Giovedí, 3 maggio 2007

Bodenstein salí faticosamente la scala per raggiungere l’ufficio 11 al primo piano. Non erano ancora le otto e si sentiva già esausto. La piccola Sophia aveva pianto per buona parte della notte impedendogli di dormire, anche se Cosima si era gentilmente trasferita nell’altra camera. Poi, mentre si recava al lavoro, aveva trovato un incidente poco prima di Hofheim ed era rimasto bloccato per mezz’ora sulla B519. Come se tutto ciò non bastasse, mentre arrancava sugli ultimi gradini vide sbucare Nierhoff dal suo ufficio.

«Buongiorno» disse quest’ultimo, sfregandosi le mani e sorridendo affabilmente. «Complimenti, Bodenstein, è stato velocissimo. Ottimo lavoro».

Il commissario capo lo guardò irritato e capí che l’incontro non era affatto casuale. Odiava essere colto di sorpresa cosí, ancor prima di aver avuto il tempo per un sorso di caffè.

«Buongiorno» rispose. «Posso sapere di cosa sta parlando?».

«Stiamo per diffondere la notizia» proseguí Nierhoff senza far caso alla domanda. «Ho già istruito il nostro addetto stampa e tutti…».

«Quale notizia?» lo interruppe Bodenstein. «Mi sono perso qualcosa?».

«Gli omicidi sono stati chiariti» spiegò il capo, trionfante. «Ha identificato l’assassino. Tutto risolto».

«Davvero?». Il commissario fece un cenno di saluto a due colleghi che stavano passando.

«Beh, Kathrin Fachinger mi ha detto che…».

«Un attimo». Era da maleducati interromperlo in continuazione, ma a Bodenstein non importava. «Ieri abbiamo scoperto il cadavere di una ragazza che conosceva l’uomo di cui abbiamo trovato tracce sia da Goldberg che da Schneider, ma ci manca l’arma del delitto e non possiamo dimostrare che sia davvero lui l’assassino. Non abbiamo ancora risolto niente».

«Perché vuole complicarsi la vita? Tutti gli indizi sono contro di lui. Ha ucciso i due vecchi per i soldi e poi ha fatto fuori la ragazza per evitare che parlasse. Quando lo prenderemo, confesserà». Per Nierhoff era tutto chiaro. «La conferenza stampa è fissata per le undici. Vorrei che fosse presente anche lei».

Incredibile. La giornata era iniziata male, ma stava continuando ancora peggio.

«Mi raccomando, sia puntuale. Alle undici nella sala grande». Nierhoff non gli lasciò il tempo di replicare. «Dopo faremo una bella chiacchierata nel mio ufficio».

Detto questo, se ne andò sorridendo tutto soddisfatto.

Bodenstein aprí di scatto la porta dell’ufficio di Hasse e Fachinger. Erano già seduti tutti e due alla scrivania. Hasse si affrettò a battere un dito sulla tastiera del computer. Senza dubbio stava usando internet per scopi privati, probabilmente per cercare un bel posto a sud dove trascorrere l’età della pensione. Il commissario fece finta di niente e senza un saluto si rivolse al componente piú giovane della sua squadra.

«Fachinger, venga nel mio ufficio!».

Anche se era molto arrabbiato, non voleva riprenderla di fronte al collega.

Un attimo dopo la giovane poliziotta lo raggiunse tutta preoccupata e si chiuse cautamente la porta alle spalle. Bodenstein prese posto dietro la scrivania, ma non le offrí una sedia.

«Perché ha detto a Nierhoff che i due omicidi sono ormai risolti?» chiese in tono duro, fissandola. Nonostante la giovane età, era brava nel suo lavoro, anche se purtroppo non aveva grande fiducia in se stessa e tendeva a sbagliare per eccesso di zelo.

«Io?». Il viso di Kathrin Fachinger diventò paonazzo. «Perché avrei dovuto dirgli una cosa simile?».

«È proprio quello che vorrei sapere».

«Beh, ecco… Ieri sera è… è venuto in sala riunioni» balbettò, sempre piú agitata. «Voleva parlare con lei. Ha chiesto a che punto erano le indagini e io gli ho risposto che avevate trovato il cadavere della ragazza che stava con l’uomo di cui c’era traccia su entrambi i luoghi del delitto».

Bodenstein continuò a guardarla e sentí la rabbia svanire con la stessa rapidità con cui era arrivata.

«Non gli ho detto altro. Davvero, capo. Glielo giuro».

Era portato a crederle. Nierhoff non vedeva l’ora di chiudere la faccenda, quindi aveva preso i risultati delle indagini e li aveva messi insieme nel modo che piú gli tornava utile. Una cosa scandalosa. E anche piuttosto strana.

