Mercoledí, 2 maggio 2007
Frank Behnke era di malumore. L’euforia del giorno precedente per l’ottimo piazzamento – undicesimo posto – nella categoria dilettanti della gara ciclistica “Rund um den Henninger–Turm” era completamente svanita. A dominare era di nuovo il grigiore della vita quotidiana. Un’altra indagine per omicidio. Sperava che il periodo di relativa calma durasse un po’ piú a lungo, cosí la sera avrebbe potuto staccare puntuale. I colleghi si erano lanciati a capofitto nel lavoro, come se fossero contenti di fare gli straordinari e di rinunciare ai weekend. Fachinger e Ostermann non avevano famiglia, mentre il capo non doveva preoccuparsi di niente perché aveva una donna che pensava a tutto. La moglie di Hasse era felice di non averlo tra i piedi e la Kirchhoff, superata la prima fase di innamoramento, era disposta a passare meno tempo col nuovo compagno pur di mettersi in luce. Nessuno di loro poteva capire quanto fosse problematica la sua vita. Se lasciava l’ufficio in orario, tutti lo guardavano di traverso.
Si mise al volante della vecchia auto di servizio, accese il motore e aspettò che Pia Kirchhoff si degnasse di raggiungerlo. Avrebbe potuto fare da solo, ma il commissario capo aveva insistito perché ci fosse anche lei. Il cellulare trovato vicino alla porta d’ingresso di Goldberg apparteneva a Robert Watkowiak, cosí come le impronte digitali su uno dei bicchieri rinvenuti nella cantina di Herrmann Schneider. Era difficile che si trattasse di una semplice coincidenza, per questo Bodenstein voleva parlare con Watkowiak. Ostermann si era informato qua e là e aveva scoperto che da un paio di mesi Watkowiak si faceva ospitare da una donna che abitava a Öchstadt, precisamente in Rotdornweg.
Nascosto dietro gli occhiali da sole, Behnke guidò in silenzio attraverso Bad Soden e Schwalbach. Da parte sua, Pia non fece alcun tentativo di intavolare una conversazione. Gli orrendi palazzoni di Rotdornweg spuntavano come corpi estranei in un quartiere di villette unifamiliari, case a schiera e giardini curati. I parcheggi erano quasi tutti liberi: gli inquilini si trovavano al lavoro. O all’ufficio di assistenza sociale, pensò Behnke con un certo fastidio. Certa gente viveva in gran parte col sussidio dello Stato. Soprattutto gli immigrati, che costituivano la stragrande maggioranza degli abitanti della zona. Le targhette dei citofoni riportavano nomi impronunciabili.
Pia ne indicò una. «M. Krämer. Dovrebbe essere lei».
Robert Watkowiak sonnecchiava beatamente. La sera prima era andata bene. Moni non gli portava rancore; verso l’una e mezzo erano tornati a casa insieme barcollando. Anche se aveva finito i contanti e il tizio a cui voleva dare la pistola non si era ancora fatto vivo, aveva i tre assegni di zio Herrmann. Sarebbe andato subito a incassarli.
«Guarda». Moni rientrò in camera con il cellulare. «Ieri mi è arrivato questo sms stranissimo. Ci capisci qualcosa?».
Ancora mezzo addormentato,Watkowiak strizzò gli occhi per leggere il testo sul display. TESORO, SIAMO RICCHI! HO TOLTO DI MEZZO ANCHE L’ALTRO VECCHIO. ANDIAMO A SPASSARCELA A SUD!
Robert non aveva idea di cosa significasse. Con un’alzata di spalle richiuse gli occhi, mentre lei, riflettendo ad alta voce, tentava di indovinare l’autore e il motivo di quel sms. Il suo tono acuto era irritante, tanto piú che Robert aveva già un fastidioso ronzio in testa. E un saporaccio in bocca.
«Se vuoi sapere chi te l’ha mandato, chiama il numero» borbottò. «Basta che la pianti e mi lasci dormire».
«Ah no!». Moni diede uno strattone alla coperta. «Devi sparire entro le dieci».
«Aspetti visite?». Il modo in cui lei si guadagnava da vivere lo lasciava del tutto indifferente, ma non sopportava di essere cacciato e di dover aspettare altrove finché gli “ospiti” non se ne andavano. Non aveva nessuna voglia di alzarsi dal letto.
«Devo lavorare» replicò Moni. «Se aspetto che mi mantieni tu, sto fresca».
Qualcuno suonò il campanello e i cani cominciarono ad abbaiare forsennatamente. La donna alzò le tapparelle senza pietà.
«Alzati!» ordinò a denti stretti, poi uscí dalla stanza.
Behnke suonò per la seconda volta e rimase piuttosto sorpreso quando una voce gracchiante domandò: «Chi è?». In sottofondo si udivano dei cani.
«Polizia. Cerchiamo Robert Watkowiak».
«Non è qui» rispose la donna.
«Vorremmo entrare comunque».
Per un po’ non successe nulla, poi il portone si aprí con uno scatto. Salendo, i due poliziotti furono investiti da tanti odori diversi, tutti piuttosto sgradevoli. L’appartamento di Monika Krämer si trovava al quinto piano, in fondo a un corridoio buio. Evidentemente la lampada sul soffitto non funzionava. Behnke suonò e la porta, sottilissima e piena di graffi, si spalancò davanti a una donna con i capelli scuri e l’aria sospettosa. Aveva in braccio due cagnolini, nella mano libera una sigaretta fumante. Alle sue spalle c’era un televisore acceso.
«Robert non c’è» disse dopo aver osservato per un attimo il tesserino di Behnke. «Sono secoli che non lo vedo».
Il poliziotto varcò la soglia e si guardò intorno. Non era certo un bilocale di lusso, ma l’arredamento rivelava buon gusto. Un bel divano bianco, un cassone indiano come tavolino, alle pareti quadri con scene mediterranee, sicuramente acquistati per pochi euro in qualche grande magazzino del bricolage, e in un angolo un’imponente palma in vaso. Sul parquet laminato era steso un tappeto variopinto.
«Lei è la compagna del signor Watkowiak?» chiese Pia alla donna, che dimostrava al massimo ventotto, ventinove anni. Le sopracciglia ridisegnate con la matita scura avevano una forma eccessivamente arcuata che le conferiva un’espressione di perenne incredulità. Braccia e gambe erano sottili come quelle di una dodicenne; in compenso aveva un seno esagerato, messo in evidenza, senza falsa modestia, da una canottiera con scollo profondo.
«La compagna? No. Ogni tanto lo ospito per la notte. Tutto qui».
«Dov’è adesso?».
Lei si strinse nelle spalle, accese un’altra sigaretta al mentolo e posò i cagnolini tremanti sul divano candido. Behnke andò nella stanza accanto, che conteneva un letto matrimoniale, un armadio con le ante a specchio e una cassettiera. Il letto era sfatto da entrambi i lati. Toccò il lenzuolo. Era ancora caldo.
Si girò verso Monika Krämer, che stava sulla porta a braccia conserte e seguiva ogni suo movimento. «A che ora si è alzata?».
«Che gliene importa?» fece lei in tono piuttosto aggressivo, come se avesse qualcosa da nascondere.
