«La bellezza salverà il mondo» diceva il principe Myškin, protagonista del romanzo L’idiota di Dostoevskij. Una frase diventata topica e – anche al di là del suo significato originale – usata ogni qualvolta si vuole sottolineare il potere enorme di questo bene immateriale che prende forma nell’arte, nelle opere culturali e soprattutto nella natura. È la bellezza, infatti, che ci incanta, che ci rapisce, che ci dà piacere appagando sia il corpo sia la mente.
Me ne sono accorta una volta di più durante i pesanti mesi in cui tutti abbiamo dovuto rimanere chiusi in casa per contenere la pandemia di Covid-19.
Oltre alle terribili notizie sul numero delle vittime e dei malati che continuavano a salire, di quei giorni ricordo il malessere per non poter uscire di casa nemmeno per fare una passeggiata e l’impossibilità di entrare in contatto con la natura che potevo ammirare solo nel mio giardino, in cui rimanevo per ore.
Nulla mi sembrava più desiderabile e necessario. Niente mi avrebbe dato più sollievo che raggiungere uno dei miei luoghi del cuore e stare lì immobile, cercando di calmare la testa e il cuore così confusi e agitati per la tragedia che stavamo vivendo.
La natura, ne sono sempre stata convinta, ha la capacità di curare e di recente lo ha decretato persino la scienza. In Scozia, in particolare, qualche anno fa sono state introdotte a fianco delle prescrizioni tradizionali di farmaci anche le cosiddette «Nature prescription». In pratica, si raccomanda ai pazienti di «assumere dosi» di natura, partendo dall’idea che stare all’aria aperta, camminando in aperta campagna o nel fresco dei boschi, offra grandi benefici di salute a chi soffre di problemi come ansia, depressione, ipertensione o diabete. Ma non solo.
Stare a contatto con ciò che costituisce la base di tutto, come l’acqua, la terra, il vento o la luce, aiuta a ristabilire la connessione profonda con ciò che siamo, al di là degli impegni, dei ruoli e della vita frenetica che ci spinge sempre troppo distanti dalle cose essenziali.
Stendersi su un prato, immergersi nell’acqua del mare, riempirsi i polmoni dell’aria pura di montagna è ciò che di più simile c’è a quella libertà, così astratta, che nei giorni della clausura forzata abbiamo invece percepito come una presenza viva, pulsante e soprattutto incredibilmente preziosa.
Una libertà che ora proviamo timidamente a riprenderci, uscendo all’aperto nelle nostre città, nelle nostre regioni e tornando a godere dell’incredibile tesoro artistico e naturalistico che il nostro paese custodisce.
Sì, perché un’altra cosa che diamo spesso per scontata ma non lo è affatto è proprio l’Italia. Forse perché, come recita un vecchio detto, «nessuno è profeta in patria». Eppure, viviamo in un paese che definire tra i più belli del mondo non è certo un’esagerazione, come dimostra l’opinione dei viaggiatori stranieri.
Secondo una rilevazione fatta qualche anno fa dall’Agenzia nazionale del turismo (Enit) l’Italia è, infatti, tra le mete più desiderate al mondo. Un primato che si traduce in un numero enorme di visitatori (428 milioni solo nel 2018) e in un peso economico del settore del turismo – almeno fino alla pandemia di Covid-19 – in costante crescita (nel 2018 il peso del comparto sul PIL superava il 13 per cento).
Questo non significa che bellezza e natura possano essere misurate con i numeri o, peggio ancora, con il denaro, ma che noi italiani sediamo sopra a un tesoro immenso che dovremmo valorizzare e godere di più noi per primi, visto che sembra proprio che all’estero ne abbiano capito il valore più e meglio di noi. E non da ieri. Basti pensare, per fare solo un esempio, al Grand Tour: il lungo viaggio di istruzione e formazione culturale così di moda tra l’aristocrazia europea tra il Settecento e l’Ottocento. Si trattava di un’esperienza che durava mesi e che portava i giovani delle famiglie più abbienti dell’epoca a visitare le principali attrazioni culturali del Vecchio Continente, compresa ovviamente l’Italia che per la sua importanza storica e artistica rappresentava la tappa più importante di tutto il viaggio. A raccontarcelo sono state figure di spicco come Wolfgang Goethe, sulla cui poetica la conoscenza del nostro paese influì talmente tanto che volle dedicare alle sue città e alla sua storia persino un intero saggio (Viaggio in Italia). Ma l’esperienza italiana fu indimenticabile anche per Herman Melville, Percy e Mary Shelley, Stendhal, Michel de Montaigne, Lord George Gordon Byron e molti altri celebri scrittori e intellettuali ai quali monumenti come il Colosseo e spettacoli naturali come le eruzioni dell’Etna rimasero impressi per sempre nella memoria.
