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Non è un’impresa facile, ma a questo punto mi piacerebbe stilare un resoconto ordinato sulle varie abitazioni della famiglia Chikura, che traslocò numerose volte dopo la guerra.

Nel 1946, Raikichi e la moglie lasciarono Katsuyama, remota cittadina nel distretto di Maniwa della prefettura di Okayama dove erano stati sfollati, e presero in affitto alcune stanze in casa della famiglia Kamei, nel quartiere di Kamigyō a Kyōto, a nord dell’incrocio tra Teramachi-dōri e Imadegawa-dōri. Presto si trasferirono in una casa indipendente nel quartiere di Sakyō, a Nanzenji Shimokawarachō, lungo il corso dello Shirakawa. Non molto tempo dopo, cedettero quella casa ad Asukai Jirō e alla moglie Nioko e andarono ad abitare nella villa vicino al bosco sacro di Tadasu no Mori del santuario di Shimogamo, munita di un incantevole giardino tradizionale con tanto di stagno, piccoli salti d’acqua e collinette artificiali. Mentre risiedevano nella casa dalle parti del Nanzenji, presero di nuovo una seconda dimora ad Atami, prima affittando la villa di un conoscente all’interno del complesso del Sannō Hotel e in seguito, dopo aver fissato la residenza principale a Shimogamo, acquistandone una nei dintorni di Nakada. Fu durante il «periodo di Nakada» che si verificarono gli attacchi epilettici di Ume, il grande incendio di Atami del 1950 e la relazione saffica di Sayo.

Verso il 1955 fu istituito un servizio di autobus di linea che permetteva di raggiungere Nakada con facilità, il che determinò un aumento esponenziale del numero di ryokan, locande e case di geisha e contribuì alla trasformazione dell’intera area in una sorta di quartiere dei piaceri. L’ambiente diventò molto chiassoso e inospitale per Raikichi e gli altri, così decisero di vendere la villa e trasferirsi in collina a Narusawa, nella zona di Izusan, più o meno a metà strada tra le stazioni di Atami e Yugawara, dove abitano tutt’oggi. Il matrimonio di Sada, per esempio, risale al «periodo di Narusawa».

Narusawa si trova entro i confini urbani di Atami, eppure fino a sei o sette anni fa l’atmosfera era ancora molto tranquilla e rilassata. È a circa tre chilometri dalla stazione ed è facilmente raggiungibile a piedi. All’epoca era possibile passeggiare beati lungo il percorso, con lo sguardo rivolto al mare in attesa di scorgere in lontananza un suggestivo pennacchio di fumo sopra l’isola vulcanica di Ōshima, a sud. Lo scrittore Kiga e la moglie, che adesso vivono nella zona di Tokiwamatsu a Shibuya, a Tōkyō, allora abitavano circa un chilometro a est, esattamente a Ōboradai. E anche il noto pittore Yokoyama Taikan aveva una villa nei paraggi. A proposito, la famiglia Chikura diede alla villa di Narusawa il nome di «Chalet Shōheki». La costruzione affacciava su un lungo sentiero di scalini di pietra che conduceva alla statua di Kōa Kannon, fatta erigere per volontà dell’ex generale dell’Armata imperiale giapponese Matsui Iwane. Il suono greve e profondo del grande tamburo suonato con ogni probabilità dal custode di un vicino tempio, seguace della dottrina buddista della scuola Hokke, riecheggiava senza sosta nell’intera area tutte le mattine e le sere, anche nei giorni più gelidi e in quelli più afosi dell’anno. Atami, come tutti sanno, è una rinomata località di villeggiatura invernale, e per fortuna la veranda della villa di Narusawa era calda e soleggiata anche nel pieno della stagione fredda e sorprendentemente fresca durante l’estate, grazie all’ottima posizione a mezza montagna. Se ci si andava in auto, bisognava parcheggiare ai piedi del sentiero e inerpicarsi per una sessantina di scalini. Era faticoso? Certo che sì, soprattutto per chi non era abituato.