«Risponda alla mia domanda». Behnke stava per perdere la pazienza. L’atteggiamento della donna lo irritava.
«Che ne so. Un’ora fa, piú o meno».
«Chi c’era qui a destra? Il lenzuolo è ancora caldo».
Pia infilò i guanti e aprí un’anta dell’armadio.
«Ehi!» gridò Monika Krämer. «Non potete senza un mandato di perquisizione!».
«Vedo che è ben informata». Behnke la squadrò dall’alto in basso. Indossava una microgonna di jeans e un paio di stivali da due soldi in vernice con il tacco mezzo consumato. Sembrava pronta per raggiungere un angolo di strada nella zona della stazione.
«Ferma!». La donna si mise tra Pia e l’armadio. Nello stesso momento Behnke colse un movimento nell’altra stanza; per una frazione di secondo vide la sagoma di un uomo, poi la porta d’ingresso si richiuse con un colpo.
«Merda!». Avrebbe voluto inseguire il fuggiasco, ma inciampò nella gamba tesa di Monika Krämer e perse l’equilibrio. Sbatté la testa contro lo stipite e finí su delle bottiglie vuote di spumante abbandonate vicino alla porta. Una delle bottiglie si ruppe e una scheggia gli ferí l’avambraccio. Si rimise subito in piedi, giusto in tempo per essere aggredito dalla Krämer, che gli piombò addosso come una furia. All’improvviso Behnke non riuscí piú a trattenere la rabbia accumulata durante la mattina e le mollò un ceffone cosí forte da scaraventarla contro la parete. La colpí ancora una volta, poi le afferrò un braccio e glielo torse dietro la schiena. Nonostante la magrezza, lei si difese con forza. Gli assestò un calcio in uno stinco, gli sputò in faccia e lo ricoprí di insulti di pesante volgarità. Behnke non sentiva certe espressioni dai tempi in cui faceva parte della buoncostume e prestava servizio nel quartiere a luci rosse di Francoforte.
Avrebbe continuato a picchiarla chissà per quanto se Pia non fosse intervenuta e non l’avesse staccato a forza da quella stronza. Intanto i due cagnolini abbaiavano in modo isterico. Behnke si raddrizzò e col respiro affannoso si osservò il taglio sull’avambraccio destro, da cui stava perdendo parecchio sangue.
«Chi era l’uomo che è scappato?» chiese Pia guardando la donna, seduta con la schiena appoggiata alla parete e il naso sanguinante. «Robert Watkowiak?».
«Non parlo con voi sbirri del cazzo!». Monika Krämer allontanò i cani, che per la paura volevano saltarle in grembo. «Giuro che vi denuncio! Conosco un paio di avvocati…».
«Senta, signora». La voce di Pia era straordinariamente calma. «Robert Watkowiak è collegato a un omicidio, per questo lo stiamo cercando. Non aiuta né lui né se stessa continuando a mentire. Ha aggredito con violenza il mio collega, il che non deporrà a suo favore in tribunale. I suoi avvocati glielo confermeranno».
La donna ci pensò su e probabilmente si rese conto della situazione. Alla fine decise di parlare. Sí, l’uomo fuggito dall’appartamento era proprio Watkowiak.
«Era sul balcone. Ma non è un assassino».
«E perché è scappato?».
«Non gli piace la polizia».
«Per caso sa dov’è stato lunedí sera?».
«No. È sbucato dal nulla qualche ora fa».
«E lo scorso venerdí? Sa come ha trascorso la serata?».
«No. Non sono mica la sua baby–sitter».
«Ho capito». Pia annuí. «Grazie per l’aiuto. Se si rifà vivo, ci chiami subito. Lo dico nel suo interesse».
La donna prese il biglietto da visita che la commissaria le stava porgendo e lo infilò distrattamente nella scollatura.
Pia accompagnò il collega al pronto soccorso perché gli medicassero il profondo taglio sul braccio e quello piú superficiale in testa. Mentre aspettava appoggiata al parafango dell’auto di servizio, fumando una sigaretta, lo vide uscire dalla porta girevole con espressione cupa, una vistosa fasciatura bianca all’avambraccio destro e un cerotto sulla fronte.
«Allora?».
«Sono in malattia». Senza degnarla di uno sguardo, Behnke si sedette accanto al posto di guida e inforcò gli occhiali da sole. Alzando gli occhi al cielo, Pia spense la sigaretta col piede. Da qualche settimana il collega si comportava di nuovo in modo insopportabile. Durante il breve tragitto dall’ospedale al commissariato non emise un suono. Lei era indecisa, non sapeva se riferire tutto a Bodenstein. Non voleva fare la spia, ma era rimasta molto sorpresa dal modo in cui aveva perso la testa nell’appartamento di Monika Krämer. Il suo temperamento irascibile era noto a tutti; in quanto poliziotto, però, avrebbe dovuto controllarsi e ignorare le provocazioni. Raggiunto il parcheggio davanti al commissariato, Behnke smontò dall’auto senza una parola di ringraziamento.
«Vado a casa» disse semplicemente, poi recuperò l’arma d’ordinanza, la fondina e la giacca di pelle dal sedile posteriore ed estrasse il certificato dell’ospedale dalla tasca dei jeans. «Puoi consegnarlo a Bodenstein?».
Pia prese il foglio. «Credo che dovresti parlargli. Anzi, sarebbe meglio che scrivessi tu il rapporto».
«Perché? Eri presente, puoi pensarci tu».
Si voltò e si diresse verso la macchina che aveva lasciato nel parcheggio pubblico. Lei lo seguí con lo sguardo, irritata. Perché mai doveva preoccuparsi per uno cosí? Non ne poteva piú dei suoi modi scontrosi e del menefreghismo con cui negli ultimi tempi scaricava tutto il lavoro sugli altri. Però non aveva voglia di guastare i rapporti all’interno della squadra. Bodenstein non era un capo autoritario, lasciava una certa libertà ai suoi uomini, ma senza dubbio avrebbe preferito che Behnke gli raccontasse di persona come si era procurato quelle ferite.
«Frank!» gridò uscendo dalla macchina. «Aspetta!».
Lui si fermò e si girò controvoglia.
«Qual è il problema?».
«Nessuno. Come ho già detto, eri presente anche tu».
«Non sto parlando di oggi». Pia scosse la testa. «È chiaro che ti sta succedendo qualcosa. Ultimamente ti comporti peggio del solito. Posso aiutarti in qualche modo?».
«Va tutto bene» fu la secca risposta. «Non mi serve nessun tipo di aiuto».
«Non è vero. C’entra la famiglia?».
All’improvviso fu come se una saracinesca si fosse abbassata. Basta, non insistere: questo diceva l’espressione Behnke.
«La mia vita privata non ti riguarda».
Pia si arrese con un’alzata di spalle. Da buona collega gli aveva offerto il proprio aiuto, non poteva fare altro. Certo che era proprio un testardo.
«Semmai avessi bisogno di parlare con qualcuno… Beh, sai dove trovarmi». A queste parole lui si strappò gli occhiali da sole e tornò indietro con aria minacciosa. Sembrava che volesse alzare le mani come aveva fatto con Monika Krämer.
«Perché voi donne dovete sempre comportarvi come madre Teresa? Perché dovete immischiarvi negli affari degli altri? Vi dà tanta soddisfazione?» domandò furibondo.