E come dar loro torto?
Abbiamo, nel nostro paese, spesso a distanza di poche ore di viaggio, città magiche come Venezia, Firenze e Roma, scenari come le Dolomiti o l’isola di Capri: quest’ultima è uno dei luoghi sicuramente più rappresentativi agli occhi degli stranieri. Capri è infatti l’Italia per antonomasia: quella della bellezza, del buon cibo, della tradizione, degli scorci che si aprono all’improvviso facendo intravedere ville magnifiche, e anche, ovviamente, del mare che brilla come fosse ricoperto di scaglie luminose. Tutto questo – e molto di più – attraverso i secoli ha fatto di questa piccola isola, che si estende per poco più di 10 chilometri quadrati, una calamita per i visitatori. Era così fin dai tempi degli antichi romani, non a caso qui l’imperatore Tiberio decise di costruire una sontuosa residenza che rappresenta un po’ l’antesignana delle grandi ville affacciate sul mare, costruite qui nei secoli successivi e divenute la dimora, anche solo per una fugace estate, di artisti e celebrità.
Ad attirarli era il fascino antico e potente di questa isola con coste così alte da essere, in alcuni punti, persino inaccessibili. E tutto intorno rupi e grotte naturali scavate dalla forza del mare nella roccia calcarea antica che ne costituisce il cuore e che ne ha alimentato le leggende. Pensate che secondo alcune teorie i suoi grandi faraglioni sarebbero da identificare con l’isola delle sirene del mito di Ulisse: quella abitata da creature dal corpo di pesce (o di uccello) e dal volto di donna, tanto belle quanto pericolose. Con il loro canto ammaliatore erano infatti capaci di stregare i marinai, che per raggiungerle si avvicinavano alle coste e naufragavano.
Ho voluto ricordare l’incanto dell’isola di Capri ma avrei potuto citare centinaia di altre località che fanno del nostro paese il gioiello che è.
Eppure molte volte mi sembra che non ce ne rendiamo conto e diamo tutto questo per scontato. Da troppo tempo abbiamo perso il valore della cura. Quella cura che invece il nostro territorio meriterebbe e che un tempo forse gli riservavamo di più. Penso, per esempio, alla città di Roma, con la sua bellezza un po’ trascurata se non persino violata come quando, la scorsa estate, cumuli di rifiuti si trovavano persino vicino ai più importanti monumenti.
O ancora al fiume Po, in cui negli anni Sessanta si poteva ancora nuotare, mentre ora abbondano i cartelli che avvisano che «fare il bagno è pericoloso».
Purtroppo non si tratta di un caso isolato, secondo il dossier H20 - La chimica che inquina l’acqua pubblicato da Legambiente a giugno 2020, circa il 60 per cento delle acque di fiumi e laghi italiani sarebbero non in buono stato o non adeguatamente protette. Al loro interno le analisi hanno infatti individuato diversi tipi di inquinanti tra cui pesticidi, antibiotici, microplastiche, sostanze e composti chimici.
A soffrire non è solo l’acqua ma anche l’aria con la Pianura Padana che figura sempre in testa alle classifiche sull’inquinamento da polveri sottili, e persino la terra. L’ultimo rapporto Ispra sul consumo di suolo ha rivelato che l’Italia nel 2019 ha visto crescere il cemento di altri 57 milioni di metri quadrati.
Sono solo alcuni dei dati che raccontano quanto la natura del nostro paese sia quotidianamente assediata. La bellezza delle nostre coste, delle nostre montagne o delle nostre città non ci ha resi immuni all’inquinamento sia colposo sia doloso. La coscienza ambientalista in Italia è, infatti, nata e cresciuta facendosi strada tra il fumo delle ciminiere, gli scarti industriali sepolti sotto la terra che avrebbe dovuto produrre frutti e l’acqua sporcata da scarichi destinati altrove.