«Stia tranquilla, le credo. Mi dispiace di essere stato cosí brusco. È già arrivato Behnke?».

«No». Kathrin Fachinger sembrava a disagio. «Lui… è in malattia».

«Ah già. E la Kirchhoff?».

«Ha accompagnato il dottor Sander all’aeroporto e poi è andata direttamente all’istituto di Medicina legale. L’autopsia di Monika Krämer era fissata per le otto».

«Come mai quella faccia?». Henning Kirchhoff salutò cosí l’ex moglie quando, poco prima delle otto, la vide entrare nella sala autopsie dell’istituto di Medicina legale. Pia si guardò rapidamente nello specchio sopra il lavello. In realtà non si presentava tanto male, soprattutto per una che aveva dormito pochissimo e pianto in macchina fino a dieci minuti prima. Nella confusione dell’aeroporto, il commiato da Christoph era stato un po’ troppo sbrigativo. Due colleghi di Berlino e Wuppertal diretti in Sudafrica per lo stesso convegno lo stavano aspettando al terminal. Uno dei due – quello di Berlino – era una donna, per di piú molto attraente, il che le aveva provocato una fitta di gelosia. Dopo un ultimo abbraccio e un breve bacio, Christoph si era allontanato insieme ai colleghi. Pia l’aveva seguito con lo sguardo, sopraffatta da un terribile senso di vuoto. «Ti ricordi la mia amica Miriam?» domandò a Henning.

«Io e la signorina Horowitz abbiamo avuto la fortuna di incontrarci solo una volta, tanti anni fa». Sembrava che Miriam non gli fosse molto simpatica. All’improvviso ricordò cos’era successo quell’unica volta: lei lo aveva definito un «dottor Frankenstein senza il minimo senso dell’umorismo» e lui aveva replicato in tono sprezzante dandole dell’«oca giuliva». Avrebbe potuto raccontargli che Miriam non era piú la stessa, che era diventata una persona seria, ma decise di lasciar perdere.

«Beh, ci siamo riviste per caso pochi giorni fa. Adesso lavora all’istituto Fritz Bauer».

«Sarà stato il padre a procurarle il posto». Un’osservazione piena di rancore, tipica di Henning. Pia fece finta di non aver sentito.

«Le ho chiesto di fare qualche ricerca su Goldberg. Naturalmente le sembrava impossibile che fosse un ex membro delle SS, ma poi nell’archivio dell’istituto ha trovato del materiale su di lui e sulla sua famiglia. I nazisti documentavano tutto in modo scrupoloso».

Ronnie li raggiunse vicino al tavolo autoptico, su cui era già sistemato il corpo svestito e lavato di Monika Krämer, che in un ambiente diverso dall’appartamento non faceva piú tanta impressione. Pia raccontò che nel marzo del 1942 tutti gli ebrei di Angerburg erano stati deportati a Plaszow. I familiari di Goldberg non ce l’avevano fatta, ma lui era sopravvissuto fino allo sgombero del campo, avvenuto nel gennaio del 1945. A quel punto i prigionieri erano stati trasferiti in massa ad Auschwitz, dove Goldberg era morto in una camera a gas. Nella sala autopsie scese il silenzio. Lei fissò i due uomini in attesa che parlassero.

«Quindi?» domandò Henning con condiscendenza. «Cosa c’è di tanto sconvolgente?».

«Ma non capisci?» fece Pia, irritata dalla sua reazione. «Significa che l’uomo finito sul tuo tavolo per autopsie non era affatto David Josua Goldberg».

«Okay». Il dottore si strinse nelle spalle, per niente impressionato. «Si può sapere dov’è il procuratore? Odio le persone che arrivano in ritardo!».

«Sono qui» rispose una voce femminile. «Buongiorno».

La procuratrice Valerie Löblich entrò tutta impettita, rivolse un cenno di saluto a Ronnie Böhme e ignorò completamente Pia, che tuttavia notò con interesse l’improvviso disagio dell’ex marito.

«Buongiorno, dottoressa Löblich» disse Henning.

«Buongiorno, dottor Kirchhoff» ripeté freddamente la donna. Tutta questa formalità strappò un sorriso a Pia e le fece tornare in mente l’ultima volta che aveva visto la procuratrice. Nel soggiorno di Henning, in una situazione quanto meno compromettente. Quel giorno erano entrambi molto meno vestiti.

«Bene, possiamo cominciare». Henning si mise all’opera, evitando accuratamente di incrociare lo sguardo di Pia e della Löblich. Aveva giurato e spergiurato di non aver avuto altri incontri ravvicinati con la procuratrice, benché lei insistesse per ripetere l’esperienza. Naturalmente la donna dava la colpa a Pia. Per questo motivo la commissaria preferí tenersi in disparte mentre l’ex marito eseguiva un primo esame del cadavere, registrando tutte le sue osservazioni con l’ausilio del microfono che aveva al collo.