«Ma sei matto?». Pia perse la pazienza. «Ti ho offerto il mio aiuto perché sei un collega ed è chiaro che non stai bene. Vuoi che ti lasci in pace? Benissimo!».
Sbatté la portiera della macchina e se ne andò. Non sarebbe mai diventata amica di Frank Behnke, questo era poco ma sicuro.
Sdraiato a occhi chiusi nella vasca piena di acqua calda, Thomas Ritter sentí i muscoli doloranti che lentamente si rilassavano. Non era piú abituato a certi sforzi e in tutta sincerità doveva ammettere che aveva smesso di trovarli tanto divertenti. L’aggressività sessuale di Katharina, che prima lo faceva impazzire, era diventata quasi un problema. Con sua grande sorpresa, poi, tornando a casa aveva provato un forte senso di colpa. Di fronte alla dolce ingenuità di Marleen si era vergognato profondamente per ciò che aveva fatto nel pomeriggio. E nello stesso tempo si era arrabbiato. Lei era una Kaltensee. Era il nemico!
L’aveva avvicinata solo per colpire e umiliare Vera; l’innamoramento era una finzione, faceva parte del piano. Una volta raggiunto lo scopo, si sarebbe liberato sia di Marleen che del bambino. Un bel calcio nel sedere e via. L’aveva immaginato tante volte durante le notti insonni sullo sgangherato divano letto nel misero appartamento in cui era costretto ad abitare. All’improvviso però era cambiato tutto, erano entrati in gioco sentimenti che non aveva previsto.
Quando era scivolato in fondo alla scala sociale e la sua ex moglie aveva chiesto il divorzio, aveva giurato a se stesso che non si sarebbe mai piú fidato di una donna. Con Katharina Ehrmann erano solo affari. La sua casa editrice lo pagava – piuttosto bene – per scrivere la biografia di Vera Kaltensee. Era il suo amante preferito a Francoforte, ma a lui non importava niente di ciò che faceva Katharina quando erano lontani. Sospirò. Si era messo in una situazione davvero scomoda. Se Katharina fosse venuta a sapere di Marleen, probabilmente avrebbe smesso di foraggiarlo. Se invece Marleen avesse scoperto il raggiro e tutte le bugie che le aveva raccontato, di sicuro se ne sarebbe andata col bambino e non l’avrebbe mai perdonato. Da qualunque punto di vista, era nella merda. Suonò il telefono. Aprí gli occhi e allungò un braccio per rispondere.
«Sono io». Era la voce sonora di Katharina. «Hai sentito? Hanno ucciso anche il vecchio Schneider».
«Cosa? Quando?». Si alzò di scatto dalla vasca, creando un’onda che superò il bordo e andò a infrangersi sul parquet del bagno.
«Nella notte tra lunedí e martedí. Gli hanno sparato, come a Goldberg».
«Come fai a saperlo?».
«Non importa».
«Chi può essere stato? Erano due vecchi rimbecilliti». Ritter cercò di sembrare indifferente. Dopo essere uscito dalla vasca, osservò il disastro che aveva combinato sul pavimento.
«Non ne ho idea» rispose Katharina all’altro capo della linea. «Se devo essere sincera, la prima persona che mi viene in mente sei tu. Negli ultimi tempi hai fatto visita a tutti e due, no?».
Le sue parole lo lasciarono senza fiato. Tutt’a un tratto sentí un gran freddo. Come l’aveva scoperto?
«Che assurdità» replicò stancamente, sperando di suonare divertito. «Cosa ci avrei guadagnato?».
«Il loro silenzio? Stavi facendo pressione su entrambi».
Il cuore gli schizzò in gola. Non aveva parlato con nessuno di quelle visite. Con nessuno. Katharina non giocava mai a carte scoperte, era difficile indovinare le sue intenzioni. Ritter non era in grado di dire con certezza da che parte fosse schierata. Ogni tanto aveva la sgradevole sensazione di essere soltanto uno strumento per la sua vendetta nei confronti della famiglia Kaltensee.
«Non ho fatto nessuna pressione» obiettò freddamente. «Al contrario di te, cara. Sei stata da Goldberg per quella brutta faccenda delle quote societarie che vi contendete da anni. Magari sei andata anche da Herrmann Schneider.
Avete guardato un paio di film, vi siete scolati una bottiglia di bordeaux… Faresti qualunque cosa per colpire i Kaltensee».
«Lasciamo perdere» disse tranquillamente Katharina dopo un breve silenzio. «La polizia si sta concentrando su Robert. Non mi sorprenderei se fosse stato davvero lui, è sempre a caccia di soldi. Mi raccomando, continua a scrivere. Potrebbe venir fuori un nuovo capitolo sulla cara famiglia Kaltensee».
Ritter posò il cellulare accanto al lavandino, prese un paio di asciugamani e li passò sul pavimento per evitare che l’acqua danneggiasse il parquet. In testa aveva un turbinio di pensieri. Prima quel vecchiaccio di Goldberg, poi Schneider. Uccisi nello stesso modo. Elard odiava a morte tutti e due, seppure per motivi diversi, Robert era sempre a caccia di soldi e Siegbert era senz’altro il responsabile del problema con le quote societarie. Ma erano capaci di uccidere? Erano in grado di compiere uno o addirittura due omicidi? Sí, senza dubbio. Ritter sorrise. Doveva solo mettersi comodo e aspettare.
«Time is on my side» canticchiò, senza sapere quanto si stesse sbagliando.
Tremando da capo a piedi, Monika Krämer tentò di fermare l’emorragia nasale con un asciugamano bagnato e dei cubetti di ghiaccio. Quello stronzo d’un poliziotto le aveva fatto molto male. Peccato che la scheggia di bottiglia non gli si fosse conficcata nel collo! Osservando la propria immagine riflessa nello specchio del bagno, si toccò cautamente il naso. Per fortuna non sembrava rotto. Tutta colpa di Robert! Quell’idiota doveva aver combinato un gran casino, ma naturalmente non le aveva detto nulla. Aveva visto la pistola nello zaino; a sentire lui, l’aveva trovata per caso. Però gli sbirri avevano parlato di omicidio! Basta, era davvero troppo! Monika non aveva nessuna voglia di finire nel mirino della polizia. Ora aveva una scusa per liberarsi definitivamente di Robert. In realtà voleva toglierselo di torno perché non lo sopportava piú. Cominciava a fare un po’ troppo affidamento su di lei. Avrebbe dovuto dire di no piú spesso, ma non ci riusciva. Ogni volta si lasciava impietosire e lo portava a casa con sé, nonostante si fosse ripromessa di non farlo piú. Oltre a non avere mai un soldo in tasca, Robert era anche terribilmente geloso.