Raikichi e la sua famiglia trascorsero due o tre anni in questo modo, soggiornando ad Atami perlopiù durante la stagione estiva e quella invernale, e restando a Kyōto in primavera e in autunno. Col passare del tempo, però, un tale andirivieni iniziò a rivelarsi più che altro un fastidio e, anche grazie alla vicinanza di Atami a Tōkyō, alla fine decisero di fare della villa di Narusawa la loro residenza principale e, a poco a poco, abbandonarono del tutto la casa di Shimogamo a Kyōto, nonostante vi fossero molto affezionati. Tutto questo avvenne verso la fine del 1956. In seguito, la villa di Shimogamo è stata venduta, ma nell’antica capitale i Chikura possono ancora contare sulla casa degli Asukai a Kita Shirakawa, dove abitano Keisuke e la moglie Numeko. Nioko trascorre la maggior parte del suo tempo a Narusawa con la sorella, ma ogni tanto torna con piacere a Kyōto dalla nuora e dal figliastro. Raikichi e Sanko nutrono un attaccamento particolare per quella città e da qualche tempo utilizzano la casa degli Asukai come fosse un’abitazione di vacanza, dormendo in una stanza al piano superiore e talvolta fermandosi anche per una decina di giorni o un paio di settimane, finché non hanno sentore di essere di troppo.

Lo «Chalet Shōheki» non è ampio e spazioso come la proprietà di Shimogamo. Quest’ultima era edificata su un terreno di circa duemilatrecento metri quadrati, mentre lo «chalet» sorge su un appezzamento di poco più di seicento metri quadrati e ha una superficie complessiva di soli duecentocinquanta metri. Quando i Chikura vi si trasferirono, il terreno accanto, di dimensioni simili, era vuoto e completamente invaso da folti cespugli di susuki e di altre piante erbacee ad alto fusto. Chissà cosa aveva in mente il proprietario di quel lotto, era un vero peccato lasciare vuoto un terreno come quello in una località così suggestiva e ambita. Una volta, l’uomo disse a Raikichi: «Non ho intenzione di vendere, ma se vuole può utilizzarlo lei, a patto che non vi costruisca niente. Lo lascerò vuoto, perciò può anche usarlo per farci due passi e sgranchirsi le gambe. E non pretendo nessun affitto per questo, stia tranquillo. Nel caso dovessi decidere di venderlo, ne parlerò prima con lei, va bene?» Accettando con sommo piacere la generosa offerta del proprietario, Raikichi cominciò a far tagliare un bel po’ di susuki e di erbacce e fece rizollare una parte del suolo in modo da creare un sentiero sinuoso tra la vegetazione. Fedele all’accordo, si astenne dal costruire alcunché, ma fece piantare tre splendidi ciliegi yaebenishidare che aveva ordinato apposta da Kyōto – della stessa varietà di quelli del santuario Heian –, aggiungendo tutt’intorno numerosi ciliegi someiyoshino. Inoltre fece allestire un pergolato di glicini nell’angolo nord-est del terreno. Chiese anche dei bellissimi esemplari di crinum asiaticum alla famiglia Kiga e fece piantare alcuni grandi cespugli di Lespedeza. E ordinò di posizionare giusto lì accanto un piccolo gazebo e una cuccia per cani, entrambi facili da smantellare. Raikichi e i suoi famigliari presero l’abitudine di chiamare quel posto «il giardino sul retro». Oltre ai gradini di pietra sul davanti della casa, che salivano verso la statua di Kōa Kannon, ce n’erano altri molto simili, una cinquantina circa, che partivano dal «giardino sul retro» e portavano giù fino alla strada. Talvolta succedeva che alcuni turisti e anziani pellegrini, desiderosi di rivolgere le loro preghiere a Kōa Kannon, si inerpicassero per la scalinata sbagliata e sbucassero tutt’a un tratto nel nuovo giardino della famiglia Chikura, aggirandosi con aria sperduta tra gli alberi e le piante. Quegli stessi gradini di pietra avrebbero svolto più tardi un ruolo importante in una storia d’amore di cui sarebbe stata protagonista Gin.

Raikichi e Sanko, insieme a Nioko e Mutsuko, si recavano spesso al centro di Atami per concedersi qualche ora di svago mondano. Un’ampia strada corre dritta dalla spiaggia in direzione di Nishiyama: è la via principale, la più animata dell’intera cittadina. Prima non aveva un nome, ma ora si chiama «Atami Ginza». Non ricordo quando di preciso abbia assunto questo nome, ma non deve essere da molto, o almeno così mi pare. Quando Raikichi e gli altri avevano voglia di fare compere, andare al cinema o ammazzare il tempo in un caffè o in un ristorantino di sushi, non avevano altra scelta: quella strada, Atami Ginza, era una tappa obbligata.

