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«Con un lavoro come il tuo, sempre a bordo di un peschereccio tra le onde del mare, avrai sicuramente un sacco di storie interessanti da raccontarci, non è vero?» chiese una volta Raikichi a Yasukichi, in occasione di una delle sue visite ad Atami.

«Sì, certo. Se lei e la sua signora avrete la pazienza di ascoltarmi, sarò felice di dirvene qualcuna» rispose Yasukichi. «Come ben sapete, non ho un’istruzione e non sono bravo a raccontare storie, ma forse, ora che ci penso, potrei riferirle a un amico e chiedergli il favore di scriverle per me, così poi potrei mandarvele per lettera. Spero solo che non vi annoieranno troppo, ammesso che avrete il tempo di leggerle.»

Il giovane marinaio tenne fede alla promessa. All’incirca un mese dopo, una lettera arrivò all’indirizzo dei coniugi Chikura, con incluso tanto di manoscritto. Quest’ultimo era opera di un suo caro amico, un uomo dotato di una discreta abilità nella scrittura, che aveva lavorato con lui a bordo dello stesso peschereccio e in seguito era stato assunto come impiegato comunale. Vi prego di leggerlo come fosse un vero e proprio racconto e non come una mera trascrizione delle parole di Yasukichi. Forse è un po’ lungo, ma credo vi aiuterà a capire meglio Hatsu, Ume e le altre ragazze che, come Setsu, arrivarono dai Chikura dopo di loro. Comincerò col ricopiare qui la prima parte del manoscritto. Buona lettura.

 

Il porticciolo di Tomari all’alba è ancora avvolto nel silenzio. Dalla penombra della spiaggia attigua giungono le prime voci che si rincorrono l’un l’altra. Tutt’a un tratto, la melodia vivace di una canzone di successo riempie il vuoto del porto. Proviene dagli altoparlanti di un’imbarcazione, un peschereccio specializzato nella pesca del tonnetto striato ormeggiato a poche decine di metri dalla banchina. È già pronto a salpare di nuovo le ancore, dopo essere rientrato appena ieri con la stiva colma di pesce. Finalmente il cielo di levante inizia a schiarirsi, e i pescatori radunati in gran numero sul pontile salgono a bordo di una barca a remi e si dirigono verso il peschereccio. Bandiere e vessilli variopinti sventolano fieri a prua e a poppa, a segnalare il gran bottino del giorno precedente. Nel giro di pochi minuti l’imbarcazione leva le ancore, avvia il motore e volge adagio la prua in direzione dello sbocco del porto. I parenti e gli amici degli uomini a bordo sono allineati lungo la riva e salutano agitando le braccia. La canzone di prima ha lasciato spazio a una travolgente marcia militare, mentre il peschereccio solca le piccole onde del porto e prende il largo.

I marinai fanno rotta alla volta delle turbinose acque meridionali dove monta la corrente oceanica Kuroshio, pronti a una nuova e avvincente battuta di pesca. Ma prima di tutto devono imbarcare l’esca viva e fresca. Utilizzano solo piccoli sgombri e sardine, di cui i tonnetti sono ghiotti. Se li procurano strada facendo, presso un villaggio di pescatori che possiede ottimi vivai dedicati a quel tipo di esca viva, dove fanno sosta ogni volta per riempire fino al limite le apposite vasche piene di acqua salata. Dopo di che prendono il mare aperto per dare inizio alla grande pesca. I mari del sud delle zone subtropicali sono caratterizzati da estati eterne con una calura costante. I membri dell’equipaggio indossano solo le mutande e una fascia avvolta intorno alla testa, sono coriacei e abbronzati, come si addice a dei giovani virili, coraggiosi e in piena salute. Il peschereccio supera le acque perennemente agitate del mar Cinese Meridionale e prosegue a tutta dritta la navigazione verso sud. Non c’è niente in vista, a parte il mare blu e l’immensa volta celeste.