«Ora ha messo gli occhi su un giudice» bisbigliò Ronnie, indicando con un cenno la procuratrice, piantata a braccia conserte accanto al tavolo. Pia alzò le spalle in segno di disinteresse. Cosce e schiena indolenzite le ricordarono improvvisamente la notte di passione tra le braccia di Christoph. Cercò di calcolare a che ora sarebbe arrivato a Città del Capo. Le aveva promesso un sms appena atterrato. Chissà se l’avrebbe fatto davvero. Distratta da questi pensieri, quasi non si accorse di ciò che avveniva nella sala autopsie.

Henning allargò il taglio che l’assassino aveva inferto alla sua vittima, estrasse un organo dopo l’altro e dissezionò il cuore. Ronnie prese i campioni prelevati dallo stomaco e li portò al piano superiore, dove si trovava il laboratorio. Tutto si svolse in silenzio, l’unico a parlare era il dottor Kirchhoff, che descriveva ogni operazione a mezza voce per la successiva stesura del rapporto.

«Pia!» esclamò di punto in bianco. «Che fai? Dormi?».

Riscossa bruscamente, Pia si avvicinò al tavolo. Anche la procuratrice fece un passo avanti.

«L’assassino deve aver usato un becco di falco lungo circa dieci centimetri» disse Henning. «L’ha sventrata senza la minima esitazione. La lama è affondata con forza, danneggiando gli organi interni e lasciando delle incisioni sulle costole».

«Cos’è un becco di falco?» domandò Valerie Löblich.

«Non glielo devo spiegare io. Faccia i compiti a casa».

«È una lama a forma di mezzaluna» intervenne Pia, mossa a pietà dalla rispostaccia dell’ex marito. «Originariamente veniva usata dai pescatori indonesiani. I coltelli con questo tipo di lama non sono adatti per tagliare, sono vere e proprie armi».

«Grazie». La donna le rivolse un cenno del capo.

«Un coltello cosí non si compra al supermercato». Per qualche strano motivo l’umore di Henning era peggiorato di colpo. «Ho visto ferite simili sulle vittime dell’UÇK in Kosovo».

«E gli occhi?». Pia cercò di rimanere distaccata, ma sotto sotto tremava al pensiero di ciò che aveva subito la ragazza prima di morire.

«Cosa vuoi che ti dica? Non ci sono ancora arrivato!» abbaiò lui.

Le due donne si scambiarono un’occhiata di comprensione che non sfuggí al dottore. Kirchhoff si concentrò sulla zona genitale della vittima e raccolse alcuni campioni, borbottando tra sé e sé. D’istinto Pia rivolse un pensiero alla povera segretaria che avrebbe dovuto trascrivere la registrazione. Venti minuti dopo Henning stava finalmente esaminando il viso di Monika Krämer. Osservò le labbra bluastre con una lente d’ingrandimento, poi le aprí la bocca e ispezionò il cavo orale.

«Allora?» chiese Valerie Löblich, innervosita. «Non ci tenga sulle spine!».

«Ancora un po’ di pazienza, dottoressa» fece Henning in tono sarcastico. Prese il bisturi e incise la gola per esporre esofago e laringe; dopodiché, tutto concentrato, prelevò altri campioni con gli appositi bastoncini cotonati, consegnandone uno per volta all’assistente. Infine esaminò di nuovo la bocca e l’esofago con una lampada a raggi ultravioletti.

«Ah!». Si raddrizzò. «Vuole dare un’occhiata, signora Löblich?».

La procuratrice annuí e si sporse in avanti.

«Piú vicina» disse lui. Immaginando cosa volesse mostrarle, Pia scosse la testa. Henning stava davvero esagerando. Ronnie, che sapeva altrettanto bene dove sarebbe andato a parare il dottore, tratteneva a fatica un sorriso.

«Cosa dovrei vedere?» chiese Valerie Löblich.

«I punti dove il blu è piú brillante».

«Okay». Alzò lo sguardo e corrugò la fronte. «Veleno?».

«Mah, forse lo sperma era avvelenato, però al momento non posso dirlo con certezza». Kirchhoff fece un sorrisetto. «Dovremo aspettare l’esito degli esami di laboratorio».

La procuratrice, che non si aspettava uno scherzo simile in sala autopsie, diventò tutta rossa in viso. «Sai una cosa, Henning? Sei uno stronzo!» sbottò. «Se continui cosí finirai su questo tavolo prima di quanto immagini!».

Offesa, girò sui tacchi e uscí a passo deciso. Kirchhoff la seguí con lo sguardo, poi alzò le spalle e guardò Pia.