Almeno una volta al giorno, qualcuno della famiglia chiamava un taxi della Shōnan. In realtà, li chiamavano anche due o tre volte al dì, per cui credo sia lecito affermare che i Chikura fossero tra i clienti più fedeli e affezionati di quella compagnia di taxi locale. La sede della società si trovava a poco più di un chilometro da Narusawa, in direzione della stazione di Atami, quattro o cinque case oltre il ponte di Aizomebashi. Quando si chiamava il numero apposito, una macchina arrivava ai piedi della scala di pietra dopo sette o otto minuti al massimo. Gli autisti a servizio della Shōnan erano circa venticinque, e ciascuno di loro conosceva ogni singolo membro della famiglia Chikura. Di solito, le domestiche andavano a fare la spesa in città con l’autobus, ma talvolta, sulla via del ritorno, incrociavano un taxi libero diretto in sede e si facevano dare uno strappo. Nessun favore era più apprezzato, cariche com’erano di borse e pacchi zeppi di frutta, verdura e pesce. Scendevano dal taxi ad Aizomebashi e prendevano l’autobus alla fermata lì davanti. Ma non andava sempre così, dipendeva dall’autista: a volte qualcuno era particolarmente gentile e le accompagnava fino a Narusawa, davanti ai soliti scalini di pietra.

Fu proprio uno di quei taxi a rendere possibile l’incontro tra Gin e Mitsuo. Quest’ultimo, figlio unico di un’anziana coppia che gestiva un piccolo ristorante a Yugawara, lavorava per la compagnia di taxi Shōnan da circa dieci anni. I suoi genitori erano originari della zona di Izusan e in passato avevano condotto buoni affari da quelle parti occupandosi di ristorazione e attività affini. Poi, quando il lavoro aveva cominciato a scarseggiare, avevano deciso di trasferirsi a Yugawara. Era una famiglia abbastanza nota in tutto il circondario e lo stesso Mitsuo non era certo uno sconosciuto. Tuttavia, secondo Raikichi, si trattava di un ragazzo comune e per niente all’altezza di una ragazza bella e intelligente come Gin. Il suo aspetto fisico rientrava nella norma, non aveva nulla di speciale che lo distinguesse dagli altri ventiquattro o venticinque tassisti della Shōnan, eppure, chissà per quale arcano motivo, possedeva qualcosa che lo rendeva attraente agli occhi delle fanciulle dei dintorni. Le cameriere dei ryokan della zona avevano un vero e proprio debole per lui, al punto che spesso, quando chiamavano un taxi, dicevano espressamente: «Per favore, mandate Mitsuo, se possibile». A ogni modo, neanche Gin era in grado di dire con certezza assoluta quando fosse scoccata la scintilla tra lei e il giovane. Forse una volta che aveva fatto la spesa ad Atami Ginza, lungo la via del ritorno verso casa; o magari un giorno che aveva accompagnato Sanko o Nioko alla stazione, in occasione di una delle loro frequenti visite a Tōkyō e a Kyōto; o forse in chissà quale altra circostanza. Quel che è certo è che la bella Gin riceveva sovente un passaggio fino a casa da Mitsuo. E, fin dalle prime volte, aveva notato che il giovane autista le lanciava continue occhiate attraverso lo specchietto retrovisore. Fu più o meno allora che iniziò a prestare una certa attenzione al tassista rubacuori della Shōnan.

Un giorno, Nioko annunciò che era in partenza per Kyōto e Gin la accompagnò in taxi alla stazione di Atami. L’autista era Mitsuo. Dopo aver salutato Nioko ed essere uscita dall’edificio della stazione, trovò con sua grande sorpresa Mitsuo ad attenderla.

«Che cosa ci fai ancora qui?» gli chiese.

«Ti stavo aspettando, no? Sali in macchina, ti riporto a casa.»

Mitsuo aveva un tono di voce insolitamente brusco e spavaldo. Per le ragazze del luogo quel modo di parlare costituiva uno dei punti di forza del suo fascino irresistibile.

«Grazie, ma preferisco restare in centro» replicò Gin. «Devo fare la spesa.»