Dai casi più noti e devastanti a quelli più piccoli, la storia nazionale ha sicuramente molte pagine che ancora oggi ricordiamo con dolore e altre che meriterebbero di essere riscritte il prima possibile.
Alla luce di tutto questo, come può l’Italia essere considerata così bella? Forse perché c’è anche l’altro lato della medaglia: quello fatto da tutte quelle persone, enti, associazioni e persino imprese che si occupano quotidianamente di proteggerla e di salvaguardarne le bellezze.
La lista è fortunatamente lunga. Dalle grandi realtà che da decenni sono impegnate sul fronte ambientalista e grazie alle quali sono stati raggiunti importanti risultati, a quelle più piccole, fino alle imprese dei singoli, meno conosciute magari ma il cui ricordo spero possa infondere a chiunque la speranza che le cose, quando ci si crede davvero, possono cambiare.
Penso, per esempio, alla lunga battaglia che ha impegnato per anni cittadini e associazioni e che ha portato al salvataggio di una delle aree verdi più amate di Roma: il Parco della Caffarella. Si tratta di una zona di grande valore non solo naturalistico ma anche archeologico visto che sorge a ridosso di una delle vie di comunicazioni più importanti dell’antica Roma e non solo: l’Appia Antica, lungo la quale continuano a emergere reperti archeologici.
Eppure, a partire dal secondo dopoguerra la zona iniziò a essere assediata dal cemento: sia quello abusivo sia quello che faceva capo a grandi progetti di lottizzazione che puntavano a spazzare completamente via questo polmone verde. Un rischio scongiurato solo grazie alla lotta, durata decenni, di tante persone tra le quali anche Antonio Cederna, fondatore dell’associazione Italia Nostra, che a dispetto delle difficoltà non si sono mai arrese. È a loro soprattutto che si deve la nascita del grande Parco archeologico dell’Appia Antica che oggi comprende sia il Parco della Caffarella sia altre aree verdi dislocate lungo l’antica via romana.
Storie come questa hanno luogo in molte parti d’Italia. In Friuli-Venezia Giulia, per esempio, ci sono giovani come Aran Cosentino che dopo due anni di lotte è riuscito a salvare il torrente Alberone, «uno degli ultimi torrenti italiani incontaminati» come ha dichiarato in una lettera a «La Stampa». Aran ha convinto infatti la regione a bloccare la costruzione di una centralina idroelettrica che a suo parere avrebbe «sconvolto l’ecosistema».
Vicende come queste ci dicono che combattere per proteggere la natura non è inutile. E non lo è nemmeno farlo a monte, cercando di cambiare il nostro modo di produrre come nel caso delle tante imprese e startup nate negli ultimi anni con l’obiettivo di riutilizzare e valorizzare gli scarti. Penso per esempio a idee made in Italy come le traverse ferroviarie fatte di plastica e gomma ricavate dai vecchi pneumatici, o ai vestiti prodotti con filati ottenuti dagli scarti di lavorazione dell’industria vitivinicola o da quella degli agrumi.
E come non citare Daniela Ducato, l’imprenditrice sarda premiata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Cavaliere della Repubblica per meriti ambientali. Daniela ha trasformato gli scarti di lavorazione di varie industrie tipiche della sua terra come quella della lana, del sughero, della canapa, dell’olio o della birra in materiali per l’edilizia privi di petrolchimici.
Anche produrre senza sottrarre nuove risorse all’ambiente è un modo per proteggerlo, per custodirne i tesori e le ricchezze.
Ricchezze che ancora risplendono, nonostante gli strati di polvere o qualche graffio, proprio grazie a chi ogni giorno fa del proprio meglio per proteggere il pianeta su cui poggiamo i piedi e, nel nostro caso, un paese come l’Italia che, a dispetto di tutto, offre ancora la possibilità di fare un viaggio incredibile attraverso la bellezza.
Da nord a sud sono innumerevoli le cose che bisognerebbe vedere e visitare almeno una volta nella vita.
Non basterebbe un libro intero per raccontare i tesori del nostro paese, compresi quelli ancora poco noti e ingiustamente sottovalutati.
Sì, perché esiste un’Italia nell’Italia. Si tratta di un paese che, a torto, conosciamo troppo poco eppure è qui che ancora si conserva l’essenza più vera della nostra terra. Lontano dalle grandi città e dalle località che nel corso degli anni sono purtroppo diventate dei supermarket del turismo, c’è un paese reale che offre a chi ha voglia di esplorarlo esperienze uniche.
