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La mia Africa

Qualche anno fa ho letto sul «Corriere della sera» una notizia che mi ha particolarmente colpita. L’articolo parlava di uno studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica «Nature», secondo il quale La prima casa dell’uomo – così titolava – fu il Botswana. Dalle ricerche condotte da un team di studiosi dell’Università di Sydney era emerso, infatti, che il primo luogo del mondo dove visse e si insediò l’Homo sapiens – il nostro antenato – che avrebbe in seguito colonizzato il resto del mondo fu proprio questa regione dell’Africa meridionale e in particolare quello che oggi viene chiamato Parco nazionale del Makgadikgadi Pans. Si tratta di un’area che ospita una delle più vaste saline del mondo, ma che in passato sembra fosse quasi un Eden naturale con boschi, pianure verdeggianti, laghi e corsi d’acqua. Insomma, un luogo così bello e perfetto che i primi uomini e le prime donne decisero di mettere radici proprio qui e di costruirvi la loro casa.

Se ne sono rimasta così colpita è perché trovo quasi poetico che la prima casa della nostra specie, il luogo da cui tutto è partito, sia anche uno dei posti al mondo nei quali mi sono sentita più in connessione con tutto il creato. E a questo punto posso dire che non è un caso, visto che siamo davvero tutti figli di questa terra incredibile che è il Botswana.

Una terra famosa nel mondo, tra gli altri motivi, anche perché ospita uno degli scenari naturali più spettacolari del pianeta: il delta del fiume Okavango.

Non dovete immaginare il delta di un fiume come siamo abituati a vederli nel nostro paese, o più in generale in Europa, con il corso d’acqua che a un certo punto conclude la sua corsa e si allarga per riversarsi nel mare. Quello dell’Okavango è, infatti, un unicum dal punto di vista geografico e questa particolarità gli è valsa persino l’inserimento, nel 2014, nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco. A caratterizzare questo fiume che nasce negli altipiani dell’Angola, attraversa la Namibia e giunge infine in Botswana dopo aver percorso chilometri e chilometri, è il fatto che le sue acque, quasi come avessero smarrito la strada per arrivare all’oceano, si insabbiano in pieno deserto. Ad accogliere il termine della loro corsa è infatti un altro spettacolo naturale: il deserto del Kalahari, una distesa di sabbia rossa che si estende per migliaia di chilometri, alternandosi a steppe dove la presenza degli esseri umani è davvero un miraggio. Qui dominano il silenzio e quella desolazione ipnotica tipica dei grandi deserti. Pensate che per secoli, gli unici esseri umani che hanno osato sfidare la sua inospitalità sono state popolazioni nomadi, come i San, che riuscivano a sopravvivere proprio seguendo l’acqua che arriva ogni stagione dall’Okavango. Un’acqua capace di portare la vita anche dove non sembra esserci spazio se non per piccoli arbusti.

Qui infatti il fiume, giunto alla fine della sua corsa, forma una vasta zona paludosa e umida che, durante i periodi di piena, raggiunge un’estensione che arriva fino a 15mila chilometri quadrati. Il risultato è una specie di grandissima oasi, all’interno della quale si raduna un’incredibile varietà di animali tra cui ippopotami, giraffe, zebre, leoni, elefanti, gazzelle, antilopi e un grande numero di uccelli e di anfibi.

Una delle esperienze più incredibili che si possano fare è ammirare questo miracolo della natura dall’alto, a bordo di un piccolo aereo. Sorvolare il delta dell’Okavango è un’avventura che consiglio a tutti perché se è magnifico osservare gli animali in mezzo alla savana dalla loro prospettiva, lo è ancora di più ammirarli dall’alto. Da qui, infatti, ogni dettaglio acquisisce una dimensione grandiosa: le mandrie di bufali che corrono libere e scatenate, i branchi di leoni che fanno la siesta distesi vicino a una pozza d’acqua, i grandi elefanti che procedono in fila indiana in mezzo alla vegetazione bassa.

È il brivido di ammirarli senza doversi nascondere quello che si prova osservandoli dall’alto. Una sensazione a cui si aggiunge la consapevolezza di quanto è grande lo spazio di cui questi animali hanno bisogno per vivere una vita che sia degna di questo nome, lontano dai recinti e dalle gabbie in cui troppe volte abbiamo la crudeltà di rinchiuderli.