Tutti, dal capitano fino agli ultimi sottoposti, scrutano l’orizzonte nella speranza di avvistare un banco di tonnetti striati. Stormi di uccelli marini si accalcano e volteggiano senza sosta sopra la superficie del mare, dove c’è la presenza massiccia di pesci. Si tratta soprattutto di sule fosche, spesso fedeli compagne dei tonnetti. Avvistarle in lontananza è un compito molto importante ai fini della pesca. In piedi sul ponte, sotto il sole cocente, gli uomini non staccano mai gli occhi dal binocolo. Le vedette si arrampicano a turno in cima all’albero maestro e osservano il mare con diligenza. E la ricerca continua senza tregua, di minuto in minuto, mentre il peschereccio solca le onde dell’oceano infinito.

L’addetto alle comunicazioni radio si sintonizza sulle frequenze del centro di controllo del traffico marittimo, captando i bollettini dell’osservatorio meteorologico per assicurare all’imbarcazione una navigazione tranquilla, nonché accertandosi della posizione e dei movimenti degli altri pescherecci nella zona e riferendo tutti i dettagli al responsabile delle operazioni di pesca. Il capomacchinista dà una mano e incita gli operatori di manovra, senza distogliere l’attenzione dal motore neanche per un attimo. Il capitano fornisce le direttive al responsabile delle operazioni di pesca, consultando con scrupolo le carte nautiche per verificare la posizione del peschereccio. I compiti dei responsabili di bordo non sono affatto agevoli: tra l’altro, devono essere in grado di controllare la temperatura dell’acqua marina e di esaminare le condizioni dell’esca viva. Senza contare che ci sono giorni in cui non ci si imbatte in alcun banco di tonnetti, e allora tutto il loro impegno risulta vano.

Oggi, poco prima dell’alba, l’intero equipaggio è saltato giù dal letto, si è precipitato fuori dalle cabine e si è messo subito al lavoro, ciascuno al proprio posto: un altro giorno iniziato esattamente come quello precedente. Il mare era calmo e il tempo era bello, regnavano le condizioni ideali per una pesca abbondante. D’un tratto, la vedetta in cima all’albero maestro lancia un urlo e annuncia il tanto atteso avvistamento delle sule fosche. In sala macchine giunge immediato il segnale di avanti tutta. L’imbarcazione vira verso sud-ovest e avanza alla massima velocità, dritta come una freccia. Gli uomini imbracciano la canna da pesca e si dispongono in fila lungo il perimetro del peschereccio. Come un cane da caccia che insegue la preda, la barca procede in direzione del punto preciso in cui le sule fosche volteggiano in massa a pelo d’acqua. Mentre gli addetti all’esca gettano in mare gli sgombri e le sardine, i tonnetti cominciano a salire in superficie, come se volessero balzare fuori dall’acqua. I veterani si sporgono dalla barca e danno il via alla grande pesca. Il motore cala di giri e si spegne. Gli altri uomini continuano a spargere l’esca viva in mare. Un primo tonnetto abbocca, la canna di bambù si flette ad arco senza spezzarsi e l’esperto pescatore tira su il pesce con un colpo secco da maestro. Subito, l’intero ponte del peschereccio si trasforma in un campo di battaglia, una mattanza, con decine di tonnetti issati a bordo da altrettante canne di bambù. Appositi spruzzatori appesi ai lati dell’imbarcazione riversano acqua a volontà sui tonnetti in superficie, così da confonderli e stordirli. I giovani mozzi corrono avanti e indietro sul ponte, portando secchi pieni di esca ai pescatori. I tonnetti presi all’amo si dimenano a più non posso dopo essere stati issati a bordo, sbattendo con violenza il corpo e la pinna caudale contro l’assito del ponte. Il loro ventre argenteo luccica magnificamente. In un batter d’occhi si accumula ovunque una montagna di pesci, tanto che non c’è più spazio per camminare. Ne sono stati pescati a centinaia, anzi a migliaia, da quel caotico assembramento intorno alla barca, una ressa di pesci guizzanti e impazziti tale da cambiare il colore del mare. Lo scafo del peschereccio è immerso nell’acqua fino al limite, sotto il peso di quella miriade di tonnetti. È impossibile caricarne altri a bordo. Allora risuona nell’aria la voce imperante del capitano: «Stop alla pesca, così può bastare!» E gli uomini, in risposta, traggono all’unisono un sonoro sospiro di sollievo.