«Hai sentito, vero?» disse con aria innocente. «Mi ha minacciato di morte. Queste procuratrici non hanno nessun senso dell’umorismo».

«Ti sta bene» replicò la commissaria. «Secondo te è stata violentata?».

«Chi? La Löblich?».

«Piantala, Henning. Basta con gli scherzi».

«Mio Dio!» fece lui con insolita veemenza, dopo aver accertato che Ronnie non fosse in sala autopsie. «Quella donna è cosí irritante! Non vuole lasciarmi in pace. Chiama in continuazione con un sacco di sciocchezze!».

«Forse le hai dato delle false speranze».

«Tu le hai dato delle false speranze, costringendomi a divorziare!».

«Okay, è ufficiale: sei completamente pazzo». Pia scrollò il capo, esterrefatta. «Comunque puoi stare tranquillo, dopo il trattamento di oggi non ti disturberà piú».

«Non credo che avrò questa fortuna. Si rifarà viva al massimo tra un’ora».

Pia lo fissò con durezza.

«Scommetto che mi hai raccontato una palla».

«Di che cosa parli?».

«Della scorsa estate, quando vi ho sorpreso sul tavolo del soggiorno. Non è stata l’unica volta. O sbaglio?».

Sul viso di Kirchhoff apparve una chiara espressione di colpevolezza. Un secondo dopo rientrò Ronnie Böhme e la conversazione tornò immediatamente sul piano professionale.

«No, non è stata violentata, però ha avuto un rapporto orale poco prima del decesso» spiegò il dottore. «Le ferite inferte col coltello sono state fatali. È morta dissanguata».

«Monika Krämer è morta dissanguata per le profonde ferite che qualcuno le ha inferto con una lama a becco di falco». Era passata circa un’ora e Pia stava aggiornando il resto della squadra in sala riunioni. «In bocca e in gola c’erano tracce di sperma. Abbiamo già il DNA di Watkowiak nel nostro archivio, quindi in un paio di giorni sapremo se è stato lui a fare sesso con la vittima. I colleghi della scientifica stanno analizzando capelli, fibre e tutto quello che è stato prelevato sul luogo del delitto. Non dovremo aspettare molto per sapere se c’è il DNA di qualcun altro».

Bodenstein lanciò un’occhiata a Nierhoff, sperando che si rendesse conto della situazione. Per il momento non c’erano prove solide contro Watkowiak. Di sotto si erano già radunati i numerosi giornalisti invitati dal suo superiore, che non vedeva l’ora di pavoneggiarsi per la rapida identificazione dell’assassino di Goldberg e Schneider.

«Watkowiak ha raccontato tutto alla sua amica, poi ci ha ripensato e ha ucciso anche lei» disse Nierhoff, alzandosi. «Questo dimostra chiaramente che è un uomo violento. Ottimo lavoro. Bodenstein, si ricordi che dobbiamo parlare. Alle dodici nel mio ufficio».

Subito dopo uscí a passo spedito dalla sala riunioni e si diresse verso il luogo della conferenza stampa, senza insistere con il commissario capo perché lo accompagnasse. Per un attimo regnò il silenzio.

«Cosa racconterà ai giornalisti?» chiese Ostermann.

«Non ne ho idea». Bodenstein si era rassegnato. «Comunque non credo che Nierhoff possa danneggiare le indagini diffondendo una notizia sbagliata».

«Non è stato Watkowiak a uccidere Goldberg e Schneider?» domandò timidamente Kathrin Fachinger.

«No. È un delinquente incallito, ma non un assassino. Secondo me non ha ucciso neanche Monika Krämer».

Kathrin e Ostermann lo guardarono sorpresi.

«Ho la sensazione che qualcuno ci abbia messo lo zampino. Non vogliono che ficchiamo il naso in questa faccenda e quindi per gli omicidi di Goldberg e Schneider si stanno dando da fare per incastrare quell’uomo».

Ostermann inarcò le sopracciglia. «Crede che quello di Monika Krämer sia un omicidio su commissione?».

«Qualcosa del genere» confermò il commissario capo. «Dopotutto l’assassino ha usato un coltello da combattimento e si è comportato da vero professionista. Ora però mi chiedo: possibile che la famiglia di Goldberg sia arrivata a tanto? Sappiamo che in ventiquattr’ore sono riusciti a mobilitare il BKA, il ministero degli Interni, il console generale degli Stati Uniti, il questore di Francoforte e la cia. Tutto questo per impedirci di scoprire quello che avevamo già scoperto, cioè che il defunto Goldberg non era un ebreo sopravvissuto all’Olocausto». Fece scivolare lo sguardo sui colleghi. «Una cosa è sicura: chi ha molto da perdere è capace di qualunque gesto. D’ora in avanti dovremo essere molto, molto cauti nelle indagini. Non voglio mettere in pericolo altri innocenti».