È l’Italia ingiustamente considerata minore, ma che in realtà conserva la storia, la tradizione e la cultura di un paese che è storicamente la somma di molte realtà locali. Sarebbe quindi più corretto definirla un’Italia intima, privata, silenziosa perché lontana dal caos e dal divertimento forzato. Per raggiungerla ci si inoltra in un’altra geografia, spesso ignorata dai navigatori satellitari perché fatta di cammini, di sentieri o strade poco frequentate che però conducono a piccoli, grandi tesori.
È questo il caso di Civita di Bagnoregio o dei tanti borghi sparsi per l’Italia che lottano ogni giorno contro lo spopolamento e di cui Civita è sicuramente l’emblema.
Chiamata anche «la città che muore», questa cittadina di soli nove abitanti in provincia di Viterbo è infatti arroccata da secoli su un colle di tufo che perde un pezzo a ogni frana. A collegarla al resto del mondo un lungo ponte sospeso che si può attraversare solo a piedi.
Una situazione che può essere piuttosto scomoda, ma molto del fascino di questo luogo, inserito tra i borghi più belli d’Italia, risiede anche qui. Non è un caso infatti se ogni anno la visitano circa 800mila turisti, e la sua forma così particolare è stata persino fonte di ispirazione per artisti e registi. Pensate che Civita è diventata famosa persino in Giappone perché la sua conformazione sembra aver ispirato il regista e sceneggiatore giapponese Hayao Miyazaki per uno dei suoi film di animazione. Tutto questo ha contribuito a rivitalizzare almeno in parte le poche attività economiche rimaste a Civita che, anche grazie alla tenacia dei cittadini, hanno fatto rete per offrire a chi visita questo luogo magico un’esperienza indimenticabile.
Una cosa simile a quella che si sta sperimentando in altri piccoli borghi a rischio spopolamento, come quelli che ho visitato in Sicilia durante un reportage nell’estate del 2019. La mia ricerca di luoghi tanto preziosi quanto poco conosciuti mi ha portato in alcuni piccoli comuni in provincia di Agrigento: Cammarata, San Giovanni Gemini e Sant’Angelo Muxaro. Qui ho toccato con mano l’esistenza di un’altra dimensione: più naturale, più rilassata e, oserei dire, persino più umana. Perché è proprio dal legame profondo tra la terra e i suoi abitanti che è nata per questi luoghi una seconda occasione che ha due parole d’ordine: turismo esperienziale e albergo diffuso.
Si tratta di un modo per rivitalizzare i centri storici, utilizzando le case che ci sono già per offrire accoglienza ai turisti, spesso ospitati dagli stessi proprietari delle abitazioni che si occupano anche di «coccolarli» cucinando i piatti del posto. Il risultato è la possibilità di entrare davvero in contatto con le persone del luogo tanto che, come mi hanno raccontato qui, chi viene in visita si riporta a casa non solo un’esperienza rilassante, ma anche incontri umani, relazioni, nuove amicizie.
Più che di una vacanza si tratta di un’esperienza che viene costruita attorno al visitatore, facendogli non solo vedere ma anche «sperimentare» (da qui l’espressione «turismo esperienziale»), per esempio, come si realizzano prodotti e pietanze tipiche. «Il turista non si accontenta più di assaggiare il pane del fornaio, ma ama farlo insieme a lui», mi hanno spiegato gli organizzatori di questa interessante iniziativa che rappresenta un’occasione di rinascita per territori quasi abbandonati e una possibilità di occupazione per tanti giovani del luogo che altrimenti sarebbero costretti a emigrare.
Esperienze come questa stanno lentamente prendendo piede in varie zone d’Italia, dalla città di Matera ai piccoli borghi dell’entroterra pugliese, con l’obiettivo comune di dare vita a un modo di vivere il viaggio e il turismo che non sia più solo mordi e fuggi, ma che sappia davvero lasciare e restituire qualcosa sia alle persone sia ai territori.
C’è chi lo chiama turismo lento, io amo pensare che questo sia forse il tipo di dimensione da cui il nostro paese dovrebbe ripartire per salvare davvero la sua identità più profonda. Quella di chi, come scrive il poeta Franco Arminio, «sa fare il pane», «ama gli alberi e riconosce il vento». Un’Italia al tempo stesso più umana e più naturale.