Nelle terre dell’uomo dei boschi
Avete mai giocato con la forma delle nuvole? È un gioco tipico dei bambini. Si sta sdraiati per terra – meglio se su un morbido prato – con il naso all’insù e si cerca di associare la forma delle nuvole mutevoli e capricciose a quella di un animale, di un oggetto o, perché no, di una persona. È una sfida fatta di libere associazioni, di sogni a occhi aperti che materializzano davanti ai nostri occhi soffici elefanti, signori con la pipa e il cappello, castelli tremolanti e molto altro. Non ci sono limiti, se non la dimensione della propria fantasia.
Un gioco simile si può fare guardando la Terra dall’alto. Che sia da un aereo o, meglio ancora, da una base spaziale, anche i territori del nostro pianeta, visti da questa prospettiva vertiginosa, possono assumere forme inaspettate. L’Italia, lo sappiamo bene, ha la forma di uno stivale. La città di Venezia quella di un pesce. Mentre il luogo dove ci dirigiamo ora, osservato da questa prospettiva, assomiglia a una costellazione composta da oltre 17mila piccole e grandi stelle verdi che spiccano su di un fondo che brilla di tutte le sfumature dell’azzurro.
La nostra prossima meta si trova poco distante dal luogo che abbiamo appena lasciato – l’Australia – eppure il suo territorio si estende su ben tre fusi orari diversi ed è lambito non da uno ma da due oceani: quello Indiano e quello Pacifico.
Alcune di queste isole sono disabitate e dominate da una natura prepotente che non concede passaggi o strade per esplorarne i segreti. Altre invece sono diventate nel corso degli ultimi anni mete turistiche sempre più apprezzate come nel caso di Bali, una delle isole più famose dell’Indonesia.
Ho scelto questo luogo perché, come scopriremo insieme, racconta molto bene le contraddizioni e le difficoltà della nostra epoca, così divisa tra la raggiunta consapevolezza che non c’è battaglia più urgente della salvaguardia del pianeta, e la spinta allo sviluppo e al benessere che finisce per lasciare sempre qualcuno (o qualcosa) indietro. Ma procediamo con ordine.
Visitare l’Indonesia significa innanzitutto toccare con mano la manifestazione più potente delle forze naturali che hanno plasmato il nostro pianeta. L’arcipelago più vasto della Terra si trova infatti a cavallo di due masse continentali: quella asiatica e quella australiana. Una posizione che l’ha reso il teatro naturale di fenomeni sismici anche molto violenti e che ha punteggiato le sue isole di un numero incredibile di vulcani. Pensate che solo nell’isola di Giava ce ne sono decine di ancora attivi e molti sono visitabili, come nel caso di quelli che si trovano all’interno del Bromo Tengger Semeru National Park, dove è possibile avvicinarsi ai crateri fumanti di vulcani che svettano sul mare.
Altri invece si sono trasformati in caldere: depressioni dentro le quali oggi si possono ammirare specchi d’acqua. Uno dei più famosi è sicuramente il Kawah Ijen, che si trova nella parte orientale dell’isola di Giava ed è considerato il più grande lago acido del mondo. A renderlo tale è lo zolfo che, quando fuoriesce dalle spaccature sul fondo del lago ed entra in contatto con l’aria, dà vita a un fenomeno unico: una fiamma di colore viola-blu, tanto bella quanto pericolosa.
Ad attirare in Indonesia visitatori da ogni parte del mondo è anche la possibilità di entrare in contatto con culture indigene che vivono ancora secondo i ritmi della natura e di visitare luoghi quasi inesplorati. Pensate che nonostante l’Indonesia, grazie alla sua posizione, sia stata per secoli l’approdo di viaggiatori e mercanti provenienti da tutto il mondo, molte isole sono disabitate.
Ed è forse anche questo che ha permesso la conservazione, almeno in alcune aree, di un ambiente naturale lussureggiante, abitato da creature oggi sempre più rare. Questo paese è per esempio la casa del drago di Komodo che vive nell’isola omonima.