«Allora ci fa comodo che Nierhoff stia dicendo a tutti che abbiamo identificato il colpevole» osservò Ostermann. Il commissario annuí.

«Esatto. Per questo non ho tentato di dissuaderlo. Il mandante dell’omicidio di Monika Krämer penserà di essere al sicuro».

«Nel cellulare della ragazza erano conservati tanti altri sms di Watkowiak» disse Pia. «Non ha mai scritto tutto in maiuscolo. E non l’ha mai chiamata “tesoro”. Non è stato lui a mandarle l’ultimo messaggio. Qualcuno ha comprato un cellulare sotto falso nome, probabilmente uno di quelli con la scheda prepagata, e ha scritto quelle cose a Monika Krämer per far ricadere i sospetti su Watkowiak».

Seguí un altro minuto di silenzio. Era chiaro a tutti quale fosse la portata di queste conclusioni. Watkowiak aveva una fedina penale lunga un chilometro ed era quindi piú che credibile come assassino.

«Chi sapeva che sospettavamo di Watkowiak?» chiese la giovane Fachinger. Bodenstein e Pia si scambiarono un’occhiata. Era una buona domanda. No, anzi: era la prima domanda cui bisognava rispondere per dimostrare che non era stato davvero Watkowiak a sventrare e accecare Monika Krämer.

«Vera Kaltensee e suo figlio Siegbert» azzardò Pia nel silenzio generale, ripensando agli uomini con divisa nera e atteggiamento marziale incontrati a Mühlenhof. «E probabilmente anche il resto della famiglia».

«Non credo che Vera Kaltensee abbia a che fare con questa storia» replicò il commissario. «Non sarebbe da lei».

«Anche se è una grande benefattrice, non è detto che sia un angelo». Pia era l’unica a intuire il motivo per cui il superiore si rifiutava di vedere l’anziana signora sotto una luce non proprio positiva. Sebbene per lavoro conoscesse la società in ogni suo aspetto, dal piú infimo al piú aristocratico, era saldamente ancorato a un modo di pensare classista. Apparteneva a una famiglia nobile, come la baronessa Von Zeydlitz–Lauenburg.

«Volete sapere cos’è emerso dai primi esami di laboratorio?». Ostermann batté un dito sul taccuino che aveva davanti.

«Certo». Bodenstein si piegò verso di lui. «Abbiamo qualcosa sull’arma?».

«Sí». Il collega aprí il taccuino. «I due vecchi sono stati uccisi con la stessa pistola, non c’è dubbio. Le munizioni sono piuttosto interessanti. In entrambi i casi hanno usato cartucce calibro 9 parabellum prodotte tra il 1939 e il 1942. È stato possibile stabilirlo in base alla composizione della lega metallica, che è tipica di quel periodo».

«E cosí il nostro assassino usa una nove millimetri e cartucce della seconda guerra mondiale» riassunse Pia. «Come se le è procurate?».

«L’arma si può comprare online» affermò Hasse. «Oppure alle fiere per appassionati. È molto piú facile di quanto sembri».

«Okay, okay». Bodenstein mise fine alla discussione prima che potesse degenerare. «Cos’altro ha scoperto, Ostermann?».

«La firma di Schneider sugli assegni è autentica. Per quanto riguarda il numero misterioso trovato vicino ai due cadaveri, secondo il grafologo è opera della stessa mano.

Il DNA sul bicchiere di vino rosso prelevato dal soggiorno di Goldberg appartiene a una donna. Hanno cercato un riscontro in archivio sia per il DNA sia per le impronte digitali, ma è stato inutile. Il rossetto non ha niente di speciale. È un prodotto abbastanza comune: Maybelline Jade. Comunque hanno trovato anche tracce di aciclovir».

«Cos’è?» domandò Kathrin Fachinger.

«Una sostanza che agisce contro l’herpes labiale. Viene venduta anche con il nome di Zovirax».

«Questa sí che è una notizia» mormorò Hasse. «Assassino inchiodato grazie all’herpes. Vedo già i titoli sui giornali».

Bodenstein si lasciò sfuggire un sorriso, che però durò solo un istante, fino al nuovo intervento di Pia.

«Vera Kaltensee aveva un cerottino sul labbro. Si vedeva bene, anche se l’aveva coperto col rossetto. Ci ha fatto caso, capo?».

Il commissario corrugò la fronte e la guardò con aria dubbiosa.

«Forse. Non ne sono sicuro».

Si udí bussare e dalla porta fece capolino la segretaria di Nierhoff.

«La conferenza stampa è terminata, il dottore la sta aspettando» disse rivolta a Bodenstein. «Vuole vederla subito».

