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Quando l’energia non è mai abbastanza

Nel corso di questo nostro viaggio intorno al mondo abbiamo incontrato un’infinità di ambienti naturali diversi. Abbiamo sorvolato foreste vergini, ammirato laghi dalle acque cristalline, provato il brivido di avvicinarci a ripidi ghiacciai. Ci siamo smarriti in deserti infiniti e abbiamo ritrovato la strada seguendo le rotte degli antichi viaggiatori. La Terra ci si è dispiegata davanti in tutta la sua magnificenza e vastità.

Eppure, tra le infinite sfumature che la bellezza della natura può assumere, sono emersi anche dei chiaroscuri, delle ferite. A provocarle, come abbiamo avuto modo di scoprire, è stato quasi sempre il nostro passaggio. Secolo dopo secolo, gli esseri umani di tutte le epoche hanno lasciato dietro di sé solchi e segni profondi che hanno stravolto l’aspetto della natura e spesso ne hanno compromesso persino la salute. Non sempre sono stati atti volontari, compiuti con il preciso intento di rovinare ciò che invece avrebbe dovuto essere preservato per le generazioni a venire. Nella maggior parte dei casi si è trattato, come si dice nel linguaggio militare, di danni collaterali. Così vengono definite le «conseguenze indesiderate» delle operazioni belliche e così potremmo chiamare anche i contraccolpi di quell’attitudine tipica dell’uomo che è insieme la sua forza e la sua condanna: la spinta costante a tentare di superare i propri limiti, alzando il più possibile l’asticella delle proprie conoscenze e capacità.

Dall’invenzione della ruota fino ai microchip, e dal telegrafo a Internet, quella degli esseri umani è stata ed è una corsa continua verso il progresso. O almeno verso quello che per secoli abbiamo considerato tale. Oggi, infatti, dopo molti decenni di danni collaterali, sappiamo, per esempio, che quasi tutti i processi industriali portano inevitabilmente con sé la creazione di scorie e inquinanti che vanno smaltiti nel modo corretto e non dispersi nell’ambiente. Dico «sappiamo» ma forse dovrei dire «dovremmo sapere», visto che purtroppo le pagine dei giornali riportano troppo spesso storie di imprese senza scrupoli che pur di massimizzare i profitti mettono in pericolo la salute dei dipendenti e dell’ambiente.

Fortunatamente però sono lontani i tempi in cui sversare acque inquinate nei fiumi o interrare materiale di scarto era considerato normale, perché mancavano leggi adeguate e una consapevolezza capillare nella popolazione delle conseguenze terribili che questi comportamenti hanno per i territori e chi li abita.

Guardandoci alle spalle, la storia dell’umanità è però costellata di quello che potremmo chiamare «il senno di poi». Le regole e le norme che oggi vengono applicate per tutelare l’ambiente sono infatti spesso il risultato di lunghe battaglie e della consapevolezza maturata dopo aver visto i danni che comportamenti sbagliati hanno provocato su luoghi e comunità spesso fragili e indifesi.

È il caso della storia che voglio raccontarvi. Affonda le sue radici nel passato del continente nordamericano e si lega a doppio filo con quello che è stato forse da sempre l’oggetto delle ricerche più affannose dell’umanità in ogni epoca storica. Senza questo elemento, infatti, non sarebbe stata possibile la maggior parte dei grandi progressi che hanno rivoluzionato le nostre vite e cambiato il volto delle nostre città, permettendo di portare a termine anche imprese un tempo impensabili come spostarsi in poche ore da un continente all’altro (per non dire arrivare sulla Luna). Sto parlando dell’energia, o meglio delle fonti energetiche: senza, la nostra civiltà, così come la conosciamo oggi, non potrebbe funzionare. Accendere una lampadina, guardare la televisione, farsi una doccia calda, guidare l’auto, sono tutte azioni che facciamo quasi senza pensare. Non ci stupiamo più del miracolo tecnologico che hanno dietro di sé, e spesso nemmeno sappiamo quale tipo di fonte energetica serva per alimentarle.

Anche se oggi, come vedremo, abbiamo imparato a sfruttare l’energia che si ricava dal sole, dal vento e dall’acqua, la più importante fonte energetica della nostra epoca è ancora rappresentata dai combustibili fossili, come il carbone e soprattutto il petrolio.