«E che problema c’è? Ti porto in centro, sali. Non ci vorrà molto, no?»

«Veramente ho parecchie commissioni da sbrigare, mi tocca andare in cinque o sei posti diversi. E devo passare anche all’ufficio postale per spedire un bel po’ di raccomandate. Temo che non sarà una cosa veloce, mi dispiace.»

«Ho capito. Sarà per la prossima volta. Ciao!»

«Ah, aspetta...» gli disse Gin, prendendo i duecento yen che Nioko le aveva dato per pagare la corsa. «Ecco a te.»

«Non ce n’è bisogno, tienili pure.»

«Perché? Così mi metti in difficoltà. La signora me li ha dati per pagare il taxi.»

«Forse non sono stato chiaro. Non mi servono, tienili tu.»

«Ma non è giusto...»

«Non importa, per me lo è. Ciao, ci vediamo!»

E, nel restituirle i duecento yen, Mitsuo le strinse forte la mano per un attimo.

Dopo qualche tempo, si verificò un altro evento degno di nota.

Sanko andò a far visita al pittore Yamahata Katsushirō e, come spesso accadeva, si fece accompagnare da Gin, con il taxi di Mitsuo. La villa di Yamahata si trovava in un luogo isolato, per raggiungerla in macchina bisognava passare sotto il cavalcavia di fronte alla stazione e inerpicarsi per alcune centinaia di metri fino a Momoyama, lungo una stradina di montagna tutta curve e tornanti, e infine si doveva svoltare a sinistra. Lì, come dai Chikura a Narusawa, c’era una serie di ripidi scalini di pietra che portava all’ingresso della casa. Sanko si faceva lasciare ai piedi della scalinata e si arrampicava fin su. Di solito si tratteneva dagli Yamahata per un’ora o due, chiacchierando con il pittore e la moglie, perciò mandava il taxi indietro e faceva riportare a casa la cameriera di turno. Quel giorno, Gin accompagnò Sanko fino alla porta di vetro dell’ingresso della villa, dopo di che scese i gradini e raggiunse il taxi che la stava aspettando. Tutt’a un tratto, prima che potesse infilarsi in macchina, Mitsuo la afferrò da dietro e la baciò! Fu un bacio lungo e appassionato, che lasciò Gin senza parole e piacevolmente sorpresa. Dopo ripetuti episodi del genere, i sentimenti di Gin nei confronti di Mitsuo cambiarono del tutto, con un’intensità devastante. Qualcosa ardeva nel cuore di quella ragazza del Sud, qualcosa di puro e irrazionale, simile a un torrente in piena che scorreva inarrestabile. L’unica cosa di cui era certa era che non poteva più vivere senza Mitsuo. Raikichi e gli altri della famiglia non ci fecero caso, ma da quel momento in poi, ogniqualvolta si chiamava un taxi, arrivava quasi sempre Mitsuo. Questo perché Gin si incaricava in prima persona di telefonare e si raccomandava che mandassero solo ed esclusivamente lui. Le altre cameriere, che erano al corrente della situazione, non rivelarono il segreto di Gin ai padroni di casa e le diedero man forte, chiamando anche loro il taxi di Mitsuo tutte le volte che potevano. Erano sconvolte di fronte all’infatuazione della giovane collega per il tassista di Atami, ma si mostrarono decisamente altruiste e solidali. Mitsuo arrivava con il suo taxi percorrendo la strada nazionale che passava ai piedi della casa dei Chikura, suonando il clacson per annunciare il proprio arrivo, quindi parcheggiava la macchina davanti alla scala di pietra e, come d’abitudine, canticchiava il primo verso di una canzone di Mihashi Michiya, Ringo mura kara: «Te la ricordi ancora la tua cittadina natale?»

Gin non aveva il compito esclusivo di accompagnare il padrone di casa quando questi prendeva il taxi, ma non mancava mai di precederlo correndo giù per la scalinata di pietra per raggiungere il suo Mitsuo. Approfittava di quei due o tre minuti per abbracciarlo e sussurrargli dolci parole d’amore. Poi restava lì a lungo, agitando languidamente la mano mentre la macchina si allontanava lungo la strada in discesa e scompariva e riappariva alla vista curva dopo curva, finché si immetteva sulla nazionale per Atami che costeggiava la spiaggia.