Un destino, quest’ultimo, che non risparmia nemmeno i cosiddetti big five, i cinque grandi, e cioè l’elefante, il leone, il leopardo, il rinoceronte e il bufalo. Questa espressione è stata inventata dai primi cacciatori che andavano in Sudafrica e si riferiva alle cinque prede più difficili da catturare. Oggi invece è passato a indicare i cinque animali più ambiti da fotografare o anche solo da osservare per chiunque faccia un safari (termine che, tra l’altro, nell’accezione originaria, non significa «spedizione di caccia» ma «viaggio»).

Sono i big five i veri padroni del delta dell’Okavango e più in generale del Botswana, visto che questi animali vivono nelle numerose aree naturalistiche tutelate del paese. Circa il 17 per cento del territorio dello stato è occupato da parchi o da riserve naturali, e un altro 20 per cento si inserisce in quelle che vengono definite wildlife management areas: aree protette destinate alla conservazione della fauna selvatica. Tra le riserve principali ci sono la Moremi Game Reserve, il Chobe National Park e il Makgadikgadi National Park, quasi tutte localizzate intorno al delta dell’Okavango perché, come dicevamo, è la presenza d’acqua che muove gli spostamenti dei branchi di animali, compreso forse quello che più di ogni altro rappresenta tanto il simbolo quanto la spina nel fianco del paese: l’elefante.

In Botswana vive la popolazione di elefanti più numerosa del pianeta (circa 130mila esemplari) e, cosa forse ancora più importante, il loro numero è stato finora più o meno stabile, al contrario di ciò che accade in altre parti dell’Africa, come ha dimostrato uno studio senza precedenti. Si tratta del progetto Great Elephant Census: l’analisi più completa e precisa realizzata finora sulla popolazione di pachidermi di tutta l’Africa. Per raccogliere i dati, sono stati coinvolti oltre novanta scienziati e sei ONG, che hanno sorvolato a bassa quota tutta l’Africa subsahariana, percorrendo una distanza di oltre 460mila chilometri.

Dall’indagine, iniziata nel 2014, sono emersi dati allarmanti: sarebbero infatti solo 352.271 gli elefanti che popolano la savana africana (che è il luogo in cui è localizzato il 93 per cento degli elefanti dell’intero pianeta), con una scomparsa di circa 144mila esemplari – pari al 30 per cento – tra il 2007 e il 2014. Gli scienziati hanno scoperto inoltre che ogni anno in tutta l’Africa spariscono circa 27mila elefanti (l’8 per cento ogni anno) e le cause principali di questa tragedia sono la perdita del loro habitat e, soprattutto, il bracconaggio.

Questo animale, tanto maestoso quanto mansueto, è stato infatti per oltre un secolo al centro delle mire di commercianti senza scrupoli che puntavano a ucciderlo per impossessarsi delle sue preziose zanne d’avorio. Fortunatamente dal 1989 la Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione – più nota come CITES – ha vietato il commercio internazionale di questo materiale. Nei fatti però le norme non sono riuscite a bloccare del tutto il bracconaggio, con il risultato che l’elefante continua a essere a rischio di estinzione, come ha denunciato recentemente anche l’ONU, citando anche il ruolo della caccia.

Se infatti uccidere gli elefanti per impossessarsi delle loro zanne è illegale, non lo è sopprimerli per divertimento, o come direbbero i sostenitori di questa pratica, per sport.

La caccia è autorizzata in vari paesi africani e proprio in tempi recenti sono state vendute all’asta, dopo anni di stop, le prime licenze nel Botswana, uno degli ultimi paradisi sicuri per gli elefanti. Dopo anni di divieto, nel 2019 il governo del paese ha infatti deciso di autorizzarla nuovamente sostenendo che questi animali sono ormai troppi e tendono a invadere gli spazi destinati all’agricoltura. Così, a inizio 2020 si è tenuta la prima asta durante la quale, come ha riportato «Il Sole 24 Ore», sarebbero state vendute sei licenze per cacciare un totale di sessanta elefanti. Non sappiamo chi abbia deciso di spendere cifre esorbitanti per comprarsi il diritto di uccidere un animale, ma si tratta sicuramente di persone molto ricche, visto che il costo di una battuta di caccia è pari a diverse migliaia di dollari, a cui vanno aggiunte le spese di viaggio, il vitto e l’alloggio per due o tre settimane in media.

