiacciò la sigaretta nel posacenere. «Davvero. Mi piacevano molto. Anita l’ho incontrata per la prima volta alla fine degli anni Ottanta. Sono rimasta molto sorpresa quando ho saputo che mio padre le aveva lasciato una quota della società. Purtroppo non so cos’altro dire su di lei».

Si alzò dalla sedia.

«Anita e nostra madre si conoscevano da una vita» proseguí Siegbert Kaltensee. «Erano amiche d’infanzia. Sono sempre rimaste in contatto, anche se Anita ha vissuto nella DDR fino alla riunificazione».

«Mmh». Bodenstein prese una delle foto incorniciate e la guardò con attenzione.

«Il giorno del matrimonio dei miei genitori». Jutta lo raggiunse e prese un’altra foto dal mobile. «E questa… Ehi, Berti, sapevi che la mamma l’aveva messa in cornice?».

Sorrise divertita.

«È stata scattata dopo l’esame di maturità di Elard» spiegò il fratello, sorridendo a sua volta. «La odio».

Non era difficile capire perché. Nella foto Elard Kaltensee aveva circa diciotto anni. Era un ragazzo alto, magro e di bell’aspetto, dotato di un fascino misterioso. Siegbert, invece, era rotondo come un porcellino, aveva una capigliatura rada e quasi incolore e due guance piene.

«Questa sono io il giorno del mio diciassettesimo compleanno». Jutta indicò una terza foto e lanciò un’occhiata trasversale a Bodenstein. «Agile e snella. Mia madre mi trascinò dal dottore perché credeva che soffrissi di anoressia. Purtroppo le cose sono un po’ cambiate da allora».

Ridacchiando fece scivolare le mani sui fianchi, che sembravano assolutamente perfetti. Un gesto noncurante, con cui però riuscí a spostare l’attenzione del commissario sul proprio corpo. Come se sapesse ciò che gli era passato per la testa all’inizio del loro incontro. Mentre Bodenstein si chiedeva se il gesto fosse intenzionale, Jutta mostrò un’altra fotografia. Lei e una ragazza dai capelli neri, entrambe sorridenti. Dimostravano circa venticinque anni. «Katharina, la mia migliore amica. Questa ce l’hanno fatta a Roma. Kati e io eravamo inseparabili, ci chiamavano “le gemelle”».

Il commissario osservò la foto. L’amica di Jutta sembrava una modella. Al suo fianco la giovane Kaltensee era quasi insignificante. Puntò il dito verso un’altra immagine. Sempre Jutta da ragazza, con uno sconosciuto che doveva avere piú o meno la stessa età.

«Chi è?».

«Robert». Era talmente vicina che Bodenstein riusciva a sentire non solo il suo profumo, ma anche il leggero odore di fumo che aveva addosso. «Siamo coetanei. Sono nata solo un giorno prima di lui. Questa cosa ha sempre infastidito molto mia madre».

«Perché?».

Jutta si girò per guardarlo. Il suo viso era a un palmo di distanza, il commissario riusciva addirittura a distinguere delle striature piú scure nelle iridi azzurre. «Beh, provi a immaginare. Mio padre ha messo incinta lei e l’altra donna quasi lo stesso giorno».

L’esplicito riferimento a eventi accaduti nell’intimità mise Bodenstein in imbarazzo. Lei sembrò accorgersene; le sue labbra si piegarono in un sorriso malizioso.

«Secondo me è stato Robert» s’intromise Siegbert da dietro. «Chiedeva continuamente soldi a nostra madre e ai suoi amici, anche dopo che gli ho ordinato di non farsi piú vedere».

Jutta rimise a posto le fotografie.

«È caduto in basso» confermò con dispiacere. «Da quando è uscito di prigione non ha neanche un posto fisso dove dormire. È molto triste che sia finito cosí, aveva tutte le possibilità di questo mondo».

«Quando gli avete parlato l’ultima volta?» domandò Bodenstein. Fratello e sorella si scambiarono uno sguardo.

«Per quanto mi riguarda, è passato un bel po’ di tempo» disse lei. «Credo di avergli parlato durante la mia ultima campagna elettorale. Avevamo un banchetto nella zona pedonale di Bad Soden e all’improvviso me lo sono trovato davanti. Sulle prime non l’ho nemmeno riconosciuto».

