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Le amazzoni del Nord Europa

Che il modo in cui produciamo energia vada cambiato al più presto, se vogliamo sperare che la nostra specie e il pianeta abbiano un futuro, l’hanno capito i paesi del Nord Europa. A differenza degli Stati Uniti (e non solo) dove i combustibili fossili forniscono ancora, come abbiamo visto, una grande fetta del fabbisogno energetico, l’area nota come penisola scandinava figura in testa alle classifiche sull’uso delle energie rinnovabili. Pensate che qui, in alcune località, l’ambìto obiettivo del «100 per cento rinnovabili» (un’espressione che indica un paese, una città o una comunità che usano solo energia green) è già una realtà.

È il caso, per esempio, di Samsø, in Danimarca, dove nel 2019 ho realizzato un reportage proprio per raccontare la storia di quest’isola a ovest di Copenaghen che, per rallentare il cambiamento climatico, ha deciso di liberarsi dalla dipendenza dei combustibili fossili.

Da territorio che non produceva energia, in pochi anni Samsø è riuscita a rendersi autosufficiente, facendo tesoro di ciò che la natura le ha donato come il sole che la accarezza e il vento che soffia potente, sferzando le sue coste.

La sua rivoluzione è iniziata nel 1997 e in circa dieci anni, con lo sforzo e l’impegno di tutti i suoi abitanti che hanno investito i propri risparmi in pale eoliche, pannelli solari e centrali a biomasse, Samsø ha raggiunto la totale indipendenza energetica, riuscendo persino a produrre più energia di quanta ne consuma.

L’isola danese rappresenta sicuramente un unicum a livello mondiale, ma rivoluzioni come la sua si stanno realizzando anche in altri territori e città della penisola scandinava.

È il caso di Oslo, la capitale norvegese, di cui parleremo più avanti e che per questa spinta al cambiamento è stata eletta «Capitale green 2019».

La forte coscienza ambientalista che vi si respira è sicuramente uno dei motivi che mi spinge a visitare sempre con grande piacere questi luoghi. Qui vedo infatti realizzato ciò che altrove è ancora un proposito confuso. Venire qui significa toccare con mano il fatto che si può vivere e produrre energia in modo diverso: basterebbe solo che governi e cittadini lo volessero tanto quanto l’hanno voluto quelli di paesi come la Svezia, la Norvegia, la Finlandia, la Danimarca e l’Islanda.

Mi sono chiesta molte volte da cosa nasca questa spinta verso la sostenibilità, che altrove fatica ad attecchire, e penso che la risposta vada cercata in un mix complesso di fattori che uniscono l’indole di questi popoli, il profondo legame con la loro terra, una classe politica sensibile a questi temi e forse anche il contatto costante con una natura totalizzante che prevale sugli spazi dell’uomo e che trasmette a chi la attraversa l’idea che da lei non si può prescindere.

Non si tratta solo di fascino o di forza che annichilisce. I paesaggi del Nord hanno un potere speciale che si lega forse anche alle tante leggende che ancora riecheggiano in questi luoghi e soprattutto alle grandi saghe nordiche che qui hanno avuto origine e che si sono ispirate, per esempio, alle gesta dei vichinghi, i pirati guerrieri che un tempo dominavano queste coste.

La loro casa erano proprio queste terre selvagge dove le nuvole corrono veloci, il verde degli alberi si riflette nel blu di laghi che gelano d’inverno e l’oceano si insinua nella terra attraverso uno degli spettacoli naturali più incredibili del mondo: i fiordi.

L’ultimo che ho visitato è stato quello di Geiranger, che si trova in Norvegia ed è circondato da vette innevate. L’insieme è talmente spettacolare che ogni anno arrivano qui per visitarlo tra le 800mila e il milione di persone.

Il modo migliore per farlo è via acqua. Da questa prospettiva si percepisce ancora di più la bellezza del contesto, che gli è valsa l’iscrizione tra i patrimoni dell’Unesco, e si può ammirare la maestosità di queste scogliere che si alzano per oltre 1400 metri e scendono sotto il livello del mare per altri 500. Nulla a che vedere con le nostre coste. Quelle che ospitano i fiordi sono infatti le antiche valli scavate dal ghiaccio migliaia di anni fa, durante il periodo delle glaciazioni, quando spesse coltri di nevi perenni rimodellarono la superficie della Terra. Successivamente, circa 10mila anni fa, con l’aumento della temperatura del pianeta, i ghiacci iniziarono a sciogliersi nel mare, innalzandone il livello anche di 20 metri. Così, le valli che i grandi ghiacciai avevano scavato e che arrivavano fino alla costa vennero invase dal mare e nacquero gli spettacoli naturali che sono oggi i fiordi.

