Difficile vedere il famoso bicchiere mezzo pieno di fronte a simili dati e a queste previsioni tutt’altro che ottimistiche. Eppure, anche in questa vicenda c’è un risvolto positivo. A partire dalle immagini dei koala e dei canguri ustionati che hanno fatto commuovere il mondo sono venute alla luce altre storie che ruotano attorno a questi animali e che fino a quel momento erano arrivate alle orecchie (e agli occhi) solo di qualche associazione ambientalista.
Un po’ alla volta, sono salite agli onori della cronaca notizie che la maggior parte di noi normalmente preferisce non vedere, perché se prestassimo loro l’attenzione che meritano saremmo chiamati ad affrontare il dilemma di un cambio radicale del nostro stile di vita. Stile di vita a cui la maggior parte delle persone però non vuole rinunciare.
A cosa mi riferisco?
Per esempio, alle informazioni sulla caccia commerciale ai canguri e sul ruolo del nostro paese, l’Italia, in questa mattanza legalizzata.
Ma facciamo un passo indietro. All’inizio di ottobre 2019, quando ancora dei roghi australiani in Italia si parlava poco, la Lega contro la vivisezione degli animali (LAV) ha denunciato la strage di canguri che avviene ogni anno in Australia a beneficio dei consumatori di tutto il pianeta, compresi quelli italiani.
Non si tratta infatti di bracconaggio o caccia di frodo, argomento del quale parleremo nei prossimi capitoli, ma di una caccia che potremmo chiamare commerciale, cioè consentita dallo Stato e definita da norme precise.
La presenza di regole ovviamente non evita né cancella il fatto che questa pratica porta alla morte dell’animale. Morte che avviene, tra l’altro, in maniera atroce. Come per molte altre cacce legalizzate, anche quella ai canguri è, infatti, estremamente crudele e violenta.
Il termine tecnico è harvest: raccolto. Un sistema presentato come sostenibile, ma che in realtà è «un vero e proprio massacro», fatto di «stragi lente e dolorose, con un numero impressionante di vittime collaterali, cuccioli dipendenti dalle madri, deambulanti o ancora nel marsupio, animali feriti, o fuggiti in preda al panico, tutti condannati a lenta agonia».
E non si tratta di pochi casi isolati. Quello che è in corso da decenni è, infatti, «un massacro di proporzioni dieci volte maggiori della più nota caccia alle foche del Canada, ma scarsamente conosciuto».
In tutto questo l’Italia ha purtroppo una grande responsabilità. Nonostante il nostro paese sia geograficamente lontanissimo dall’Australia, abbiamo tuttavia un triste primato. Secondo i dati raccolti dall’Associazione, l’Italia sarebbe infatti «il principale importatore europeo di pelli di canguro, utilizzate in larga scala per prodotti d’abbigliamento sportivo o di lusso».
Pensate che il 39 per cento dell’esportazione australiana è destinata al nostro paese. I dati sono impressionanti.
Tra il 2012 e il 2016 oltre 2 milioni di pelli grezze hanno attraversato l’oceano per entrare in Italia dirette alle concerie presenti sul nostro territorio. E per questo commercio dal 2000 al 2018 sono stati uccisi oltre 44 milioni di canguri, con una media annua di 2.324.711 animali.
Com’è possibile – penserà qualcuno leggendo queste righe – che non abbiamo mai saputo che una parte dell’industria della moda usa abitualmente la pelle di questi animali?
E non si tratta di poche, sparute piccole aziende, bensì di nicchie di mercato decisamente importanti come l’abbigliamento sportivo che sceglie queste pelli, per esempio, per realizzare scarpe da calcio e tute da motociclista. Ma la pelle di canguro viene usata anche per la produzione di scarpe e accessori che potremmo definire di lusso.
E allora perché non se ne è mai parlato? Forse perché fino agli incendi dell’autunno 2019 la vita e la salute dei canguri non avevano mai fatto notizia, così come tutte le informazioni satelliti che li riguardavano.
Eccolo quindi il bicchiere mezzo pieno, se così vogliamo chiamarlo: gli incendi hanno consentito di accendere un riflettore potente sull’esistenza di centinaia di animali della cui sorte fino a quel momento il mondo dell’informazione si curava poco o niente.
E così, a mano a mano che si alzavano le fiamme, e noi sentivamo tutti i giorni nei telegiornali i versi di dolore di queste creature, anche il lavoro silenzioso di chi cerca quotidianamente di proteggerle, denunciando le storture di un mondo che ancora concepisce gli animali non come compagni o «coinquilini» dell’uomo ma come «a servizio dell’uomo», guadagnava una finestra di attenzione inaspettata.