«E non ti ha chiesto niente?». Siegbert Kaltensee sbuffò con aria sprezzante. «I soldi sono sempre stati la sua unica preoccupazione. Dopo averlo cacciato via, non l’ho piú visto. Probabilmente ha capito che da me non avrebbe avuto neanche un centesimo».

«Ci hanno tolto le indagini sull’omicidio di Goldberg» spiegò il commissario. «E stamattina hanno ripulito l’appartamento della signora Frings prima che potessimo dare un’occhiata ai suoi possedimenti».

I due Kaltensee lo guardarono perplessi. Non si aspettavano che cambiasse discorso in modo cosí repentino.

«Perché hanno ripulito l’appartamento?» domandò Siegbert.

«Forse perché qualcuno vuole impedirci di indagare».

«Per quale motivo?».

«Bella domanda. Sinceramente non lo so».

Intervenne Jutta con un’ipotesi. «Anita non era certo ricca, ma aveva dei gioielli. Forse è stato qualcuno della Taunusblick. Loro sapevano senz’altro che non aveva figli».

Bodenstein prese in considerazione questa possibilità. Se avessero voluto solo i gioielli, però, non avrebbero ripulito l’appartamento da cima a fondo.

«Non può essere una coincidenza che abbiano ucciso tutti e tre nello stesso modo» continuò la donna, ragionando ad alta voce. «Zio Jossi aveva un passato turbolento, di sicuro si era fatto amici e nemici. Ma zio Herrmann? E Anita? Per me non ha senso».

«Quello che ci dà piú da pensare è il numero trovato sui tre luoghi del delitto. 16145. Credo che per l’assassino abbia un significato. Dobbiamo solo scoprire quale».

La porta si aprí senza preavviso, facendo trasalire Jutta. Nel vano apparve Moormann.

«Potrebbe anche bussare!» lo rimproverò lei.

«Chiedo scusa». L’uomo salutò Bodenstein con un cenno del capo, nessuna espressione sul viso da cavallo. «La signora si sente male. Volevo solo avvisarvi prima di chiamare il medico».

«Grazie. Saliamo subito» disse Siegbert.

Moormann accennò un inchino e scomparve.

«Mi dispiace». Kaltensee sembrava molto preoccupato. Infilò le dita nel taschino interno della giacca, estrasse un biglietto da visita e lo porse al commissario. «Se ha altre domande, non esiti a chiamarmi».

«Bene. Spero che sua madre si rimetta presto. Le faccia i miei auguri».

«Senz’altro. Andiamo, Jutta?».

«Arrivo tra un attimo». Aspettò che il fratello uscisse dalla stanza, poi, con gesti nervosi, tirò fuori un’altra sigaretta dal pacchetto.

«Maledetto Moormann!». Pallidissima in volto, diede un lungo tiro. «È talmente silenzioso che ogni volta mi fa venire un colpo. Vecchio spione!».

Bodenstein rimase stupito dalle sue parole. Jutta era cresciuta a Mühlenhof, doveva essere abituata fin dall’infanzia ai domestici discreti. Insieme attraversarono l’atrio per raggiungere la porta principale. Lei si guardò intorno in modo circospetto.

«C’è un’altra persona con cui dovrebbe parlare» sussurrò. «Thomas Ritter, l’ex assistente di mia madre. Secondo me è stato lui».

Il commissario capo si diresse pensosamente verso l’auto. Elard Kaltensee non amava né la madre né i fratelli, da cui veniva trattato con condiscendenza. Allora perché viveva ancora nella residenza di famiglia? Siegbert e Jutta Kaltensee si erano mostrati gentili e disponibili e avevano risposto a tutte le domande senza esitare, ma neanche loro sembravano particolarmente scossi per la morte improvvisa e brutale di tre anziani con cui dicevano di avere un buon rapporto. Raggiunta la macchina, Bodenstein si bloccò. Durante il colloquio con i due fratelli era rimasto colpito da una frase, solo che al momento non ricordava quale. Mentre il sole tramontava in lontananza, con un sibilo entrarono in funzione gli irrigatori che permettevano a Mühlenhof di avere un bel prato verde brillante. Di colpo gli tornò in mente la frase. Era stata Jutta a pronunciarla. Parole dette cosí, en passant, ma potevano anche essere importanti.