Si tratta della più grande lucertola del mondo. Pensate che il suo aspetto e soprattutto le sue incredibili dimensioni (può raggiungere, in alcuni casi, quasi 3 metri di lunghezza e 80 chilogrammi di peso) hanno solleticato nei secoli la fantasia degli antichi viaggiatori che arrivavano su queste coste, tanto che secondo alcune teorie il mito dei draghi deriverebbe proprio dai racconti dei navigatori che avevano avuto la fortuna di ammirare questi enormi varani. Oggi per vedere questi animali arrivano sull’isola di Komodo, ogni anno, oltre 175mila turisti, tanto che per diminuire la pressione dei visitatori il governo, nel 2019, aveva avanzato l’ipotesi di chiuderla al pubblico per tutto il 2020.
Ma il turismo di massa non è l’unica minaccia per la vita di questi animali incredibili. Secondo uno studio dell’Università di Firenze, che ha censito in soli 4mila esemplari i draghi di Komodo oggi presenti in Indonesia, un’altra minaccia sarebbe rappresentata dalla distruzione del loro habitat. Un tragico destino che condividono con quello che è per antonomasia l’abitante di questa terra e della vicina Malesia: l’uomo dei boschi. È con questo nome che i malesi chiamano uno dei primati più rari al mondo: l’orangutan.
Più comunemente noto come orango, questo primate è considerato già da molti anni come «in pericolo critico» – il penultimo livello prima dell’estinzione – dalla IUCN che l’ha inserito nella sua Lista rossa dove figurano tutte le specie in via di estinzione, classificate in base al livello di rischio.
L’orangutan ha vissuto per secoli, quasi indisturbato, nella fitta foresta pluviale dell’isola del Borneo (che oggi appartiene in parte alla Malesia, in parte all’Indonesia, e in parte al piccolo stato del Brunei) e di quella di Sumatra, muovendosi con agilità tra i rami di alberi millenari. Il suo habitat l’ha protetto e custodito, offrendogli cibo e una casa sicura dove riprodursi e crescere i propri piccoli.
Ancora oggi l’unico modo per penetrare alcuni punti di questa foresta, che vista dal mare si erge come una parete dalle infinite sfumature di verde, è attraverso i fiumi. Dalle vie d’acqua si accede a un mondo inimmaginabile dall’esterno, che lascia senza fiato. Avventurarcisi significa entrare in una favola dove lo stupore per le forme incredibili che la natura può assumere sembra rinnovarsi a ogni angolo.
Non a caso è questa la giungla nella quale sono ambientati i romanzi d’avventura per eccellenza: il ciclo dei pirati della Malesia scritto da Emilio Salgari, il cui protagonista, Sandokan, è denominato proprio «la tigre della Malesia».
È un paesaggio a metà tra il sogno e la realtà quello che si dispiega davanti agli occhi del viaggiatore. Cascate come quelle che si trovano nel bacino del Maliau si alternano a fiori giganteschi come la Rafflesia. E poi, all’improvviso, dal verde della giungla, spuntano formazioni rocciose che assomigliano a lame aguzze, come quelle che si possono ammirare nel Gunung Mulu National Park che, non a caso, è inserito tra i patrimoni dell’umanità dall’Unesco.
L’incanto non si ferma alla superficie: nascosto nella giungla c’è anche un mondo sotterraneo considerato una sorta di paradiso per gli speleologi. Pensate che qui i viaggiatori più avventurosi possono persino visitare una delle grotte più grandi al mondo: la Camera di Sarawak. Per darvi un’idea, la grotta è così alta che potrebbe contenere niente meno che la Tour Eiffel. Ma c’è chi sostiene che ospiterebbe comodamente anche la Basilica di San Pietro, edificio che peraltro potrebbe essere contenuto anche in un’altra grotta che si trova dall’altra parte del pianeta e che se la gioca con la Camera di Sarawak in quanto a dimensione: la Grotta Gigante di Trieste, nella nostra bella Italia. Uno spettacolo naturale che merita una visita.
Oltre a questo mondo sotterraneo, ciò che più di ogni altra cosa attira nella foresta indonesiana viaggiatori e naturalisti è sicuramente la biodiversità. Gli studiosi considerano infatti questo territorio tra i più ricchi e i meno esplorati del mondo. Secondo le stime del WWF, solo negli ultimi quindici anni nel Borneo sono state scoperte più di 400 specie fino a quel momento sconosciute.