Divenuto così importante da essere chiamato «l’oro nero» il petrolio si trova imprigionato all’interno della terra e la sua origine va cercata nell’evoluzione della superficie terrestre. Si è formato nel corso di milioni di anni, ma l’uomo ha iniziato a sfruttarlo a ritmo sempre più elevato soprattutto a partire dall’Ottocento.

Il petrolio rappresenta infatti la base dell’economia moderna sia come carburante sia come materia prima dell’industria chimica, visto che serve per ottenere coloranti, fibre sintetiche, plastica.

Per conquistarne i giacimenti si sono combattute guerre sia economiche sia militari. Intorno alla sua estrazione, raffinazione e trasporto sono nate ricchezze smisurate che hanno dato vita a un mercato capace di influire sulla geopolitica mondiale e, come abbiamo scoperto negli ultimi decenni, anche sul clima.

Tutto il settore è in mano a poche grandissime aziende, che fanno capo ad altrettanto poche nazioni, le quali da secoli dominano il mercato grazie alla presenza sul loro territorio (o su territori che controllano grazie ad accordi politici ed economici) di giacimenti petroliferi.

È questo il caso degli Stati Uniti, il luogo dove si svolge la storia che voglio raccontarvi.

La nostra meta è il North Dakota, uno stato a lungo lontano dalle rotte turistiche e spesso ingiustamente sottovalutato. Pensate che dei suoi paesaggi si era perdutamente innamorato uno dei presidenti americani scolpiti sul famoso Monte Rushmore: Theodore Roosevelt. Leggenda vuole che questo uomo di città, nato a New York nel 1858, si sia invaghito della natura e abbia capito l’importanza di preservarla proprio andando a caccia in North Dakota. Si dice, infatti, che il contatto con l’ambiente aspro e selvaggio di questo stato fece scattare qualcosa in lui che nell’arco di pochi anni lo trasformò in un fervente (se paragonato ai suoi contemporanei) sostenitore della conservazione. Si devono a lui, infatti, le prime grandi leggi per la protezione dell’ambiente e soprattutto la volontà di mettere il tema al centro del dibattito pubblico.

Tuttavia, a dispetto del grande amore del ventiseiesimo presidente americano per questo territorio, il North Dakota non è uno degli stati più rinomati del continente. E fino a pochissimi anni fa continuava a essere tra i meno visitati dai turisti, oltre che tra i meno popolati di tutti gli Stati Uniti.

Le cose cambiano però nei primi anni Duemila quando, come ha documentato il «New York Times» nel 2013 in un lungo reportage, diventa finalmente possibile sfruttare il vero tesoro nascosto sotto la sua terra rocciosa: il petrolio.

In realtà, che il North Dakota fosse ricco di oro nero era noto fin dagli anni Cinquanta, ma era difficile estrarlo, cosa invece resa possibile con lo sviluppo di nuovi sistemi di estrazione come il tanto contestato fracking (una tecnica che prevede di aprire delle fratture nella roccia pompandovi dentro acqua e sostanze chimiche capaci di creare un canale che consenta al petrolio di fuoriuscire. Secondo gli esperti questo sistema aumenta però il rischio di perdite, oltre a essere naturalmente molto invasivo rispetto all’integrità del territorio).

Grazie alla spinta data dal boom del petrolio, il volto dello stato inizia a cambiare. Le nuove possibilità di impiego attirano migliaia di lavoratori e quelli che fino ad allora erano solo piccoli paesi si trasformano in grandi centri abitati. Ma assieme a tutto il resto crescono anche i problemi ambientali che, quasi per uno scherzo del destino, si ripercuotono su chi ha meno voce e potere, come i Sioux della riserva di Standing Rock.

Tutto comincia nel 2016, quando inizia la costruzione del Dakota Access Pipeline: un oleodotto che in teoria dovrebbe trasportare diverse migliaia di barili al giorno di greggio dai pozzi nel giacimento di Bakken in North Dakota, fino alle raffinerie dell’Illinois. L’opera, presentata come un progetto grandioso e come una preziosa occasione di arricchimento e di sviluppo per tutto il territorio, passerebbe però proprio vicino alle terre dei Sioux e un tratto dell’oleodotto dovrebbe anche scorrere sotto il fiume Missouri: la principale fonte d’acqua dei nativi che in questo fiume pescano e che lo mettono al centro di antichi riti religiosi tra cui le cerimonie funebri. Il loro timore è dunque che un guasto o la rottura delle condutture che trasportano il greggio potrebbero inquinare l’acqua del fiume e il territorio circostante.