Si spostò in camera e infilò le lenzuola sporche nell’armadio. Da sotto il letto tirò fuori la biancheria di seta che metteva quando aspettava “visite”. Da due anni pubblicava un’inserzione sul giornale: Manu, 19enne sexy e disinibita. Massima discrezione. Il testo attirava l’attenzione di molti uomini. Quando si presentavano da lei, non aveva piú alcuna importanza che non si chiamasse Manu e che non avesse davvero diciannove anni. Alcuni venivano regolarmente: un conducente di autobus, un paio di pensionati, il postino, il cassiere della banca nella pausa di mezzogiorno… Voleva trenta euro per la prestazione standard, cinquanta per quella orale e cento per gli extra, che però finora non erano mai stati richiesti. Sommando questi guadagni al sussidio viveva piuttosto bene, ogni mese metteva da parte qualcosa e di tanto in tanto riusciva addirittura a concedersi un piccolo lusso. Ancora due o tre anni e finalmente avrebbe realizzato il suo sogno: comprare una casetta sulla riva di un lago in Canada. Stava già studiando l’inglese.
Si udí il suono del campanello. Monika Krämer diede un’occhiata all’orologio in cucina. Le dieci meno un quarto. Era il cliente fisso del mercoledí mattina. Lavorava per la nettezza urbana e una volta a settimana passava a trovarla durante la pausa colazione. Eccolo, puntuale come sempre. Cinquanta euro facili e veloci, un quarto d’ora e se n’era già andato. Cinque minuti piú tardi bussarono alla porta. Poteva essere solo Robert; non aveva in programma altre visite fin verso le dodici. Che razza di idiota! Perché era tornato? Senza dubbio i poliziotti lo stavano aspettando di sotto chiusi in macchina. Raggiunse la porta a passo di marcia e la spalancò con rabbia.
«Cosa diavolo…». Si bloccò subito. Davanti all’uscio c’era uno sconosciuto dai capelli grigi.
«Buongiorno» disse l’uomo. Aveva i baffi e un vecchio paio di occhiali con lenti colorate. Rientrava indubbiamente nella categoria “passabili”; non era un ciccione sudato con la schiena ricoperta di peli né un sudicio che non si lavava da settimane. Non sembrava neanche uno di quei taccagni che tiravano sul prezzo.
«Prego». Si voltò per fargli strada e passando davanti allo specchio si guardò rapidamente. Di certo non dimostrava diciannove anni, ma forse ventitré… In ogni caso nessuno se n’era mai andato dopo averla vista.
«Da questa parte». Fece un cenno in direzione della camera. L’uomo era ancora vicino alla porta d’ingresso. All’improvviso Monika notò che indossava un paio di guanti e sentí il battito del cuore accelerare. Era forse un maniaco?
«Non sono quelli i guanti di cui hai bisogno» tentò di scherzare. Aveva una brutta sensazione. «Dov’è Robert?» domandò lui di punto in bianco. Merda! Un altro sbirro?
«Non lo so. L’ho appena detto ai tuoi colleghi!».
Senza staccarle gli occhi di dosso, l’uomo allungò un braccio indietro e girò la chiave nella toppa. Monika Krämer si fece prendere dalla paura. Non era un poliziotto! Cos’aveva combinato Robert? Doveva dei soldi a qualcuno?
«Di sicuro sai dove sta quando non è qui da te» continuò lo sconosciuto. Lei ci pensò su un attimo e decise che non era il caso di farsi coinvolgere in una brutta faccenda per proteggere Robert.
«A volte dorme in una casa abbandonata a Königstein. In centro, alla fine della zona pedonale. Forse è andato là per nascondersi dalla polizia. Lo stanno cercando».
«Okay». L’uomo annuí e la fissò. «Grazie».
Con i baffi e gli occhiali spessi aveva un’aria triste. Un po’ come il tizio della banca. Monika sorrise, leggermente piú rilassata. Forse poteva comunque guadagnarci qualcosa.
«Visto che sei qui» fece in tono civettuolo, «ti va un pompino? Per te sono solo venti euro».
L’uomo si fece avanti e si fermò proprio di fronte a lei.
Aveva un’espressione calma, quasi indifferente. Un rapido movimento della mano destra e Monika avvertí un dolore lancinante. Si toccò istintivamente il collo; poi, incredula, si guardò le mani insanguinate. Ci mise qualche istante a capire che era il suo stesso sangue. La bocca si riempí di un liquido caldo che sapeva di rame. Un brivido di terrore le scese lungo la schiena. Perché? Cosa gli aveva fatto? Indietreggiando inciampò in uno dei suoi due cani e perse l’equilibrio. Sangue dappertutto. Il suo sangue.
«No, ti prego» supplicò con voce roca, alzando le braccia per proteggersi. L’uomo stringeva in mano un coltello. I cani abbaiavano come forsennati. Monika Krämer si difese tirando calci e pugni, lottando con tutta la forza della disperazione. Non voleva morire.
Per i membri dell’ufficio 11 non fu una sorpresa sapere che durante l’autopsia il dottor Kirchhoff aveva trovato sul braccio di Schneider lo stesso tatuaggio individuato in precedenza su Goldberg. Molto piú sorprendente fu scoprire che verso le undici e mezzo del mattino qualcuno era entrato nella filiale della Cassa di Risparmio del Taunus a Schwalbach e aveva tentato di incassare un assegno da diecimila euro emesso da Herrmann Schneider lo stesso giorno della sua morte. L’impiegato della banca si era rifiutato di pagare una somma cosí alta e aveva informato subito la polizia. La registrazione della telecamera di sorveglianza sistemata nella zona degli sportelli mostrava chiaramente l’uomo per cui nel frattempo era stato spiccato un mandato di cattura. Era Robert Watkowiak. Quando si era reso conto che c’erano problemi aveva lasciato di corsa la banca senza riprendere l’assegno, ma poco dopo si era presentato a uno sportello della Cassa di Risparmio di Nassau, sempre a Schwalbach, e aveva cercato inutilmente di incassare un altro assegno da cinquemila euro. Ora i due assegni erano sulla scrivania di Bodenstein. Un perito calligrafo avrebbe verificato l’autenticità della firma di Schneider. In ogni caso gli indizi contro Watkowiak si stavano moltiplicando. Le sue impronte digitali erano su entrambi i luoghi del delitto.
Si udí bussare. Era Pia Kirchhoff.
«Si è fatto vivo un vicino di Schneider» annunciò. «Dice che lunedí intorno a mezzanotte e mezza, mentre portava a spasso il cane, ha notato un’auto sospetta davanti all’abitazione della vittima. Una station wagon chiara con una scritta pubblicitaria. Quand’è tornato, un quarto d’ora dopo, la macchina non c’era piú e in casa le luci erano tutte spente».
«Ha preso la targa?».
«Sa solo che cominciava con MTK. Era buio e l’auto si trovava a circa venti metri di distanza. In un primo momento ha pensato che fosse la macchina del volontario che passava a controllare Schneider, poi però si è accorto del logo».
«La testimonianza della vicina e i bicchieri con diverse impronte ci dicono che Watkowiak non è stato l’unico a far visita a Schneider. Forse l’altro uomo guida un’auto aziendale ed è tornato piú tardi».
«Purtroppo le impronte ci hanno permesso di identificare solo Watkowiak, non abbiamo trovato altre corrispondenze nella banca dati. E i risultati del DNA devono ancora arrivare».
«Bisogna assolutamente rintracciare Watkowiak. Voglio che Behnke torni da quella donna e si faccia dire quali sono i locali che frequenta».
Vedendo la collega esitare, Bodenstein la fissò con aria interrogativa.
«Frank è andato a casa» spiegò lei. «Si è messo in malattia».