Ai piedi della scala di pietra che portava allo Chalet Shōheki, là dove i taxi sostavano in attesa dei clienti, sorgeva la villa di Tamai Ryōhei, il presidente delle Industrie Kotani. Lui e la moglie si recavano lì di tanto in tanto da Tōkyō nel fine settimana, con la loro lussuosa Mercedes, per giocare a golf al campo di Kawana o per dedicarsi ad altre attività ricreative. Alla villa restavano di solito una cameriera vedova di circa quarantacinque anni, una certa Oyone, e i suoi due figli piccoli, che frequentavano la scuola elementare locale. Una modesta dépendance a uso del personale di servizio, munita di un semplice cancelletto a graticcio, era stata costruita in prossimità dell’ingresso principale della villa. E Oyone, attraverso quel cancelletto, si era abituata a scorgere sempre più spesso il taxi di Mitsuo parcheggiato lì davanti, nonché ad ascoltare la sua voce che intonava le note di Ringo mura kara. Talvolta, vedeva Gin scendere a rotta di collo la scala di pietra e lanciarsi tra le braccia dell’amato, accarezzandolo e baciandolo a più non posso. Quelle scene, che sovente si consumavano nella penombra del crepuscolo, sprigionavano una passione intensa. Ma, anche alla luce del giorno, i due innamorati se ne infischiavano di eventuali sguardi indiscreti e davano pieno sfogo ai loro sentimenti. Si infilavano in macchina e cominciavano a stringersi e avvinghiarsi l’un l’altra ansimando, al che Oyone si copriva gli occhi con la mano e scappava via, presa dal panico.

Invero, c’era un’altra ragione per la quale Gin restava a guardare con una certa malinconia il taxi di Mitsuo che si allontanava fino a scomparire dalla sua vista. Lungo la statale, tra Narusawa e Aizomebashi, sorgeva un ryokan chiamato Shōtōkan, dove lavorava una certa Kane, che aveva un debole per Mitsuo. La ragazza era al corrente della storia tra il giovane tassista e Gin, e tutte le volte che lo vedeva passare si precipitava fuori dal ryokan e lo salutava mandandogli un bacio o facendo l’occhiolino. Oppure, peggio ancora, lo fermava e si faceva portare in giro in taxi. Questo, come è facile immaginare, scatenava nella povera Gin una gelosia irrefrenabile. Quando Mitsuo andava via con il taxi, lei tendeva l’orecchio per ascoltare il rumore del motore e capire se facesse sosta o meno al ryokan Shōtōkan. Rosa dal sospetto, scendeva come una furia giù alla scala di pietra e non si tranquillizzava finché non si era accertata che Mitsuo non si fosse fermato allo Shōtōkan. Spesso, quando Raikichi era assente da casa, correva nel suo studio e guardava fuori dalla finestra che dava a sud, con vista su Hatsushima e Ōshima, perché da lì era possibile seguire il percorso del taxi di Mitsuo più a lungo e sapere con certezza se si era attardato o meno dalle parti dello Shōtōkan.

Tuttavia l’interesse di Mitsuo non si limitava alla sola cameriera di quel ryokan. Giravano diverse voci, ad esempio, circa una sua presunta relazione con un’impiegata della compagnia degli autobus, e altre ancora a proposito della sua estrema popolarità tra le cameriere e le domestiche di Atami e dintorni. Gin era disperata, e del resto non le si poteva dare torto. Si vociferava addirittura che una volta, mentre stava dando un passaggio a una ragazza nel suo taxi, Mitsuo fosse stato fermato da una donna a bordo strada e le avesse detto, con nonchalance: «Dai, sali», facendo cenno all’altra di nascondersi nel vano per i bagagli!

Tutte le volte che Suzu andava in città per fare compere per conto dei padroni di casa, Gin non esitava a dirle: «Suzu, chiama il taxi e raccomandati di far venire Mitsuo, per favore», e le porgeva il denaro per pagare la corsa di andata e ritorno. In questo modo, facendo affidamento sull’amica, poteva controllare almeno in parte gli spostamenti di Mitsuo e stare tranquilla per un po’. E Suzu, d’altro canto, era contenta di poter usufruire di un passaggio in taxi e risparmiarsi la fatica di portare pesanti borse in autobus e a piedi.