Un rischio non così remoto se si pensa per esempio all’incidente avvenuto in California, al largo delle coste di Santa Barbara, nel 2015, quando un guasto in un oleodotto provocò una perdita di oltre 400mila litri di petrolio, una parte dei quali si riversò nell’oceano.

Spinti da questi timori, i Sioux decidono di rivolgersi a un tribunale per chiedere al governo degli Stati Uniti – siamo negli anni della presidenza di Barack Obama – di bloccare l’opera, o almeno il passaggio sotto la loro terra.

Fortunatamente, la richiesta viene accolta.

Tutto è bene quel che finisce bene? Purtroppo no perché, poco tempo dopo, inizia il mandato presidenziale di Donald Trump che decide non solo di riprendere la costruzione dell’opera ma anche di accelerarla.

A poco servono le manifestazioni e il sostegno, come era avvenuto nelle precedenti proteste, di celebrità come Leonardo DiCaprio e Joan Baez.

Ma i Sioux non si fermano. «Questa è una battaglia per la nostra dignità e per il nostro futuro», urlano per anni, senza arrendersi, anche di fronte al completamento prima e all’avvio poi dell’oleodotto.

Dopo oltre quattro anni di lotta, a marzo 2020, la notizia in cui nessuno sperava più: un tribunale federale decide di bloccare il Dakota Access Pipeline stabilendo, come riferisce il «New York Times», che «gli effetti della pipeline sulla qualità dell’ambiente umano sono probabilmente molto controversi» e riconoscendo che il rischio di perdite e guasti non era stato adeguatamente valutato. Infine, il tribunale ordina una nuova e più completa valutazione ambientale che tenga finalmente conto di tutti questi aspetti.

Questo significa che la pipeline non riprenderà mai più a funzionare? Per ora non lo sappiamo, ma la decisione del tribunale rappresenta sicuramente un grande gesto simbolico negli Stati Uniti di Donald Trump, perché ci dimostra che un’altra narrazione è ancora possibile. Una narrazione diversa da quella del presidente americano, che finora ha sottovalutato la crisi climatica (come dimostra l’uscita degli Usa dall’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, in base al quale le nazioni aderenti si sono impegnate per ridurre la produzione di gas a effetto serra); ha smantellato molte delle politiche a tutela dell’ambiente volute dal suo predecessore (la redazione del «New York Times» che si occupa di tematiche ambientali ne ha contate a luglio 2020 un centinaio); e soprattutto ha scelto di premere l’acceleratore sulla ricerca di combustibili fossili, anche oltre i confini nazionali, come nel caso della Groenlandia.

Ad agosto 2019, mentre la maggior parte di noi se ne stava in spiaggia sotto l’ombrellone, Trump fece un annuncio talmente shock che all’inizio molti pensarono si trattasse di uno scherzo (o di un colpo di calore, vista la stagione). Trump dichiarò di voler acquistare la Groenlandia: la più grande isola della Terra, coperta dai ghiacci per la quasi totalità. Va detto che Trump non è stato il primo. Nel 1946 il presidente Harry Truman offrì 100 milioni di dollari, ricevendo però dalla Danimarca (visto che l’isola è formalmente un territorio danese, anche se gode di un’autonomia quasi totale) la stessa risposta del presidente attualmente in carica: «Non siamo in vendita».

Ma perché così tanto interesse per una landa desolata dove peraltro i ghiacci si stanno velocemente sciogliendo a causa dell’aumento della temperatura globale? La risposta è semplice: quello che interessa a Trump, ed evidentemente non solo lui, è ciò che si trova sotto ai ghiacci. Come hanno riportato in quei giorni diverse testate, sembra infatti che nelle aree intorno all’Artico si trovino «le più grandi riserve di petrolio e gas naturale non ancora sfruttate». Un tesoro che fa gola non solo a Trump ma anche alla Russia e alla Cina, interessate anche al fatto che la perdita progressiva di masse di ghiaccio in questa regione aprirà nuove rotte, trasformando la Groenlandia in uno snodo fondamentale per i trasporti e gli scambi commerciali tra Asia, Europa e America.