«Cosa?». Il commissario era molto sorpreso, non si aspettava un comportamento del genere da parte di Behnke. Lavorava con lui da piú di dieci anni; era l’unico della vecchia squadra di Francoforte che l’aveva seguito a Hofheim quando aveva accettato di dirigere il nuovo ufficio 11 presso il comando regionale della polizia giudiziaria.
«Pensavo che l’avesse chiamata» aggiunse Pia con una certa cautela. «La Krämer gli ha fatto lo sgambetto mentre tentava di inseguire Watkowiak, e Behnke è caduto su una bottiglia. Si è ferito a un braccio e alla testa».
«Ho capito. Allora toccherà ai colleghi di Eschborn controllare i locali della zona e parlare con i baristi».
Pia credeva di dover rispondere a qualche altra domanda, ma il commissario capo non chiese ulteriori spiegazioni riguardo a Behnke. Si alzò invece dalla sedia e afferrò la giacca.
«Noi due torniamo a Mühlenhof per parlare con Vera Kaltensee. Voglio sapere cos’ha da dirci su Watkowiak. Magari può aiutarci a trovarlo».
Il grande cancello che dava accesso alla proprietà era spalancato, ma un tizio in divisa scura e con l’auricolare fece segno a Pia di fermarsi e di abbassare il finestrino. A poca distanza c’era un altro uomo con la stessa uniforme. Dopo aver mostrato il tesserino della polizia, i due commissari chiesero di parlare con la signora Kaltensee.
«Un attimo». L’addetto alla sicurezza si piazzò davanti al cofano e disse qualcosa al microfono che portava sul risvolto della giacca. Dopo un po’ annuí e si spostò di lato, facendo cenno a Pia di entrare. Davanti alla casa erano parcheggiate tre auto. Un replicante dell’uomo al cancello li costrinse a una nuova sosta. Ancora una volta dovettero esibire il tesserino e spiegare il motivo della visita.
«Roba da pazzi» mormorò Pia. «Che diavolo sta succedendo?».
Si era ripromessa di non mostrare piú alcuna emozione con Vera Kaltensee; sarebbe rimasta fredda e impassibile anche se la vecchia signora si fosse rotolata a terra in un’altra crisi di pianto. Sulla porta d’ingresso furono bloccati per il terzo controllo e Pia cominciò a perdere la pazienza.
«Perché tanta sicurezza?» chiese all’uomo dai capelli grigi che li stava accompagnando in casa. Era lo stesso che avevano incontrato il giorno prima in giardino. Moormann, se la memoria non la ingannava. Al posto della salopette indossava un maglione scuro a collo alto e un paio di jeans neri.
«La scorsa notte qualcuno ha cercato di introdursi in casa» disse con espressione preoccupata. «Per questo sono stati intensificati i controlli. La signora è spesso sola».
Pia aveva vissuto la stessa esperienza l’estate precedente e ricordava bene come si era sentita dopo l’intrusione. Capiva benissimo la paura di Vera Kaltensee. Tra l’altro la signora era una milionaria molto conosciuta. Probabilmente in casa c’erano opere d’arte e gioielli di inestimabile valore che rappresentavano un’attrazione per ladri e scassinatori d’ogni tipo.
«Aspettate qui, per favore». Moormann si fermò davanti a una porta chiusa. Non quella della stanza in cui avevano parlato il giorno prima. Dall’interno giungevano voci smorzate, ma comunque cariche di tensione. L’uomo bussò, interrompendo la discussione, e una volta entrato si richiuse la porta alle spalle. Senza fare una piega, Bodenstein si accomodò su una polverosa poltrona di broccato. Pia, invece, si guardò intorno con curiosità. La luce che penetrava dalle tre finestre a sesto acuto, molto simili a quelle di una chiesa, disegnava motivi colorati sul pavimento di marmo bianco e nero oltre la ringhiera della scala. A una parete, accanto a lugubri ritratti incorniciati d’oro, erano appesi tre insoliti trofei di caccia: un’enorme testa d’alce impagliata, un teschio d’orso e due imponenti palchi di cervo. A un esame piú attento Pia notò che anche all’interno la casa non era tenuta benissimo. Il pavimento era opaco, la tappezzeria sbiadita. Le ragnatele deturpavano i trofei e alla ringhiera di legno mancavano alcuni elementi. Era tutto un po’ trascurato, il che conferiva un fascino decadente alla grande dimora dei Kaltensee. Sembrava quasi che il tempo si fosse fermato sessant’anni prima.
All’improvviso la porta dietro cui era scomparso Moormann si spalancò e dalla stanza uscí un uomo sulla quarantina in giacca e cravatta. Aveva un’espressione tutt’altro che allegra; ciò nonostante, prima di lasciare la casa, salutò Pia e Bodenstein con un cortese cenno del capo. Dopo circa tre minuti sbucarono altri due uomini. Pia ne riconobbe subito uno: Manuel Rosenblatt, famoso avvocato di Francoforte. A lui si rivolgevano gli imprenditori piú importanti quando avevano qualche problema da risolvere. Sulla porta apparve Moormann. Il commissario si alzò.
«La signora Kaltensee è pronta a ricevervi».
«Grazie». Pia seguí il suo superiore in una grande stanza con pareti rivestite di legno scuro che s’innalzavano per circa cinque metri fino al soffitto ornato di stucchi. In fondo c’era un gigantesco camino di marmo, e al centro un possente tavolo dello stesso legno che ricopriva le pareti, con un contorno di dieci sedie dall’aspetto decisamente scomodo. Vera Kaltensee era seduta a un’estremità del tavolo con davanti pile di carta e raccoglitori aperti. Pallida e chiaramente esausta, manteneva comunque tutto il suo contegno.
«Signora Kirchhoff! Signor Bodenstein! Cosa posso fare per voi?».
Il commissario capo la salutò in modo cortese e in perfetto stile vecchia nobiltà. Mancava solo il baciamano.
«Il signor Moormann ci ha detto che questa notte qualcuno ha tentato di introdursi in casa». La sua voce aveva una sfumatura di preoccupazione. «Doveva chiamarmi subito».
«Ma no, non era il caso di scomodarla per una sciocchezza del genere» rispose lei con un po’ di incertezza, scuotendo leggermente la testa. «È già abbastanza impegnato».
«Cos’è successo?».
«Niente, non si preoccupi. Mio figlio mi ha mandato alcune delle guardie che usiamo in azienda». La signora abbozzò un sorriso. «Ora mi sento piú sicura».
Nella stanza entrò un uomo tarchiato sulla sessantina, che lei presentò come il suo secondogenito e amministratore della KMF. Siegbert Kaltensee – faccia tonda e rosea, guance cascanti e testa pelata – dava l’impressione di essere piú socievole rispetto al magro e aristocratico Elard. Salutò prima Pia e poi Bodenstein con una stretta di mano e un sorriso, e si sistemò dietro la sedia della madre. Il completo grigio e la camicia bianca, abbinata a una cravatta dal disegno sobrio, gli andavano a pennello; senza dubbio erano fatti su misura. Pareva il tipo d’uomo che preferisce l’understatement, sia nel comportamento sia nell’abbigliamento.
