Cercando di capire qual è la vera causa degli incendi, ho scoperto che l’Australia ha con il fuoco una storia lunga. Uno dei primi grandi roghi risale al 1851 e interessò, come in questo caso, lo stato di Victoria. Ma, solo per citare alcuni esempi, ci sono anche quelli terribili del 1974-1975 che devastarono il New South Wales e che si ripeterono esattamente un decennio dopo, a cavallo tra il 1984 e il 1985. Un’altra tragedia la cui eco è arrivata fino a noi risale al 2009, quando un fuoco boschivo provocò la morte di centinaia di persone, di nuovo nello stato di Victoria. Questa incidenza superiore ad altri territori si spiega, almeno in parte, con la geografia. L’Australia è attraversata, infatti, dal tropico del Capricorno e gran parte del suo territorio si trova quindi nell’area dei tropici o sotto di essa: una delle zone terrestri più aride e secche.
Ma la geografia da sola non basta per capire fino in fondo cosa è successo nel 2019, quale fattore in più ha trasformato una serie di situazioni e fenomeni piuttosto frequenti nella miccia di una tragedia. Decido di contattare uno dei massimi esperti sul tema: Giorgio Vacchiano, ricercatore e docente in gestione e pianificazione forestale all’Università degli studi di Milano, considerato tra i migliori scienziati emergenti a livello mondiale dalla rivista specializzata «Nature».
Vacchiano mi conferma che in quest’area gli incendi estivi non sono certo una novità e sono collegati a cause tanto naturali quanto sottovalutate: i fulmini. Sono loro, mi spiega, che ogni anno, durante la stagione secca, nel centro-nord dell’Australia, fanno sì che «vadano a fuoco circa 38 milioni di ettari di praterie, pari al 20 per cento del totale». Secondo lui, a fare la differenza in questo caso è stato l’aumento della temperatura. «Il termometro ha segnato 1,5 gradi in più rispetto alla media registrata tra il 1961 e il 1990, mentre le temperature massime sono state superiori di oltre 2 gradi. In più è mancato circa un terzo della pioggia che di solito bagna il continente, che tra l’altro stava affrontando già da due anni un duro periodo di siccità. Con il risultato che il 2019 per l’Australia è stato l’anno più secco e caldo dal 1900 a oggi.» Pensate che secondo i dati raccolti in quei giorni dell’Ufficio di meteorologia australiano, a metà dicembre 2019 è stata registrata la temperatura media più alta di sempre: 41,9 gradi. Mentre nella città di Eucla, nell’Australia occidentale, è stato toccato il picco: 49,8 gradi, la temperatura più alta del mese di dicembre.
A portare così in su il termometro, secondo gli esperti, ha contribuito un mix di fattori che hanno come denominatore comune due parole tanto usate quanto sottovalutate nella loro sostanza: cambiamento climatico.
Un’ipotesi avanzata dagli autori dello studio State of the Climate della Società americana di meteorologia: già nel 2018 sostenevano che la lunga siccità del paese fosse influenzata «sia da variabili naturali sia dal cambiamento climatico». Va nella stessa direzione una ricerca pubblicata a marzo 2020 dagli scienziati del World Weather Attribution (un consorzio internazionale di studiosi che si occupano di analizzare se e in che modo il cambiamento climatico influisce su eventi meteorologici estremi come tempeste, ondate di calore, periodi di freddo o siccità): in un’intervista alla BBC hanno dichiarato che «mentre il mondo si surriscalda, questi eventi diventeranno più probabili e più comuni. E non è qualcosa per cui siamo pronti». Nello specifico, dai calcoli degli esperti è emerso che i cambiamenti climatici «aumentano decisamente il rischio di condizioni meteorologiche estreme che rendono gli incendi boschivi catastrofici del 30 per cento più probabili». Non solo. Gli scienziati ipotizzano che «se le temperature globali aumentassero di 2 gradi, come sembra probabile, tali condizioni si verificherebbero almeno quattro volte più spesso».
Una minaccia questa che non riguarda purtroppo solo l’Australia.
Il 2019, sul fronte incendi, è stato un annus horribilis anche per altri territori come l’Amazzonia, che abbiamo citato all’inizio del capitolo precedente, e la Siberia. Due aree che Giorgio Vacchiano conosce bene, quindi decido di rivolgergli qualche domanda per capire se si tratta solo di un caso o piuttosto di una coincidenza sospetta.