La vicenda della Groenlandia racconta molto bene, secondo me, come nonostante negli ultimi anni scienza e società civile stiano urlando a gran voce che un cambiamento non è più rimandabile se vogliamo salvare il pianeta, chi ha il potere non la pensi sempre così.

E il fatto che alcune tra le più grandi potenze mondiali, invece che tentare in tutti i modi di contenere la CO2, continuino a puntare su forme energetiche che hanno le emissioni più alte non fa certo ben sperare.

Eppure, sarebbe più urgente che mai mettere da parte petrolio e carbone e investire, più di quanto non si faccia, su alternative meno inquinanti visto che la temperatura globale continua inesorabilmente ad alzarsi, mentre le emissioni di gas serra scendono ancora troppo lentamente.

Secondo gli ultimi dati del Global Carbon Project, durante gli anni Duemila le emissioni globali sono aumentate in media di circa il 3 per cento ogni anno. A partire dal 2010 hanno invece iniziato a rallentare, assestandosi intorno a una crescita media dello 0,9 per cento annuo (solo per fare qualche esempio: nel 2017 sono aumentate «solo» dell’1,5 per cento, nel 2018 del 2,1 per cento, e nel 2019 dello 0,6 per cento). E se a noi profani questi dati possono sembrare già un successo, gli esperti avvisano che si tratta di «progressi troppo lenti» e soprattutto tardivi visto che processi come l’innalzamento del livello dei mari sono già una realtà.

Questo non significa che sia ormai tutto perduto e che quindi non valga più la pena di cercare soluzioni. Anzi. Scegliere forme energetiche a basse emissioni è più che mai una priorità che alcuni paesi, come vedremo, hanno preso più sul serio di altri.

Tra chi finora è rimasto indietro c’è per esempio la Cina che nel 2018 era responsabile, sempre secondo il Global Carbon Project, del 28 per cento delle emissioni globali. Ma non sono da meno nemmeno gli Usa la cui quota era pari al 15 per cento, e l’India con il 7 per cento. Maglia nera anche per l’Unione Europea che, se nel 2018 era riuscita a raggiungere il 18,9 per cento di energia rinnovabile, continuava però a produrre il 9 per cento delle emissioni globali.

Si tratta di numeri sui quali incidono sicuramente le scelte politiche ed economiche delle grandi potenze mondiali, ma non solo. Molto dipende anche da noi.

Siamo noi cittadini, in fondo, i fruitori dell’energia. E questo ci dà un piccolo potere decisionale che dovremmo imparare a utilizzare.

Lo racconta bene il caso delle comunità energetiche nate negli ultimi anni in moltissime città italiane. Si tratta di gruppi di cittadini che si uniscono per autoprodurre e condividere energia ricavata da fonti rinnovabili. E se una soluzione di questo tipo ci sembra troppo macchinosa, sono sempre di più i gestori di energia che offrono forniture green. La scelta è nelle nostre mani, come lo è quella di informarci meglio su come vengono investiti i risparmi che depositiamo in banca o in fondi pensione. Non molti lo sanno, infatti, ma come hanno svelato una serie di reportage compreso quello realizzato nel 2019 per «The New Yorker» dal giornalista ambientalista Bill McKibben, è molto probabile che i nostri risparmi finiscano in azioni di compagnie petrolifere e che quindi, in ultima analisi, «stiano alimentando la crisi climatica». I combustibili fossili rappresentano infatti un investimento sicuro e poco rischioso ed è per questo che, come ha evidenziato il rapporto Banking on Climate Change 2020, «i prestiti delle banche a questo settore sono aumentati ogni anno, dalla firma dell’accordo di Parigi».

Il petrolio, insomma, permea ancora oggi la nostra società e si espande – è il caso di dire – a macchia d’olio in tantissimi aspetti della nostra vita. Non si tratta più, come si diceva anni fa, di una questione da ambientalisti, ma di un problema che ci tocca tutti e che sta già mettendo a rischio l’esistenza della nostra specie.

Lo hanno capito prima degli altri i paesi del Nord Europa che, come scopriremo tra poco, sulla sfida delle rinnovabili hanno puntato tutto. È proprio dalle loro buone pratiche che possiamo prendere esempio. E gli spunti non mancano.