«Non vogliamo disturbarla» continuò il commissario capo. «Ma forse lei può aiutarci a trovare Robert Watkowiak. Abbiamo indizi della sua presenza sui due luoghi del delitto».
«Cosa?». Vera Kaltensee spalancò gli occhi per la sorpresa. «Non penserete che Robert abbia… qualcosa a che fare con quello che è successo».
«A dire il vero, sí» ammise Bodenstein. «Ma non c’è ancora niente di sicuro. Vorremmo solo parlare con lui. L’abbiamo cercato nell’appartamento dove ha vissuto ultimamente, ma è scappato appena sono arrivati i miei colleghi».
«Per la polizia risiede ancora qui a Mühlenhof» intervenne Pia.
«Volevo lasciargli aperta almeno una porta» spiegò la signora. «Quel ragazzo mi ha dato problemi fin dall’inizio».
Il commissario capo annuí. «Conosciamo i suoi precedenti». Siegbert Kaltensee rimaneva in silenzio e continuava a spostare lo sguardo attento da Bodenstein a Pia e viceversa.
Vera fece un gran sospiro. «Eugen, il mio defunto marito, mi ha nascosto la verità per tanti anni. Il povero Robert è cresciuto con la madre in condizioni davvero difficili, finché lei è morta per abuso di alcol. A quel punto Eugen mi ha raccontato di aver avuto un figlio da un’altra donna. Un figlio che aveva già dodici anni. Una volta superato lo shock del tradimento, ho capito che Robert non aveva nessuna colpa e ho insistito perché venisse a vivere con noi. Ma forse era già troppo tardi».
Il figlio le posò una mano sulla spalla e lei ci mise sopra la propria. Un gesto di affetto e intimità.
«Già da piccolo Robert era un tipo cocciuto» proseguí la donna. «Le ho provate praticamente tutte, ma non sono mai riuscita a conquistarlo. A quattordici anni è stato sorpreso a rubare in un negozio. Quello è stato il punto di partenza. Poi non si è piú fermato».
Alzò lo sguardo con aria afflitta.
«Secondo i miei figli sono stata troppo protettiva. Se all’inizio non gli avessi evitato la prigione, forse si sarebbe raddrizzato. Ma non potevo non aiutarlo, mi faceva una gran pena».
«Crede che sia capace di uccidere?» domandò Pia.
La signora ci pensò su un attimo, mentre il figlio continuava a mostrarsi discreto e a tacere.
«Vorrei tanto rispondere con un no convinto, ma non posso. Robert ci ha dato moltissime delusioni. Sono passati circa due anni dall’ultima volta che è venuto qui. A chiedere soldi, come sempre. Quel giorno Siegbert l’ha cacciato via e gli ha detto di non farsi piú vedere».
Pia vide gli occhi della donna riempirsi di lacrime, ma non si lasciò intenerire e mantenne la propria obiettività.
«Robert ha avuto tantissime possibilità, ma non ne ha sfruttata neanche una» disse finalmente Siegbert Kaltensee. Aveva una voce acuta in netto contrasto con la sua figura massiccia. «Chiedeva continuamente soldi, e in piú rubava. La mamma è stata buona e paziente, ma a un certo punto io ho perso la pazienza. Ho minacciato di denunciarlo per violazione di domicilio se fosse entrato di nuovo in questa casa».
«Il suo fratellastro conosceva Goldberg e Schneider?» chiese Pia.
«Certo». Siegbert Kaltensee annuí. «Conosceva bene tutti e due».
«È possibile che si sia rivolto anche a loro in cerca di denaro?».
La signora fece una smorfia, come se questa idea le fosse particolarmente sgradita.
«So che in passato ha spillato soldi a entrambi con una certa regolarità» rispose il figlio, scoppiando poi in una risata sarcastica. «È un tipo senza scrupoli».
«Non esagerare, Siegbert». Vera Kaltensee scrollò il capo. «Ho sbagliato a darti ascolto. Avrei dovuto assumermi le mie responsabilità e tenere d’occhio Robert. Forse cosí non gli sarebbero venute certe idee stupide».
«Ne abbiamo discusso centinaia di volte, mamma» replicò lui con calma. «Ormai Robert ha quarantaquattro anni. Non puoi proteggerlo da se stesso in eterno. Tra l’altro non ha mai voluto il tuo aiuto, ha sempre puntato ai soldi».
«Quali idee stupide?» domandò Bodenstein prima che Siegbert Kaltensee e la madre potessero approfondire la discussione che sicuramente avevano già fatto tante volte.
La signora sorrise freddamente.
«Conosce la sua storia. Robert non è cattivo, è solo che si fida troppo degli altri e incontra sempre le persone sbagliate».
Il figlio non la contraddisse, ma alzò gli occhi al cielo, rassegnato. Era chiaro che la pensava diversamente, come Pia. I familiari tiravano sempre fuori la stessa giustificazione: era sempre colpa di qualcun altro se un figlio, una figlia, un marito o un compagno commetteva un reato. Non era facile ammettere il proprio fallimento, meglio puntare il dito contro le cattive influenze. Vera Kaltensee non faceva eccezione. Bodenstein la pregò di informarlo subito se Robert Watkowiak si fosse fatto vivo.
Con un diavolo per capello, Robert Watkowiak stava percorrendo a passo deciso il marciapiede asfaltato che da Kelkheim conduceva a Fischbach, bestemmiando sottovoce e lanciando imprecazioni di ogni tipo contro Herrmann Schneider. In particolare non sopportava che quel vecchio stronzo fosse riuscito a fregarlo. Gli assegni valgono tanto quanto il contante, aveva detto mostrando il portafoglio vuoto e fingendosi dispiaciuto. Col cavolo! In banca gli avevano fatto un sacco di problemi e si erano attaccati al telefono, probabilmente per avvisare la polizia. Era stato costretto a scappare. Ora, senza telefonino e senza soldi per l’autobus, doveva per forza andare a piedi. Stava camminando da un’ora e mezza, senza una destinazione precisa. Lo spavento preso in mattinata, quando gli sbirri si erano presentati a casa di Moni, gli aveva fatto passare improvvisamente la sbornia. La marcia e l’aria fresca l’avevano poi portato a vedere la situazione con chiarezza: era spacciato. Aveva fame e sete e non aveva piú un rifugio. Inutile andare da Kurti, sua nonna l’aveva già insultato e cacciato via piú volte. Purtroppo non aveva altri amici. L’unica possibilità di salvezza era cercare di parlare con Vera. Doveva trovare il modo di incontrarla a quattr’occhi. Poteva entrare a Mühlenhof senza che nessuno se ne accorgesse, conosceva ogni centimetro di quella casa. Le avrebbe descritto la situazione in modo oggettivo e forse la vecchia avrebbe sganciato qualcosa di sua spontanea volontà. In caso contrario le avrebbe puntato la pistola alla testa, anche se di sicuro non sarebbe stato necessario. Non era stata Vera a impedirgli di rimettere piede a Mühlenhof. Il divieto era arrivato da Siegbert, quel ciccione presuntuoso! Non l’aveva mai potuto soffrire, e dopo l’incidente le cose erano addirittura peggiorate. Si era visto addossare tutte le colpe, nessuno aveva voluto credere che al volante ci fosse Marleen. Certo, lei aveva solo quattordici anni ed era una ragazzina cosí buona e obbediente! Eppure era stata proprio Marleen ad avere la bella idea di fare un giro con la Porsche di zio Elard, a rubare la chiave e ad accendere il motore. Robert era salito in macchina solo per tentare di dissuaderla. Naturalmente la famiglia non aveva avuto dubbi: era stato lui a prendere la Porsche per far colpo sulla ragazza! Superato il distributore Aral, attraversò in fretta la strada. Continuando cosí avrebbe raggiunto Mühlenhof in un’ora o poco piú. Il suono improvviso di un clacson lo fece tornare alla realtà. Una Mercedes nera gli si affiancò, il finestrino dalla parte del passeggero si abbassò e il guidatore si sporse nella sua direzione.