Le vasche che fino a poco prima ospitavano gli sgombri e le sardine accolgono ora i tonnetti, ammucchiati l’uno sull’altro in mezzo a una massa di ghiaccio. L’acqua è stata fatta defluire rapidamente e le valvole che permettevano il ricambio dell’acqua marina sono state chiuse, dopo di che le vasche sono state riempite di ghiaccio per tenere fresco il pescato fino all’arrivo al mercato. La barca è a pieno carico e procede lenta, ma non c’è membro dell’equipaggio che non sfoggi un’espressione allegra e soddisfatta. Da quanti giorni hanno lasciato il porto di casa? Mentre navigavano nel mare in burrasca, quante volte avranno mormorato tra sé: «La vita dei marinai non conosce il domani»? E sempre, giorno e notte, il loro unico sogno era la pesca straordinaria di quest’oggi. Qua e là sul ponte, mentre il peschereccio fa rotta verso la costa amica, gli uomini si raccontano in tono trionfante le storie delle loro gesta marinaresche.

Finalmente, il ritorno a casa. Il drappo che annuncia pesca abbondante sventola in cima all’albero maestro. Le sirene del porto suonano a festa per accogliere l’arrivo degli eroi. E loro, allineati lungo il ponte, sollevano le braccia al cielo in segno di giubilo e urlano in coro: «Ohi-uhi! Uhi-Ohi! Sa-sa-sa!»

 

Il racconto, sotto forma di una specie di giornale di bordo, era stato scritto senza dubbio con l’intento di enfatizzare il lato eroico e glorioso del mestiere del pescatore, ma non è difficile immaginare quanto dovesse essere dura la vita per le consorti dei membri dell’equipaggio. Avendo sposato il fratello di Hatsu, Yasukichi, Ume era al settimo cielo per essere guarita dalla sua terribile malattia e per aver dato alla luce due splendidi bambini, ma aveva capito presto di non poter essere quel tipo di moglie che à il bentornato alla dolce metà tutte le sere e si siede attorno alla tavola insieme ai pargoli per condividere la cena. O almeno poteva esserlo solo per uno o due miseri giorni al mese. Trascorreva la maggior parte del tempo nella più completa solitudine, insieme ai due figli piccoli, passando le ore e i minuti a preoccuparsi per il marito. La parte del manoscritto che ho appena finito di ricopiare contiene una frase che mi ha molto colpito: «La vita dei marinai non conosce il domani». Yasukichi partiva a bordo di quel peschereccio da cinquanta tonnellate con motore diesel per andare alla ricerca del tonnetto striato fin nelle lontane acque del mar Cinese Meridionale, e quando tornava a casa vi restava appena un giorno e ripartiva l’indomani sul far dell’alba, allontanandosi per l’ennesima volta dal porticciolo di Tomari. Tutte le volte che lo salutava, mentre si sforzava di far fronte al dolore e alla tristezza, Ume doveva sentirsi attanagliata da foschi pensieri, del tipo: «È forse questa l’ultima volta in cui posso abbracciarlo? Rivedrò mai il suo viso?» In fondo le bastavano anche solo quelle due volte al mese, si accontentava di quelle poche ore in sua compagnia, perché sapeva bene che esisteva il pericolo che non tornasse mai più.

In anni recenti, le previsioni meteorologiche sono diventate molto precise e affidabili e i viaggi per mare sono abbastanza sicuri, ma all’epoca non era così e i naufragi non erano affatto rari. Ne sa qualcosa Setsu, un’altra ragazza del Kyūshū che prestò servizio come domestica presso la famiglia Chikura: il suo primo marito, come Yasukichi, lavorava a bordo di un peschereccio adibito alla pesca del tonnetto striato, e un giorno, a meno di due anni dal matrimonio, partì per una delle tante battute di pesca d’altura e non fece mai più ritorno.