Il loro valore inestimabile non dipende però solo dalla bellezza. Sembra infatti che abbiano un ruolo anche nella lotta ai cambiamenti climatici. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista scientifica «Nature Geoscience», i fiordi, pur rappresentando una piccolissima percentuale della superficie della Terra, sono tra i luoghi dove viene assorbito più carbonio dall’atmosfera. Il motivo è da ricercare nella loro ricca e rigogliosa vegetazione che si espande per chilometri e ricopre completamente le ripide pareti rocciose a picco sul mare. Sembra infatti che sia capace di immagazzinare un’elevatissima quantità di CO2, pari a circa 18 milioni di tonnellate ogni anno.

Capite quindi perché l’attenzione per la loro conservazione è grandissima, come lo è quella per tutte le aree verdi che vengono considerate patrimonio della collettività.

Una consapevolezza che ha radici profonde nella storia del Nord Europa come dimostra l’esistenza in molti paesi di quest’area geografica (ma anche in alcuni dell’Est Europa e nel Regno Unito) di una legge non scritta, una sorta di consuetudine tramandata, chiamata in inglese Everyman’s Right (il diritto di tutti).

In pratica a chiunque è concesso di vagare attraverso alcune aree naturali sia per svago sia per svolgere attività fisica.

In Finlandia, dove questo diritto viene applicato nella maniera più ampia si può persino sciare o andare in bicicletta nelle foreste o nelle varie aree verdi. Gli unici luoghi vietati sono le case e i cortili privati e i campi coltivati. Si può inoltre campeggiare nei boschi, pescare o raccogliere frutti selvatici. L’unica condizione è rispettare la fragile natura artica, evitando di lasciare tracce del proprio passaggio, di causare danni o di disturbare gli animali selvatici durante la stagione riproduttiva.

La consapevolezza che la natura è un bene comune alla cui conservazione tutti partecipano attivamente è radicata anche in Danimarca, come ho visto per esempio nell’area naturalistica di Møns Klint che prende il nome dalle bianche scogliere che sorgono affacciate sul mare.

Il momento migliore per ammirarle è all’alba o al tramonto, quando il sole e il riflesso del mare le fanno risplendere di una luce incredibile. Ma vale la pena anche avventurarsi nell’area boschiva che ricopre la scogliera e che si estende alle sue spalle. Non si tratta infatti di un bosco qualunque, ma di una faggeta tra le più antiche della Danimarca, visto che gli alberi che la popolano hanno più di 400 anni. Ma cosa ancora più particolare, si tratta di una foresta che viene definita «incontaminata» perché alberi, piante e fiori sono lasciati liberi di rigenerarsi. Nessuno interrompe il loro ciclo vitale. E così possono crescere, invecchiare, morire e decadere senza che nessuno li sposti da qui. Gli alberi morti rimangono sul suolo della foresta a beneficio della biodiversità e diventano casa e nutrimento per insetti, muschio e funghi.

Questi importanti concetti vengono spiegati a chiunque visiti la zona e non è raro vedere volontari che fanno del loro meglio per proteggere e tenere in ordine tutta l’area naturalistica, raccogliendo i rifiuti abbandonati o mappando le specie animali e vegetali presenti sul luogo.

Si potrebbe dire che la salvaguardia dell’ambiente è entrata nel DNA di chi abita in questi paesi e ha plasmato persino il loro modo di organizzare i luoghi in cui si svolge la vita della maggior parte delle persone che abitano il pianeta: le città (secondo l’ONU oggi vive qui il 55 per cento dell’umanità, ma nel 2050 si arriverà a due terzi).

È questo il caso della capitale della Norvegia, Oslo. Qui è possibile toccare con mano un altro modo di vivere l’ambiente urbano. Un modo che non mette in opposizione città e natura ma che prova invece a integrarle.