Come l’Australia, anche l’Amazzonia è un territorio che di incendi ha un’esperienza fin troppo vasta. Quest’area, patrimonio naturale inestimabile da cui dipende la vita stessa sul nostro pianeta, si estende dalle pendici delle Ande alla costa dell’Oceano Atlantico per oltre 6 milioni di chilometri quadrati, abbracciando ben nove stati. Ma la sua vastità non l’ha protetta dalla furia dei roghi, quasi sempre dolosi, appiccati per liberare aree da coltivare o su cui far pascolare il bestiame, e quindi per motivi economici.
L’Amazzonia fa i conti da quasi mezzo secolo con questo problema, che tuttavia nell’estate 2019 ha raggiunto numeri da record in tutti i paesi che includono un pezzo del polmone verde della Terra. «In Brasile» ricostruisce Giorgio Vacchiano «si è passati da 800mila ettari andati in fumo nel 2018 a 1 milione e 800mila ettari nell’estate 2019. Mentre in Venezuela, Bolivia e Paraguay gli incendi sono stati superiori alla media degli ultimi 11 anni. In generale, gli incendi di agosto 2019 in Amazzonia sono il sintomo di una deforestazione che procede ormai da 50 anni, portando con sé la sparizione di popolazioni, culture e biodiversità. Per dare un’idea della dimensione di questo disastro basti dire che dal 1985 al 2017 la foresta Amazzonica ha perso il 17 per cento della propria estensione. E se la deforestazione raggiungerà una quota compresa tra il 25 e il 40 per cento, l’Amazzonia potrebbe scomparire perché non ci saranno abbastanza alberi per fare evaporare l’acqua che poi si trasforma in pioggia, alimentando così tutto il sistema che garantisce la sopravvivenza di quest’area.»
Spostiamoci ora dall’altra parte del pianeta. Nell’estate del 2019, mentre l’Amazzonia brucia, fiamme imponenti si alzano anche nel nord della Russia. Nel quasi totale silenzio di tutti gli organi di informazione, prende fuoco un territorio il cui nome fa pensare al gelo, al freddo, ai ghiacci, insomma a tutt’altro rispetto che agli incendi: la Siberia. Ma che cosa è accaduto di preciso e quanto grande è stata l’area coinvolta? «In questa regione della Russia» mi spiega Vacchiano «dove le medie invernali scendono oltre i meno 50 gradi, sono andati a fuoco circa 9 milioni di ettari di foreste e solo ad agosto oltre 400 incendi hanno devastato la Grande foresta del Nord.» Come per l’Australia anche qui non si tratta, di per sé, di un fenomeno eccezionale: «Ogni anno nella taiga si verificano alcuni roghi» precisa l’esperto «ma le fiamme dell’estate 2019 sono state superiori alla media. Si tratta di aree disabitate, dove è più difficile notare subito i roghi e quindi contenerli. Bisogna inoltre ricordare che nello stesso periodo ci sono stati incendi in tutta l’area artica come conseguenza di una grave siccità che ha interessato la zona».
A questo punto, forse anche a voi – proprio come è successo a me – sarà sorta una domanda: come mai tutti questi fuochi nello stesso anno? Che cosa è cambiato nel 2019 rispetto al passato? Secondo Vacchiano questo incremento è iniziato in realtà qualche anno prima: «È dal 2017 che gli scienziati hanno notato un aumento preoccupante dei fuochi boschivi» rivela. «Abbiamo iniziato con quelli in Grecia e in Portogallo, per poi passare nel 2018 all’Indonesia e alla penisola scandinava, fino a quelli del 2019. La vera particolarità di questi ultimi anni è l’aumento della variabilità dei fenomeni meteorologici estremi: siccità, caldo eccessivo e roghi, ma anche piogge forti e improvvise sono sempre più frequenti e imprevedibili e questo è dovuto senza dubbio al cambiamento climatico.»
Se quindi una responsabilità esiste non può che essere imputata al nostro stile di vita e alle azioni di noi esseri umani, sia come singoli individui sia come nazioni. Queste ultime sono chiamate ora più che mai a trovare delle soluzioni visto che gestire il fuoco e controllare gli incendi sembra essere una delle nuove priorità legate all’emergenza climatica che i governi di tutti i paesi del mondo – e in particolare quelli che ospitano al loro interno grandi aree boschive – dovranno affrontare nel corso dei prossimi anni. Perché quando respiri cenere e vedi il tuo paese bruciare, il cambiamento climatico smette di essere un argomento di discussione da scienziati e diventa reale, entra nella tua vita.
Non più qualcosa da immaginare, ma qualcosa di fin troppo reale.