L’ordine era chiaro: doveva assolutamente trovare la cassetta con tutto il suo contenuto. Il perché non aveva nessuna importanza. Non veniva pagato per interrogarsi sui motivi di certi incarichi. Non aveva mai avuto scrupoli nell’eseguire gli ordini. Era il suo lavoro. Dopo un’ora e mezzo Ritter lasciò finalmente l’orribile edificio dipinto di giallo in cui abitava dal giorno del fattaccio. Provando una maligna soddisfazione lo guardò mentre attraversava la strada con una borsa per laptop a tracolla e il cellulare attaccato all’orecchio, diretto verso la fermata della metropolitana di superficie in Schwarzwaldstraße. Erano finiti i tempi in cui poteva fare l’arrogante e andare in giro con l’autista.

Non appena Ritter scomparve, smontò dalla macchina ed entrò nell’edificio. L’appartamento si trovava al terzo piano. Aprire la porta fu un gioco da ragazzi; i meccanismi di sicurezza erano talmente semplici che dopo ventidue secondi era già dentro. S’infilò i guanti, si diede un’occhiata intorno e non poté evitare di chiedersi cosa significasse vivere in un posto simile per un uomo come Thomas Ritter, abituato a ogni lusso. Oltre a una camera con vista sulla casa accanto, c’erano un bagno cieco con water e doccia, un piccolo corridoio e una cucina indegna di tale definizione. Spalancò le ante dell’unico armadio e frugò tra pile di indumenti, puliti e non, biancheria intima, calze, scarpe… Niente. Nessuna traccia della cassetta o della famiglia. Sembrava che il letto non venisse utilizzato da un po’, mancavano addirittura le lenzuola. Dall’armadio passò alla scrivania. Nessun collegamento alla rete fissa, di conseguenza nessuna segreteria telefonica da cui attingere informazioni. Con sua grande delusione, sul piano della scrivania trovò solo cianfrusaglie, vecchi giornali e riviste porno della peggior specie. Ne prese una. Come lettura per le lunghe e noiose attese in macchina poteva anche andare bene.

Esaminando una serie di fogli scritti a mano si rese conto che Ritter era davvero caduto in basso. In un punto lesse: «Lenzuola fruscianti, passera fremente e orgasmo mozzafiato». Non riuscí a trattenere un sorriso. Come si era ridotto! Era passato dai discorsi di alto livello alle storielle erotiche. Continuò a scartabellare finché non apparve un post–it giallo su cui erano scarabocchiati un nome, un numero di cellulare e una parola che lo entusiasmò all’istante. Fotografò il biglietto con la macchina digitale, poi ci rimise sopra le altre carte. Alla fin fine la visita a casa di Ritter non era stata una perdita di tempo.

Nella sua spaziosa cabina armadio, con indosso solo mutadine e reggiseno, Katharina Ehrmann stava decidendo cosa indossare. Non si era mai considerata una donna particolarmente vanitosa finché, dopo l’improvvisa morte del marito, si era trovata a dover recitare la parte della vedova affranta e per un po’ aveva rinunciato a truccarsi. In quel periodo ogni volta che si guardava allo specchio rimaneva scioccata. Voleva evitare di ripetere quell’esperienza. Ora poteva farlo, non doveva piú vivere con un misero stipendio da impiegata. Da un paio d’anni, cioè da quando ne aveva compiuti quaranta, aveva iniziato a contrastare i segni del tempo. Prima con ore di palestra, linfodrenaggi e pulizie intestinali, poi con trattamenti al botulino da ripetere ogni tre mesi e iniezioni antirughe di collagene e acido ialuronico che costavano una cifra scandalosa. Comunque valeva la pena spendere tanto: rispetto alle coetanee dimostrava dieci anni di meno. Katharina sorrise alla propria immagine riflessa. A Königstein vivevano molte persone benestanti. Le cliniche private che offrivano massima discrezione e trattamenti antivecchiamento di ogni tipo stavano spuntando come funghi.

Ma non era per questo che aveva scelto di abitare nel piccolo centro del Taunus. Era tornata per un motivo molto piú banale: non voleva stare a Francoforte, ma aveva bisogno di una casa nelle vicinanze dell’aeroporto perché volava spesso a Zurigo o a Maiorca, dove possedeva una masseria. L’acquisto del grande appartamento nel centro storico di Königstein, a circa duecento metri dalla misera abitazione in cui era cresciuta come figlia di un oste, aveva rappresentato una specie di trionfo. Il precedente proprietario era infatti l’uomo che aveva causato il fallimento di suo padre. Ora anche lui era ridotto sul lastrico e Katharina si era presa la rivincita comprando la casa a un prezzo irrisorio. Sorrise di nuovo. La vita è una ruota che gira, pensò.