L’appello rivolto alle aziende che utilizzano la pelle di canguro è stato ripreso da diverse testate e qualche brand ha finalmente deciso, proclamandolo pubblicamente, di dire addio a questo «materiale» per la fabbricazione dei propri prodotti.
Ovviamente non tutte le aziende hanno aderito e la strada è ancora lunga ma qualcosa si è mosso ed è forse da qui che bisogna partire per far sì che altre imprese si sentano chiamate in causa e decidano di optare per materiali più sostenibili.
E noi, come singoli consumatori, cosa possiamo fare?
Non sempre ci pensiamo ma ognuno di noi ha un potere immenso tra le mani, e lo esercita ogni volta che decide di comprare un oggetto, compresi i capi di abbigliamento.
E questo vale anche per i tantissimi giovani e adolescenti che, forse perché meno informati di noi adulti, finiscono spesso per farsi condizionare dai dettami della moda.
Chi come me ha in casa degli adolescenti lo sa bene: i nostri figli sono molto più attenti di quanto lo fosse la mia generazione alla loro età alla marca di scarpe e vestiti che indossano. E a spingerli verso questo o quel brand sono spesso i cosiddetti influencer che grazie a un post sui social riescono a muovere orde di giovani e giovanissimi decisi ad assillare i genitori per giorni pur di ottenere l’agognato capo di abbigliamento. Ma la storia non finisce qui. Spesso questi oggetti del desiderio hanno anche un costo tutt’altro che trascurabile. Un elemento che agli occhi dei giovani (ma non solo ai loro) sembra essere la prima garanzia del fatto che si è di fronte a una gonna o a un maglione dalla qualità eccezionale. Purtroppo, non è quasi mai così. Dietro al prezzo di prodotti iper-pubblicizzati e sponsorizzati, più che un valore reale, c’è spesso una grande percentuale di marketing. Non solo. Molte volte si tratta anche di capi di abbigliamento che di sostenibile hanno ben poco, perché confezionati con materie prime coltivate o realizzate con processi che non rispettano l’ambiente ma anzi lo danneggiano.
Ha senso, mi chiedo quindi, farci influenzare dagli altri, mancando così anche di rispetto alla natura fragile e meravigliosa di cui facciamo parte?
Anche perché a ben vedere, se si lascia da parte la mania per i loghi e le marche, ci si accorge che il mercato della moda ci offre ormai una scelta così ampia e diversificata – anche grazie all’avvento degli store online – che per chiunque è più semplice fare scelte più attente ed etiche rispetto a qualche anno fa.
Ma come essere sicuri di comprare abiti prodotti rispettando l’ambiente?
Che un maglione o una gonna siano «buoni» non è scritto sull’etichetta (anche se leggere con attenzione i materiali di cui è fatto un capo è un ottimo punto di partenza), ma sempre più brand che fanno scelte etiche stanno cercando di raccontarle, di pubblicizzarle, spinti anche dalla pressione di associazioni e movimenti che da anni invocano a gran voce una trasformazione in chiave green del settore della moda.
Uno di questi è il movimento Fashion Revolution che dal 2013 si batte per filiere più trasparenti e sostenibili, raccontando ogni anno ai consumatori di tutto il mondo attraverso la classifica Fashion transparency index come si comportano le aziende.
Iniziative di questo genere si stanno fortunatamente moltiplicando. In Italia la LAV ha ideato Animal Free Fashion, un progetto che propone un rating per le aziende che vogliono comunicare il proprio impegno a non sfruttare gli animali.
Rispettare gli animali sembra quindi essere diventato (quasi) di tendenza, come fa timidamente sperare il fatto che anche nell’alta moda sono fortunatamente sempre di più gli stilisti e le stiliste che hanno detto addio all’uso di pellicce. Un forte segnale è arrivato anche dalla London Fashion Week, la settimana della moda londinese, che le ha bandite dalle sue passerelle già dal 2018.
Una maggior responsabilità sociale e ambientale nella filiera della moda non è più rimandabile e i brand più intelligenti l’hanno già capito.
Il resto spetta a noi consumatori che prima di fare un nuovo acquisto dovremmo fermarci, leggere con attenzione l’etichetta e tentare di capire (basta spesso una veloce ricerca su Internet) se quel brand realizza capi buoni oltre che belli.