Quando Setsu arrivò dai Chikura, aveva già perso il marito ed era una giovane vedova ventiquattrenne con un figlio di tre anni. Scelse di abbandonare il luogo natio e di affidare il bambino ai nonni, anche se quest’ultima decisione non era inevitabile. In verità, il piccolo non era attaccato più di tanto a lei: quando il marito era ancora vivo e trascorreva buona parte del tempo in alto mare, Setsu lasciava il figlioletto alla suocera e andava a lavorare nei campi, per cui era naturale che il bambino nutrisse un grande affetto per la nonna. Spesso e volentieri ripeteva che per lei Tomari e dintorni racchiudevano solo mesti ricordi, e inoltre che si trattava di luoghi tediosi e desolati, dove non c’era mai niente di bello da fare, perciò alla fine aveva deciso di andare via e trovare impiego come domestica. Ora, per quel che mi è dato sapere, è felicemente sposata con un operaio specializzato che lavora in una fabbrica di Kitakyūshū. Dopo la tragedia da cui è stata colpita, deve aver giurato a se stessa che non sarebbe stata mai più la moglie di un pescatore. Dalle sue parti erano molti i casi di donne che, pur avendo perso il marito in un naufragio, si risposavano con un altro uomo di mare e restavano vedove per la seconda volta. In un remoto villaggio di pescatori, dove la terra da coltivare è poca e il lavoro non abbonda, è difficile trovare un marito che non si procuri da vivere a bordo di un peschereccio. Recentemente Raikichi ha avuto notizia che Yasukichi, il marito di Ume, ha lasciato per sempre il mare e ha trovato un impiego a Kōbe. Non si sa di preciso di che lavoro si tratti, ma di certo Yasukichi, che per sua fortuna non si è mai imbattuto in particolari avversità durante la sua vita da marinaio, deve aver maturato una tale decisione dopo aver riflettuto a lungo sul futuro della moglie e dei figli.

Ora, prima di passare alla storia di Setsu, ritengo opportuno raccontarvi qualcosa sul conto di Sayo, che con Setsu aveva un profondo legame.

Quando scoppiò il grande incendio di Atami nell’aprile del 1950, Sayo era la domestica di casa Chikura addetta alla villa di Nakada. Coperta di cenere e sudore, aveva lavorato duramente per tutta la notte dell’incendio insieme a Ume, e l’indomani aveva assistito alla violenta crisi epilettica di quest’ultima, restandone sconvolta. Era a servizio dai Chikura da non molto, esattamente dai primi di marzo dello stesso anno. Non era arrivata grazie all’intervento di Hatsu, e dunque non faceva parte della cosiddetta «Associazione della prefettura di Kagoshima». Né tanto meno, a differenza, per esempio, di Koma e Sada giunte rispettivamente da Kyōto e da Kawachi, era stata raccomandata dalla venditrice di tessuti per kimono della quale i Chikura erano clienti. In realtà, Sayo si era presentata da sola, senza contare sull’appoggio di nessuno. Un bel giorno aveva bussato alla porta di Sanko e le aveva chiesto: «Mi perdoni, signora, non è che per caso avrebbe un lavoro per me nella sua casa?»