Con un brivido lungo la schiena, tornò mentalmente al giorno in cui Thomas Ritter le aveva detto di voler scrivere un libro su Vera Kaltensee. Per eccesso di fiducia Ritter si era convinto che la signora avrebbe accolto l’idea con entusiasmo. Ma le cose erano andate in modo ben diverso. Vera non ci aveva pensato due volte e l’aveva licenziato in tronco dopo diciotto anni di collaborazione. Quando si erano incontrati per caso e Ritter aveva colto l’occasione per piangersi addosso e lamentarsi dell’ingiustizia subita, Katharina aveva visto subito la possibilità di vendicarsi di Vera e di tutto il clan Kaltensee. E cosí gli aveva fatto un’offerta che era stata accettata senza troppi tentennamenti.

Era passato un anno e mezzo da quel giorno. Ritter aveva ricevuto un anticipo a cinque cifre, ma non aveva ancora prodotto niente che somigliasse anche solo vagamente a un bestseller. Sebbene fossero amanti occasionali, Katharina non si lasciava ingannare dalle sue belle parole. Aveva letto in modo obiettivo la parte di testo già consegnata e sapeva che il risultato finale sarebbe stato ben lontano dalla scandalosa biografia che Ritter le aveva promesso all’inizio. Era arrivato il momento di agire.

Continuava a essere ben informata su tutto ciò che riguardava la famiglia Kaltensee. Questo grazie a Jutta, con cui aveva ancora un rapporto di amicizia, come se non fosse successo niente. La figlia di Vera era talmente presuntuosa da non avere il minimo sospetto riguardo alla sincerità del legame. Katharina era al corrente delle circostanze che avevano portato al licenziamento di Ritter. Dopo un’interessantissima chiacchierata con la governante – non esattamente fedele – della vecchia Kaltensee, si era decisa a contattare Elard. Non sapeva se il fratello maggiore di Jutta l’avrebbe aiutata, ma senza dubbio era informato su ciò che era avvenuto l’estate precedente. Mentre rifletteva su queste cose suonò il cellulare.

«Ciao, Elard. Stavo giusto pensando a te».

Tralasciando i convenevoli, lui andò dritto al punto.

«Come facciamo per lo scambio?» domandò.

«Ne deduco che hai qualcosa per me». Katharina era curiosa di sapere cosa fosse.

«Avrai tutto quello che ti serve» rispose Elard. «Voglio tirarmi fuori da questa faccenda. Allora?».

«Vediamoci a casa mia».

«No. Ti mando il materiale domani pomeriggio».

«Va bene. Dove?».

«Te lo farò sapere. Ci risentiamo».

Dopo che Elard ebbe interrotto bruscamente la comunicazione, Katharina sorrise soddisfatta. Procedeva tutto secondo i piani.

Bodenstein si abbottonò la giacca e, dopo aver bussato, entrò nell’ufficio. Rimase molto sorpreso vedendo il superiore in compagnia di una donna dai capelli rossi. Voleva scusarsi e uscire, ma Nierhoff scattò in piedi e gli andò incontro. Sembrava euforico, forse perché dal suo punto di vista la conferenza stampa era stata un successo.

«Bodenstein!» esclamò in tono allegro. «Dove va? Venga qui. So di coglierla impreparato, ma devo presentarle la persona che prenderà il mio posto».

La donna si voltò e il commissario sentí un tuffo al cuore. La giornata, che già non era iniziata nel modo migliore ed era proseguita malissimo, precipitò con la velocità di un intercity.

«Ciao, Oliver».

Aveva la stessa voce roca di un tempo. Anche lo sguardo chiaro, freddo e calcolatore non era cambiato minimamente; riusciva ancora a provocargli un certo disagio.

«Ciao, Nicola». Per una frazione di secondo Bodenstein perse la consueta impassibilità, ma sperò che lei non se ne accorgesse.

«Come? Vi conoscete già?». Nierhoff sembrava deluso.

«Sí». Nicola Engel si alzò e tese la mano. Il commissario capo gliela strinse. Nella sua mente riaffiorò tutta una serie di ricordi non proprio piacevoli e, guardandola negli occhi, capí che neanche lei aveva dimenticato.

«Eravamo compagni all’accademia di polizia» spiegò la donna a Nierhoff.

«Capisco. Si sieda, Bodenstein».

Il commissario obbedí, cercando di ricordare l’ultima volta che aveva incontrato il suo futuro capo.

«… Ho fatto piú volte il suo nome» stava dicendo Nierhoff. «Ma al ministero degli Interni hanno preferito affidare la direzione del comando regionale a un esterno. Immagino che non le dispiaccia. Non sembrava particolarmente ansioso di salire di grado per prendere il mio posto. La politica non è di suo interesse».