«Ehi, Robert! Ti serve un passaggio? Dai, monta».
Robert esitò un attimo, poi alzò le spalle e accettò l’offerta. Qualunque cosa pur di non camminare.
«È tutto il giorno che abbaiano, ho ricevuto un sacco di lamentele» spiegò il portiere dello stabile in Rotdornweg mentre lo stretto ascensore in cui si trovava con Bodenstein e Pia saliva verso l’ultimo piano. «Vanno a lavorare e lasciano i cani da soli, cosí quelli disturbano il circondario e sporcano in casa».
Con la scusa che poteva esserci un pericolo imminente, Ostermann aveva procurato un mandato di perquisizione per l’appartamento di Monika Krämer in brevissimo tempo. L’ascensore si fermò con uno scossone; il portiere aprí la porta imbrattata e piena di graffi e continuò a chiacchierare.
«Non ci sono piú gli inquilini di una volta. Adesso la maggior parte neanche conosce il tedesco! A pagare l’affitto ci pensa lo Stato, naturalmente. E poi sono cosí sfacciati… Con tutto quello che mi combinano, dovrei guadagnare il doppio».
Pia distolse lo sguardo irritata. In fondo al corridoio buio c’erano due agenti in uniforme, tre uomini della scientifica e un fabbro.
«Polizia!» gridò Bodenstein, bussando con decisione. «Aprite la porta!».
Nessuna risposta. Il portiere lo spinse via e si mise a picchiare il pugno contro il legno.
«Ehi! Aprite subito! Lo so che siete in casa, brutti fannulloni!».
Bodenstein cercò di frenarlo. «Non esageri».
«Mi lasci fare, con questa gente bisogna parlare cosí» replicò l’uomo. Qualcuno socchiuse la porta di fronte, ma solo per un istante. Probabilmente nel condominio erano abituati alle visite della polizia.
«Apra lei» ordinò Bodenstein al portiere, il quale annuí e infilò la seconda chiave nella toppa. Ma non serví a nulla. Allora entrò in azione l’esperto, che in pochi secondi forzò la serratura. Ma la porta non si aprí.
«Dev’esserci qualcosa che la blocca dall’altra parte» disse il fabbro, facendo un passo indietro. I due agenti si appoggiarono con tutto il loro peso al pannello di compensato e riuscirono a creare un varco. I cani abbaiavano come pazzi.
«Merda» mormorò uno dei due poliziotti vedendo quale fosse l’ostacolo che impediva di accedere all’appartamento. Proprio dietro la porta giaceva il corpo insanguinato e senza vita di Monika Krämer.
«Sto per vomitare» aggiunse il poliziotto, tornando di corsa in corridoio. Senza dire una parola, Pia infilò i guanti e si chinò sul cadavere della ragazza, distesa con le gambe piegate e la faccia contro la porta. Non era ancora sopraggiunto il rigor mortis. Prendendola per una spalla, la commissaria la girò sulla schiena. Da quando lavorava nella polizia giudiziaria aveva visto scene orribili, tuttavia sentí una stretta al cuore di fronte alla brutalità con cui la giovane era stata martoriata. L’avevano letteralmente sventrata. Il taglio partiva dalla gola e scendeva fino al pube, attraversando anche la biancheria intima. Dall’addome fuoriuscivano le viscere.
«O Signore!» esclamò Bodenstein con voce soffocata. Pia gli lanciò uno sguardo da sopra la spalla e vide che era bianco come un lenzuolo. Eppure non era certo un tipo impressionabile. Si concentrò di nuovo sul cadavere e d’un tratto capí perché il commissario capo era cosí scosso. Le si rivoltò lo stomaco e dovette fare uno sforzo per non cedere alla nausea. L’assassino non si era limitato a tagliare in due la ragazza; le aveva anche cavato gli occhi.
«Faccia guidare me, capo». Pia allungò la mano e Bodenstein le consegnò la chiave della macchina senza discutere. Avevano ispezionato l’appartamento e parlato con i vicini che abitavano allo stesso piano e a quello inferiore. Molti avevano sentito una violenta lite verso le undici del mattino, ma non si erano preoccupati, perché da Monika Krämer si alzavano spesso le mani e la voce. Watkowiak era forse tornato indietro dopo che Pia e Behnke se n’erano andati? Era stato lui a uccidere la ragazza in modo cosí brutale? Tra l’altro Monika non era morta subito; nonostante le terribili ferite si era trascinata fino alla porta e aveva tentato di uscire in corridoio. Bodenstein si passò le mani sul viso. Sembrava davvero provato. Pia non l’aveva mai visto cosí.
«A volte mi chiedo perché non ho fatto la guardia forestale o il rappresentante di aspirapolveri» disse in tono cupo dopo un tratto di strada. «Quella ragazza era poco piú grande di Rosalie. Non mi abituerò mai a certe cose».
Pia gli lanciò un’occhiata dal posto di guida. Avrebbe voluto stringergli la mano per confortarlo, ma si trattenne. Anche se lavoravano fianco a fianco quasi tutti i giorni da circa due anni, non avevano un rapporto cosí confidenziale. Bodenstein era un tipo piuttosto riservato, nascondeva bene le proprie emozioni. Ogni tanto Pia si domandava come facesse a sopportare tutto quanto – gli spettacoli atroci e il peso della responsabilità – senza nessun tipo di sfogo, senza mai sottrarsi al dovere o esplodere per la rabbia. Probabilmente questo incredibile autocontrollo era il frutto di un’educazione severa. In inglese si chiamava countenance. Contegno. Da mantenere a qualunque costo e in ogni situazione.
«Neanch’io» rispose semplicemente. Forse sembrava che a lei tutto scivolasse addosso, che niente la toccasse nel profondo, ma non era affatto cosí. Le tantissime ore trascorse all’istituto di Medicina legale non erano bastate a renderla insensibile o indifferente al tragico destino delle persone che incontrava solo dopo la morte. Non a caso i soccorritori che intervenivano sui luoghi delle catastrofi ricevevano un supporto psicologico. Era impossibile cancellare le immagini di corpi straziati; una volta impresse nella mente non se ne andavano piú. Come Pia, anche Bodenstein cercava di rifugiarsi nella routine.
«Quel messaggio» continuò lui in tono piatto, «potrebbe essere la prova che è stato davvero Watkowiak a uccidere Goldberg e Schneider».