Quando i Chikura abitavano dalle parti di Nanzenji Shimokawarachō, Sayo lavorava per un tale Nakamura, direttore generale di una banca, che possedeva una sontuosa dimora nella medesima zona, per la precisione a Eikandōchō. Tutti i giorni, nel corso delle sue mansioni quotidiane, andava a fare la spesa e passava all’andata e al ritorno davanti al cancello di casa Chikura, per cui ben presto entrò in confidenza con Sanko e soprattutto con le domestiche, fino al punto di entrare di tanto in tanto in cucina dalla porta di servizio per scambiare quattro chiacchiere. A distanza di tempo, con il senno di poi, è legittimo supporre che già allora avesse dei motivi segreti per insinuarsi in casa Chikura, solo che Raikichi e Sanko, non sospettando niente del genere, la presero subito in simpatia e la assunsero senza chiederle né referenze né documenti, ritenendola una ragazza molto in gamba. D’altra parte, alla fin fine non si seppe neanche se era stata licenziata o se era stata lei a chiedere al signor Nakamura di andare via. Dimostrava a occhio e croce trent’anni e diceva di essere stata a servizio altrove, prima di essere assunta in casa Nakamura. Ma anche su questo aspetto non esistono certezze. Sanko la accolse in famiglia pressappoco nel periodo del trasloco da Nanzenji Shimokawarachō a Shimogamo, e in quei giorni provò a recarsi dai Nakamura per chiedere delle referenze, solo che non trovò in casa né il signor Nakamura né la moglie e rinunciò all’impresa, accontentandosi di assumere Sayo senza nessuna garanzia.

In base a quanto Sanko ebbe modo di apprendere da Koma, Sayo era originaria di Awa, ovvero della prefettura di Tokushima. Non amava molto parlare di sé e del proprio passato, e solo di rado rivelava qualche piccolo dettaglio, come per esempio il fatto che la madre l’aveva portata con sé quando si era risposata. Il suo modo di lavorare era impeccabile, non c’era nulla di particolare su cui eccepire, eppure Raikichi, chissà per quale motivo, manifestava qualche perplessità.

«Quella ragazza nuova, Sayo, non mi piace... Non sarebbe meglio trovare un pretesto qualsiasi e mandarla via?»

«Ma perché?»

«Non te lo so spiegare, è una sensazione... Mi mette a disagio, ecco. Mi sta antipatica, non la sopporto.»

«Ma è arrivata da poco, non ti capisco. E poi non trovo giusto mandarla via senza una ragione precisa. Senza contare che ha dato l’anima quando c’è stato il grande incendio.»

Questa breve conversazione tra marito e moglie ebbe luogo alla villa di Nakada, in occasione del loro viaggio e del lungo soggiorno ad Atami all’indomani del grande incendio. Una sera di fine maggio, mentre era assorto nella lettura nel suo studio al primo piano, Raikichi aprì quasi per caso il cassetto della scrivania e trovò al suo interno un foglietto di carta ben ripiegato che non gli apparteneva. Chiedendosi come fosse finito lì dentro, lo spiegò e lesse il seguente messaggio, scritto a matita in una grafia frettolosa: «Avevo bisogno di una matita e mi sono permessa di prenderla in prestito da questo cassetto. Chiedo scusa per la mia insolenza. Sayo».

Il messaggio non conteneva errori e i caratteri cinesi utilizzati erano corretti. Ma quel foglio quando era stato messo nel cassetto? Raikichi passava la maggior parte del tempo seduto alla scrivania e apriva quel cassetto come minimo due o tre volte al giorno. Lo aveva aperto una volta al mattino e un’altra volta nel primo pomeriggio, ma il foglietto non c’era ancora. Poco dopo le quindici, era sceso al piano di sotto e aveva fatto uno spuntino, quindi era uscito in giardino e si era occupato per un po’ delle piante, dopo di che aveva letto il giornale più o meno fino alle diciassette e trenta. Infine era tornato su e si era rimesso a lavorare. Sayo doveva essersi introdotta nello studio durante quelle due ore e aveva lasciato il messaggio nel cassetto della scrivania. C’erano almeno dieci matite nel portapenne, perché non aveva preso una di quelle? Che bisogno c’era di aprire il cassetto? Avrebbe anche potuto rivolgersi a Ume o a Koma e chiederne una a loro.

In un impeto di rabbia, Raikichi si affacciò dalla porta dello studio e si mise a urlare: «Sayo! Sayo, dove sei?! Vieni subito al piano di sopra!»