A queste parole Bodenstein scorse un lampo di divertimento negli occhi di Nicola e improvvisamente gli tornò in mente ogni dettaglio. Era successo circa dieci anni prima. Stavano indagando senza risultati su una serie di brutali omicidi nel quartiere a luci rosse, omicidi che tra l’altro erano ancora irrisolti. L’ufficio 11 di Francoforte era sottoposto a un’incredibile pressione. Un poliziotto era riuscito a infiltrarsi in una delle bande che si contendevano il quartiere, ma a un certo punto, forse perché smascherato da un altro infiltrato, era stato ucciso in mezzo alla strada.

Bodenstein era convinto che a causare quella morte fosse stato un grave errore di Nicola Engel, che allora dirigeva un’altra sezione dello stesso ufficio. Lei, ambiziosa e senza scrupoli, aveva però tentato di addossare ogni responsabilità alla squadra del commissario. Per mettere fine a questa lotta di potere era dovuto intervenire il questore. Nicola aveva lasciato Francoforte per Würzburg, dove era diventata vicequestore della Bassa Franconia e si era distinta per competenza e irreprensibilità. Ora aveva la qualifica per prendere il posto di Nierhoff e dal primo giugno sarebbe stata a tutti gli effetti il diretto superiore di Bodenstein. Il commissario non sapeva proprio cosa aspettarsi.

«Dato che la dottoressa Engel si è già dimessa dalla questura di Würzburg, ho intenzione di coinvolgerla da subito nel nostro lavoro» aggiunse Nierhoff in conclusione di un discorso che Bodenstein aveva sentito solo in parte. «Lunedí la presenterò ufficialmente a tutti i collaboratori».

Guardò il commissario con espressione di attesa, come se volesse un commento o una domanda. Non arrivò niente del genere.

«È tutto?» chiese Bodenstein, alzandosi. «Dovrei tornare in sala riunioni».

Il capo annuí costernato.

«Abbiamo appena risolto due omicidi in un colpo solo» disse con orgoglio alla dottoressa, nella vana speranza che il commissario seguisse il suo esempio.

Nicola Engel non ci fece caso e si alzò per porgere di nuovo la mano a Bodenstein.

«Sarà un piacere lavorare insieme». Era chiaramente una bugia, glielo si leggeva negli occhi. Col suo arrivo al comando regionale sarebbe cambiato il vento, su questo non c’erano dubbi. Restava da vedere quanto si sarebbe immischiata nel lavoro della squadra.

«Sí, sarà un vero piacere» rispose Bodenstein, stringendole la mano.

L’incontro con l’architetto e gli operai era andato bene; finalmente, dopo un anno di preparazione, la settimana successiva sarebbero cominciati i lavori allo Hexenturm di Idstein. Marcus Nowak era di ottimo umore quando nel tardo pomeriggio entrò nello studio. Era sempre emozionante vedere un progetto passare alla fase di realizzazione senza problemi. Si sedette alla scrivania, accese il computer e controllò la posta. Tra fatture, offerte, cataloghi e pubblicità varia trovò una busta di carta riciclata, che di solito non prometteva niente di buono.

Strappò la busta e ne estrasse il contenuto. La sorpresa fu tale che rimase letteralmente senza fiato. Un ordine di comparizione della polizia di Kelkheim! Era stato denunciato per lesioni personali. No, non era possibile! All’improvviso fu preso dalla rabbia e in un impulso irrefrenabile appallottolò il foglio, gli diede fuoco e lo lasciò cadere nel cestino. Nello stesso momento il telefono sulla scrivania si mise a suonare. Tina! Senza dubbio l’aveva visto entrare in studio dalla finestra della cucina. Si costrinse ad alzare il ricevitore. Come immaginava, dovette spiegarle perché non sarebbe andato al concerto all’aperto organizzato presso la piscina di Kelkheim. «Non ne ho voglia» non era una spiegazione sufficiente per lei. Mentre faceva l’offesa e lo seppelliva sotto una valanga di rimproveri, piagnucolando come suo solito, il cellulare di Marcus emise un bip.

«La prossima volta vengo» mentí, aprendo contemporaneamente il telefonino. «Te lo giuro. Dai, non fare cosí…».

Il messaggio appena arrivato gli strappò un fugace sorriso. Senza badare a Tina, che continuava a imprecare e supplicare, digitò una breve risposta con il pollice della mano destra.

Tutto chiaro, scrisse. Arriverò per mezzanotte. Prima devo sbrigare una cosa. A dopo.

Non vedeva l’ora, il solo pensiero lo riempiva di allegria. L’avrebbe fatto di nuovo. La coscienza sporca e il senso di colpa che tanto l’avevano tormentato non costituivano piú un problema. Erano soltanto vaghi ricordi seppelliti nel profondo.