Qualcuno di questi cacciatori sarà magari americano, dato che sono in tanti ad amare questo sport negli Usa. A cominciare, per esempio, dal figlio dell’uomo più importante d’America: Donald Trump. Classe 1977, Donald Trump Junior è un vero appassionato di caccia. Basta fare una veloce ricerca su Internet per trovare varie foto del rampollo, in tenuta mimetica, mentre regge animali o parti di essi come trofei.

Tra le sue ultime «imprese» c’è stata l’uccisione di un raro esemplare di argali: una pecora in via di estinzione simbolo della Mongolia. Secondo quanto ha riferito il sito di informazione ProPublica, la battuta di caccia si sarebbe svolta ad agosto 2019 e Donald Trump Junior avrebbe ricevuto un permesso ad hoc dal governo mongolo, visto che normalmente questo animale non si potrebbe cacciare perché considerato sacro e intoccabile.

Il figlio del presidente ama anche andare a caccia di orsi in Alaska e non disdegna nemmeno i safari (non certo fotografici) in Africa, come hanno rivelato alcune foto scattate durante una battuta di caccia nello Zimbabwe che il giovane ha pubblicato sui social nel 2012 scatenando, come ha scritto il quotidiano «La Repubblica», «un’ondata di polemiche e indignazione». Una delle foto ritraeva il giovane mentre brandiva il fucile, seduto di fianco al cadavere di un bufalo che dalla posizione sembrava quasi addormentato, indifeso. Ma l’immagine che più di tutte mi è rimasta impressa ritraeva Donald Trump Junior con un coltello in una mano e la coda di un elefante nell’altra.

Tre anni dopo, nel 2015, ha fatto il giro del mondo un’altra foto: ritraeva un dentista del Minnesota appassionato di caccia, con Cecil, un grosso leone di tredici anni, così famoso da essere diventato un simbolo dello Zimbabwe. Il leone, divenuto noto per la sua folta criniera nera, era morto dopo ore di agonia in un modo terribile: prima trafitto da una freccia e poi finito con un colpo di fucile.

La storia ha scatenato proteste e persino minacce contro il cacciatore che però alla fine se l’è cavata senza alcuna conseguenza visto che era in possesso di un regolare permesso di caccia.

Non solo. Appena due anni dopo i giornali di tutto il mondo hanno riportato la notizia che anche uno dei figli di Cecil, il leone Xanda, era stato ucciso poco fuori da uno dei parchi del paese da un cacciatore che aveva pagato circa 45mila euro per togliergli la vita. Ogni volta che ci penso mi si spezza il cuore, anche perché lo Zimbabwe, dove la caccia è ancora legale, e il bracconaggio come altrove una triste realtà, avrebbe ben altro da offrire. Rimasto a lungo ai margini delle rotte internazionali del turismo di massa a causa di una lunga instabilità economica, il paese è diventato, soprattutto negli ultimi anni, una meta sempre più ambita.

Questo piccolo stato racchiuso tra il Botswana, il Sudafrica, il Mozambico e lo Zambia ospita infatti aree naturalistiche di incredibile valore. Tra le più note ci sono le Cascate Vittoria, una delle meraviglie del mondo, che lo Zimbabwe condivide con lo Zambia.

Ma il tesoro più grande dello Zimbabwe sono i suoi parchi naturali e soprattutto gli animali che li abitano.

Nel Matobo Hills National Park, oltre alla fauna, si possono ammirare enormi colline di granito a cui secoli di erosione hanno donato forme davvero particolari. Il famoso Parco nazionale di Hwange si estende per quasi 15mila chilometri quadrati al confine con il Botswana. L’area delle Mana Pools prende il nome dalle grandi pozze naturali che il fiume Mana forma prima di gettarsi nello Zambesi e che attirano branchi di animali desiderosi di dissetarsi. E c’è anche il meno conosciuto Parco nazionale Gonarezhou che si trova al confine con il Mozambico e che come dice il nome stesso – che in lingua shona si riferisce agli elefanti – offre la possibilità di incontri ravvicinati con quelli che potremmo definire i padroni di casa di queste terre, insieme ai rinoceronti. Lo Zimbabwe è, infatti, uno dei pochi paesi che ancora ospita una popolazione piuttosto numerosa sia di rinoceronti bianchi, sia di rinoceronti neri, entrambi a rischio di estinzione. Per chi come me conosce bene la storia dolorosa di questo animale, passato, come sostiene il WWF, «da trenta specie ad appena cinque», si tratta quasi di un miracolo.