Eppure, come accade per altre aree ricche di flora e fauna, come per esempio il Madagascar, questo tesoro è a rischio.
Tra le specie più minacciate, come dicevamo, c’è sicuramente l’orango. Secondo una stima riportata da diverse testate in occasione della Giornata internazionale dell’orango, che si celebra il 19 agosto, «un secolo fa si contavano più di 230mila individui, mentre ora le stime parlano di 70-100mila oranghi nel Borneo e 7.500 nell’isola di Sumatra».
I pochi esemplari rimasti vivono quasi tutti nelle riserve presenti tra Malesia, Indonesia e l’isola di Sumatra ma questo non è bastato a proteggerli.
Pensate che delle tre specie oggi esistenti – l’orango del Borneo, quello di Sumatra e quello di Tapanuli – quest’ultimo, che è stato scoperto solo nel 2017, potrebbe avere, secondo una ricerca pubblicata su «Current Biology», i giorni contati.
A minacciare i circa 800 esemplari rimasti è, come hanno raccontato varie testate tra le quali la BBC, il progetto di costruzione di un’enorme diga per la produzione di energia idroelettrica che dovrebbe sorgere proprio a ridosso della foresta di Batang Toru, nel nord di Sumatra, dove vivono i pochi oranghi rimasti.
Più in generale, a mettere a rischio la sopravvivenza già estremamente precaria di questi animali è un problema che interessa purtroppo molte aree della Terra ma che in questa parte dell’Asia ha assunto negli ultimi anni dimensioni a dir poco preoccupanti: la deforestazione.
Sia la Malesia sia l’Indonesia figurano infatti in testa alle classifiche dei paesi tropicali che nel mondo perdono più foresta primaria (cioè quella più antica e ricca di vegetali e animali). Secondo gli ultimi dati pubblicati dal World Resources Institute (un’organizzazione non profit di ricerca mondiale che si concentra sui temi dello sviluppo sostenibile) e Global Forest Watch, entrambi gli stati sono tra i primi dieci. L’Indonesia, in particolare, è terza, dopo il Brasile e la Repubblica democratica del Congo. Mentre la Malesia si trova poco sotto, preceduta da Bolivia e Colombia.
E se questo non basta a rendere l’idea della situazione, vi consiglio di dare un’occhiata al sito Global Forest Watch: una piattaforma che consente di monitorare lo stato di salute delle foreste di tutto il pianeta quasi in tempo reale e che ha anche una sezione dedicata alla deforestazione. Le regioni della Terra dove il disboscamento è maggiore sono segnalate con dei puntini rossi che aumentano di numero e di intensità cromatica tanto più quell’area è colpita dal problema.
In Indonesia e Malesia, anche per la dimensione ridotta del territorio rispetto al Brasile o alla Repubblica democratica del Congo, i puntini rossi sono così fitti che i due stati sembrano essere stati colorati dalla mano di un bambino frettoloso che ha lasciato fuori solo piccolissime zone. Ma ampie zone «lampeggianti» si vedono chiaramente anche in tutto il Sud America e, come abbiamo visto, al centro dell’Africa.
Ad accomunare tutti questi luoghi è la presenza di alcune delle ultime foreste pluviali tropicali rimaste sul nostro pianeta come l’Amazzonia in Sud America, il bacino del Congo e la foresta pluviale del Sud Est asiatico. Ettari ed ettari di giungla fitta dove si concentra gran parte della biodiversità del nostro pianeta. Eppure, sono proprio queste le più prese di mira.
Un clima perfetto per la crescita di (altra) vegetazione, l’assenza di controlli, un terreno vasto ed estremamente fertile, il legno pregiato degli alberi, sono solo alcune delle ragioni che hanno fatto di questi polmoni verdi il bersaglio della deforestazione.
Secondo l’ultimo report della FAO sul tema – The Global Forest Resources Assessment 2020 – dal 1990 a oggi il pianeta ha perso 178 milioni di ettari di foreste, corrispondenti all’estensione della Libia. Tuttavia negli ultimi dieci anni questa superficie si è ridotta «solo» di 4,7 milioni di ettari l’anno, contro i 5,2 milioni del periodo 2000-2010, e i 7,8 del decennio 1990-2000.