Case, uffici e strade non sono aumentati a discapito delle aree verdi, come è avvenuto invece nella maggior parte delle capitali europee, ma insieme a loro. Ecco perché chi esce dall’ufficio in pieno centro, fatte poche decine di metri, si trova a passeggiare lungo il corso del fiume Akerselva che a un tratto dà vita a una spettacolare cascata. Mi rendo conto che per noi può sembrare fantascienza una cascata in centro città, ma è anche per questo che Oslo si è guadagnata, come abbiamo detto, il titolo di «Capitale green 2019». Un primato dovuto anche alla scelta di proteggere i tesori della sua natura con norme che puntano a diminuire le emissioni di CO2. Qualche esempio? Il centro della città è stato quasi completamente chiuso alle automobili e, sempre per disincentivarne l’uso, sono stati eliminati molti parcheggi. Il risultato è che oggi il mezzo più usato è la bicicletta, che viene scelta anche quando fa freddo, a patto di sostituire i copertoni normali con un tipo chiodato così da non scivolare sulle strade ghiacciate.

Insomma, sembra proprio che qui si sia compreso come uomini e natura non siano i fattori di due equazioni diverse, ma parti della stessa delicata formula, applicando la quale è possibile migliorare la vita di tutti. E infatti qui la qualità della vita sembra essere davvero più alta, perlomeno stando alle numerose classifiche che vedono ormai da anni i paesi scandinavi ai primi posti.

È il caso, per esempio, del World Happiness Report, il Rapporto mondiale sulla felicità, che analizza, appunto, il livello di felicità di 156 paesi, prendendo in considerazione parametri come il reddito, l’aspettativa di vita, il livello di corruzione, il welfare state. Pensate che dal 2013 a oggi Finlandia, Danimarca, Norvegia, Svezia e Islanda si sono sempre trovate tra le prime dieci posizioni (mentre l’Italia nell’edizione 2020 si è posizionata solo al trentesimo posto).

Ma quello in cui forse la penisola scandinava eccelle davvero è la parità di genere. Oltre al già citato Global Gender Gap Index, secondo il Women, Peace and Security Index 2019 – che misura l’uguaglianza delle donne in 167 paesi valutando parametri come il tasso di occupazione, la sicurezza, il livello di discriminazione e l’accesso alla tecnologia – i migliori paesi in cui essere donna sono proprio quelli nordeuropei, con la Norvegia in prima posizione, seguita da Svizzera, Finlandia e Danimarca.

Causa e allo stesso tempo conseguenza di questi ottimi piazzamenti è anche il fatto che in queste nazioni le donne sono ampiamente rappresentate anche sulla scena politica. Pensate che in quasi tutti ci sono prime ministre donne e spesso si deve anche a loro la svolta ecologica degli ultimi anni, che ha portato città e isole a tentare di abbandonare i combustibili fossili e che ha spinto queste nazioni a puntare ancora di più sulla cura e sulla valorizzazione della propria natura.

Proprio come le amazzoni nella mitologia greca erano un popolo guerriero indomabile, composto solo da donne per niente intimidite dal fatto che negli altri regni il potere fosse detenuto esclusivamente dagli uomini, mi piace pensare che in questi paesi sia nata una generazione di donne amazzoni dell’ambiente (e non solo) che hanno saputo e potuto affermarsi sulla scena pubblica.

La prima che mi viene in mente è la premier norvegese Erna Solberg. In carica dal 2013, nel 2017 fece un annuncio che avrebbe cambiato il volto del paese: «Non possiamo pensare di vivere di rendita grazie al petrolio», dichiarò producendo una forte impressione e anche qualche preoccupazione. La Norvegia aveva costruito, infatti, gran parte del suo benessere proprio grazie allo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi nel Mare del Nord. Un business che però, come sappiamo, cozza con la lotta al cambiamento climatico che il paese aveva deciso di intraprendere. Così a partire da quell’anno il fondo sovrano norvegese ha iniziato a disinvestire nel settore petrolifero, approvando parallelamente una serie di strategie per il futuro del paese che avrebbero dovuto mettere al primo posto l’innovazione e l’ambiente, con lo scopo di arrivare entro il 2030 all’obiettivo delle emissioni zero.