Come abbiamo osservato anche qualche pagina fa, la realtà dell’Africa e dei vari stati che la compongono è estremamente varia e sfaccettata. E guardarla dall’esterno fa perdere prospettiva, punti di vista, particolari importanti. Per questo motivo, nel corso delle mie ricerche, ho pensato di fare una chiacchierata con Gianni Bauce, un vero esperto di Zimbabwe. Gianni vive tra Harare – la capitale dello Zimbabwe – e Ivrea e frequenta l’Africa australe dai primi anni Novanta. Per lavoro fa la guida professionista di safari e ha maturato una grande conoscenza della storia e dei problemi della conservazione in questo angolo del pianeta che a dispetto delle notizie – per lo più negative – che leggiamo sui giornali, ha in realtà anche risvolti positivi, come appunto nel caso dei rinoceronti. Gianni Bauce mi racconta infatti che se questi animali non sono spariti è perché «negli anni Novanta lo Zimbabwe ha deciso di scommettere sulla loro protezione istituendo le cosiddette “intensive protection zone” e trasferendovi tutti i rinoceronti rimasti. Si tratta di aree interne al paese, occupate un tempo da fattorie, che essendo più protette e controllate rispetto ai parchi – collocati spesso in aree di confine – consentono di proteggere più facilmente gli animali dai bracconieri».

Iniziative come questa hanno garantito al paese un buon livello di conservazione della propria fauna. «Non molti lo sanno ma lo Zimbabwe è tra i paesi migliori sul fronte della conservazione» mi rivela Gianni. «Abbiamo la seconda popolazione più numerosa al mondo di elefanti e di licaoni. E siamo uno dei sette paesi in Africa con più leoni, visto che secondo l’ultimo censimento ce ne sono circa 2300.»

Questo non significa che in Zimbabwe vada tutto bene. Anzi. A mettere a rischio natura e animali non sono infatti solo i bracconieri. «Dal punto di vista economico qui la situazione è molto complicata. Le persone si arrabattano per arrivare a fine giornata e la disoccupazione è altissima anche se il paese è ricchissimo di risorse minerarie preziose; come spesso accade, sono nelle mani di pochi.» Così, continua Gianni Bauce, non è infrequente che «le comunità locali invadano ampie porzioni di territorio abbandonate dai cacciatori professionisti la cui attività è quasi in declino, e le sfruttino per sopravvivere, tagliando gli alberi, cacciando gli erbivori e scacciando i predatori».

Come abbiamo già scoperto parlando dell’Asia e del problema della deforestazione, la conservazione dell’ambiente per avere successo deve coinvolgere la popolazione locale, altrimenti è destinata al fallimento. Gianni ne è convinto, e mi racconta di come lo Zimbabwe stia tentando di percorrere proprio questa strada. «Qualche anno fa è nato un progetto antibracconaggio davvero particolare che si chiama “Akashinga” che in lingua shona significa “coraggiosa”, proprio come le donne che ne fanno parte.» Si tratta infatti di un’unità antibracconaggio composta solo da donne svantaggiate, che senza questa opportunità vivrebbero da emarginate. «Queste ragazze vengono invece educate alla salvaguardia degli animali e vengono insegnate loro sia tecniche di pronto soccorso sia le nozioni fondamentali della lotta al bracconaggio» precisa Gianni Bauce. «Qui si sta puntando anche molto sul turismo perché è un modo per portare dentro il paese valuta pregiata, creare posti di lavoro e trasmettere una buona immagine di un luogo che per anni è stato erroneamente considerato pericoloso.»

Paesi come lo Zimbabwe e il Botswana stanno cercando, quindi, non senza contraddizioni e problemi, di fare la loro parte per conservare con più consapevolezza e trattare con più cura i tesori naturali che possiedono. Il resto spetta però a noi che andiamo a visitarli. Quando si viaggia, infatti, non è importante solo il «dove» ma anche il «come». I comportamenti che assumiamo quando visitiamo i diversi luoghi del mondo, e in particolare le riserve naturali dove vivono animali a rischio di estinzione, sono fondamentali tanto quanto le azioni dei governi. Perché se è vero che un corretto rapporto con la natura dovrebbe essere garantito dal rispetto delle leggi, una piccola, o a volte grande, parte di responsabilità rispetto a tante storture che ancora permangono è anche nostra. Come vedremo presto.