Dunque, nonostante in alcune regioni della Terra il tasso annuo di deforestazione sia notevolmente rallentato nel corso degli ultimi anni, il problema è molto lontano dall’essere risolto. E i dati peggiori si registrano proprio lì dove si trovano le foreste più preziose: quelle pluviali tropicali.
Se, infatti, perdere boschi e foreste è un dramma in ogni parte della Terra, la distruzione di questo particolare tipo di vegetazione è un disastro che vale doppio. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti citando l’Amazzonia, questo tipo di foresta si regge su un delicato equilibrio ecologico che è anche garanzia della sua stessa sopravvivenza e che ha l’importantissima funzione di regolare il clima. Inoltre, queste aree verdi sono tra i più potenti assorbitori di diossido di carbonio (anche se studi recenti sostengono che questa capacità si stia esaurendo) che noi esseri umani continuiamo a emettere in grande quantità. Eliminare i boschi, gli alberi, le foreste significa quindi privarsi di alleati fondamentali nella dura battaglia contro il cambiamento climatico e l’aumento della temperatura globale che, come abbiamo raccontato, è ormai sotto gli occhi di tutti.
Perdere le foreste vuol dire inoltre esporre noi e il nostro pianeta a una serie di conseguenze che riguardano tantissimi ambiti: l’emergenza climatica, la biodiversità, l’economia, e anche la salute di tutti gli esseri umani che popolano il pianeta, compresi quelli che vivono in aree lontanissime da dove si pratica quotidianamente la deforestazione.
La pandemia di Covid-19 ha portato sotto gli occhi di tutti qualcosa che gli scienziati sostenevano da anni ma che solo ora abbiamo iniziato (forse) a comprendere: distruggere gli ambienti naturali fa emergere nuove malattie infettive. Vari studi hanno, infatti, evidenziato un collegamento tra la deforestazione e il cosiddetto «salto di specie» (in inglese spillover): il passaggio di un virus dagli animali all’uomo causato anche dalla perdita degli habitat naturali, che portano le diverse specie a contatto più stretto di quanto sarebbe opportuno.
Tra i vari report sul tema c’è quello stilato dalla School of Earth, Energy & Environmental Sciences dell’Università di Stanford, che, come ha riportato il World Economic Forum in un articolo, «ha suggerito che la deforestazione potrebbe portare a un aumento del verificarsi di malattie come Covid-19. I suoi risultati suggeriscono che quando le foreste vengono liberate per uso agricolo, aumentano le possibilità di trasmissione di malattie zoonotiche o da animale a uomo». Sempre il World Economic Forum, in un report diffuso in occasione della Giornata della Terra del 2020, il 22 aprile, ha evidenziato che «la perdita di superficie coperta da alberi è aumentata in modo costante negli ultimi 17 anni e il 31 per cento delle nuove epidemie, come i virus Nipah, Zika ed Ebola, è collegato alla deforestazione». Un concetto già anticipato nel 2012 dallo scrittore, divulgatore scientifico e giornalista David Quammen.
Nel libro Spillover. L’evoluzione delle pandemie, Quammen spiega molto bene qual è il legame tra distruzione del paesaggio naturale e malattie. In un corsivo sul «New York Times» ha riassunto così il tema: «Invadiamo foreste tropicali e paesaggi selvaggi, che ospitano così tante specie di animali e piante, e all’interno di quelle creature, così tanti virus sconosciuti. Tagliamo gli alberi; uccidiamo gli animali o li mettiamo in gabbia e li mandiamo ai mercati. Distruggiamo gli ecosistemi e liberiamo i virus dai loro ospiti naturali. Quando ciò accade, questi virus hanno bisogno di un nuovo ospite. Spesso, quell’ospite siamo noi».
Tutto quello che abbiamo passato negli ultimi mesi ci renderà più consapevoli e rispettosi delle forme di vita che ci circondano, siano esse vegetali o animali? Lo spero, ovviamente, ma la storia dell’umanità fino a questo momento non sembra offrire molti motivi di ottimismo. A muovere le azioni degli uomini, come stiamo per scoprire, sono spesso altri valori che poco hanno a che fare con il rispetto per le forme di vita o con la sostenibilità ambientale.