Una battaglia su cui ha puntato fin dalla campagna elettorale anche l’attuale premier finlandese Sanna Marin, che ha anche il primato di essere la più giovane presidente del consiglio del mondo visto che è stata eletta quando aveva 34 anni, nel dicembre 2019. Marin è alla guida di una coalizione di quattro partiti tutti guidati da donne, che hanno messo in testa al dibattito pubblico proprio i cambiamenti climatici. Durante il World Economic Forum di Davos di gennaio 2020, la premier li ha definiti «il rischio più grande che l’umanità deve affrontare», sottolineando anche come contrastarli sia «una grande opportunità per la nostra tecnologia, la creazione di nuovi posti di lavoro e di nuovo benessere».

Ha una guida femminile anche la Danimarca che tra l’altro è il secondo paese al mondo ad aver avuto una premier donna: Nina Bang nel 1924. Risale invece a giugno 2019 l’elezione di Mette Frederiksen, classe 1977, la più giovane presidente nella storia del paese. Anche lei, proprio come la collega finlandese, ha iniziato il suo mandato mettendo la questione ambientale al centro del programma politico dei prossimi anni, dichiarando di puntare a «ridurre le emissioni di gas serra del 70 per cento» e di voler aumentare le foreste del paese.

In Svezia invece il governo è guidato da un uomo ma non posso non pensare che questo è il paese di origine di Greta Thunberg, la giovane attivista che dal 2018 manifesta per sensibilizzare i governi di tutto il mondo a rispettare l’accordo di Parigi sul cambiamento climatico, e quindi a ridurre il prima possibile le proprie emissioni di anidride carbonica. Dal suo esempio sono nati movimenti di giovani in ogni parte del mondo e le sue parole, spesso dure e impietose, hanno fatto aprire gli occhi a tante persone che prima consideravano l’emergenza climatica come un pericolo remoto o come un tema di nicchia, «da ambientalisti».

Da tutte queste donne ci viene una lezione importante: si può e si deve mettere il clima sia al centro della politica, sia al centro della nostra vita. L’esempio dei paesi scandinavi ci insegna infatti che ci sono tante azioni concrete da intraprendere come, per esempio, usare meno l’auto e puntare di più sulla bicicletta.

Certo, le città del Nord hanno dimensioni piuttosto contenute, un numero di abitanti ridotto e un traffico meno intenso rispetto a tante altre più a sud; per chi come me vive a Roma, invece, muoversi in bici può non essere sempre così facile. Ma prima di desistere e ripiegare sull’automobile, dovremmo sempre chiederci quanto le nostre ragioni siano valide o quanto invece non incidano l’abitudine o la pigrizia.

Un’altra lezione che ci viene dal Nord Europa e di cui dovremmo fare tesoro riguarda l’economia circolare, che qui è una pratica più consolidata. Mi riferisco a quel modello di produzione e consumo in cui gli oggetti non vengono usati e poi gettati via ma, al contrario, riutilizzati, riparati e condivisi, nel tentativo di ridurre i rifiuti al minimo.

Proprio quello che sta facendo Bornholm, l’isola più orientale della Danimarca. Come mi ha spiegato Jens Hjul-Nielsen – CEO di BOFA, l’azienda locale che gestisce i rifiuti – l’isola vuole raggiungere questo obiettivo «entro il 2032 con il completo riciclo e riutilizzo di tutti i rifiuti prodotti sull’isola, eliminando del tutto inceneritori e discariche».

Non si tratta di utopia, ma di tante piccole buone pratiche che sommate assieme consentono di raggiungere questi ambiziosi traguardi e anche noi possiamo provarci nella nostra quotidianità.

Chiedersi, per esempio, prima di acquistare qualcosa di nuovo o mettere nell’immondizia un oggetto che non ci serve più, se quella cosa potrebbe servire a qualcun altro e avere così una seconda vita, è sicuramente un primo passo.

Io credo davvero alla strada della condivisione e dello scambio e, nel mio piccolo, ci provo.

Se scopro di avere in casa oggetti o abiti che non uso mai e che sono in buone condizioni, li offro ad amici e parenti a cui potrebbero fare comodo, e loro fanno lo stesso con me. Così facendo ho attivato un circolo virtuoso fatto di scambi invece che di nuovi acquisti. Sembra poco ma invece è tantissimo perché un sistema economico che accumula rifiuti fa male a tutti.