Il messaggio in questione era stato trovato dagli agenti della scientifica nel cellulare di Monika Krämer. Inviato da Robert Watkowiak alle 13:34 del giorno precedente, diceva: TESORO, SIAMO RICCHI! HO TOLTO DI MEZZO ANCHE L’ALTRO VECCHIO. ANDIAMO A SPASSARCELA A SUD!
«Allora è tutto risolto» osservò Pia senza troppa convinzione. «Watkowiak ha ucciso per soldi. Essendo il figliastro di Vera Kaltensee e conoscendo sia Goldberg che Schneider, è riuscito a entrare in casa di entrambi senza difficoltà. Poi ha eliminato Monika Krämer perché sapeva».
«Secondo lei è andata cosí?» domandò il commissario capo. Pia ci pensò su un attimo. Avrebbe voluto rispondere di sí, ma sotto sotto dubitava che i tre omicidi si potessero spiegare in modo cosí semplice.
«Non lo so» disse infine. «Ho la sensazione che ci sia molto di piú dietro queste morti»Lo sterco dei cavalli era pesante come piombo, l’odore di ammoniaca le mozzava il respiro, la schiena e le braccia le dolevano terribilmente, ma Pia non ci faceva caso. Non c’era niente di meglio di uno sforzo fisico per allontanare i brutti pensieri. Molti colleghi cercavano di dimenticare con l’aiuto dell’alcol, una scelta che si poteva in qualche modo comprendere. Continuò a caricare il letame sul rimorchio che aveva portato davanti alla stalla finché i denti del forcone non raschiarono il nudo cemento. Terminò quindi il lavoro con la pala. Alla fine, ansimando, si passò una manica sulla fronte per asciugare il sudore.
Appena tornati in commissariato, lei e Bodenstein avevano aggiornato i colleghi. Le ricerche di Robert Watkowiak erano state intensificate; per un po’ si era ipotizzato persino di coinvolgere i cittadini lanciando un appello attraverso la radio locale. Prima che Pia potesse riprendere fiato, i suoi cani, attenti a ogni movimento, si alzarono di scatto e corsero fuori abbaiando allegramente. Dopo pochi secondi il pick–up verde dell’Opel–Zoo si fermò vicino al trattore e dall’abitacolo sbucò Christoph. Le andò subito incontro con aria preoccupata.
«Oh, tesoro» sussurrò, stringendola tra le braccia. Pia si abbandonò contro il suo corpo e tutt’a un tratto sentí le lacrime sgorgarle dagli occhi e scenderle lungo le guance. Finalmente poteva concedersi un momento di debolezza. Con Henning non era mai stato possibile.
«Meno male che sei qui» disse con un filo di voce.
«È stato davvero cosí brutto?».
Annuí in silenzio. Christoph le posò un bacio tra i capelli e continuò a tenerla stretta, accarezzandole la schiena in modo da tranquillizzarla.
«Vai a farti un bel bagno rilassante, penso io ai cavalli. Li faccio entrare e distribuisco la biada. Per stasera non devi neanche cucinare. Ho portato la tua pizza preferita».
«Con acciughe e tonno extra?». Pia alzò lo sguardo e sorrise stancamente. «Sei fantastico».
«Lo so». Christoph le fece l’occhiolino e la baciò. «Adesso vai, la vasca ti aspetta».
Mezz’ora dopo, quando uscí dal bagno con l’accappatoio e i capelli umidi, si sentiva ancora sporca. Aveva parlato con Monika Krämer poche ore prima che fosse uccisa con inaudita brutalità. Questo peggiorava le cose. Non poteva evitare di pensare che la ragazza fosse morta proprio perché la polizia aveva bussato alla sua porta.
Nel frattempo Christoph aveva dato da mangiare anche ai cani, aveva apparecchiato la tavola e aperto una bottiglia di vino. Il profumino che aleggiava in cucina le ricordò di colpo che non aveva mangiato niente per tutto il giorno.
Si sedettero e presero la pizza tiepida con le mani. «Vuoi parlare di quello che è successo?» chiese lui. «Forse dopo ti sentirai un po’ meglio».
Pia lo guardò, colpita ancora una volta dal suo incredibile tatto. Era ovvio che dopo si sarebbe sentita meglio. Confidarsi con qualcuno era l’unico modo per metabolizzare certe esperienze.
«È stato orribile. Non avevo mai visto niente di simile». Si lasciò sfuggire un sospiro. Christoph le versò dell’altro vino nel bicchiere, poi ascoltò con attenzione mentre gli raccontava i fatti della giornata. Gli parlò della visita mattutina a casa di Monika Krämer, della fuga di Watkowiak e dello scoppio d’ira di Behnke.
«Riesco ad accettare anche cose terribili» disse bevendo un sorso. «Ma fino a un certo punto. Quella ragazza è stata uccisa con una brutalità, con una violenza cosí assurda… che non riesco a farmene una ragione».
Dopo l’ultima fetta di pizza, si pulí le dita unte con un pezzo di carta da cucina. Era sfinita e insieme tesa fino allo spasimo. Christoph si alzò da tavola e buttò le scatole ormai vuote nel secchio dell’immondizia, poi si mise dietro di lei, le posò le mani sulle spalle e cominciò a massaggiarle delicatamente i muscoli contratti.
«Comunque una cosa positiva c’è: vedo piú chiaro che mai il senso del mio lavoro». Pia chiuse gli occhi. «Troverò il bastardo e lo sbatterò in prigione per sempre».
Lui si chinò per baciarle una guancia.
«Sembri davvero distrutta» bisbigliò. «Mi dispiace dover andare via proprio adesso».
Pia si voltò. Sapeva che il giorno seguente avrebbe preso un aereo per il Sudafrica. La settimana a Città del Capo per il convegno della WAZA, la World Association of Zoos and Aquariums, era in programma da mesi. Christoph non era ancora partito e già ne sentiva terribilmente la mancanza.
«Sono solo otto giorni» osservò con una calma che in realtà non aveva. «E comunque posso chiamarti in qualsiasi momento».
«Lo farai, vero?». L’attirò a sé. «Prometti che mi chiamerai per qualunque cosa».
«Te lo prometto». Pia gli passò le braccia intorno al collo. «Ma non sei ancora partito. Dovremmo approfittarne».
«Dici?».
Invece di rispondere, lo baciò sulle labbra. Non aveva nessuna voglia di lasciarlo andare. Quand’era sposata con Henning, che era spesso in viaggio, non si preoccupava né s’infastidiva se non riusciva a raggiungerlo per giorni. Con Christoph era diverso. Non erano mai stati lontani per piú di ventiquattr’ore e il solo pensiero di non poterlo trovare allo zoo per una settimana intera le causava un doloroso senso di abbandono.
Il desiderio che trasmetteva con ogni fibra del proprio corpo era talmente forte che lui se ne accorse subito. Naturalmente non era la prima volta che andavano a letto insieme eppure, mentre lo seguiva in camera, il cuore le batteva all’impazzata. In un attimo Christoph si tolse tutti i vestiti. Non aveva mai avuto un uomo cosí, che dava e pretendeva tutto, che non le consentiva nessuna fuga, nessun imbarazzo, nessun finto orgasmo. Non poteva fare a meno di reagire con ardore, e in fondo non desiderava altro. Non era il momento della tenerezza. Voleva cedere alla passione e dimenticare l’orribile giornata appena trascorsa.