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Negli ultimi tempi il mondo è diventato piuttosto complicato. Abbiamo smesso di chiamare «domestiche» o «cameriere» le donne che prestano servizio in casa e non possiamo rivolgerci a loro indicandole semplicemente per nome. In passato le chiamavamo «Ohana», «Otama» e così via, ma ora non basta e dobbiamo mostrarci il più possibile cortesi, ricorrendo a «Ohana-san», «Otama-san» e altri appellativi simili. La famiglia Chikura è molto legata alle tradizioni e ha osservato le antiche abitudini fino a poco fa, ma l’anno scorso, a seguito di alcune critiche, anche i suoi membri si sono arresi all’utilizzo del «-san». Spero che le «donne di servizio» moderne non me ne vorranno, ma ho deciso di non tenere conto della nuova etichetta perché il contesto non me lo permette e, dal momento che questa storia ha inizio prima della guerra, più o meno tra il 1936 e il 1937, mi concederò la libertà di adoperare termini quali «domestica», «cameriera» e «inserviente» e di non usare il «-san». Chiedo venia in anticipo per questo.

Ho sentito dire che in certe case, ancora adesso, sono soliti rivolgersi alla propria domestica chiamandola «ragazza» o «sorella». Uomini di un tempo come Raikichi, il capofamiglia di casa Chikura, detestano questa usanza. Al giorno d’oggi è raro imbattersi in ristoranti specializzati in sukiyaki, eppure una volta Tōkyō ne era piena, c’erano posti come Iroha e Matsuya, con le loro vetrine rosse, viola e di altri colori sgargianti. Lasciavi le scarpe all’entrata, salivi tre o quattro gradini e ti ritrovavi in una sala enorme gremita di clienti seduti intorno a grandi pentole fumanti. Le cameriere correvano di qua e di là senza requie, gridando a perdifiato: «Un altro sake al tavolo x!», «Il conto al tavolo y!», stringendo in mano le piccole tavolette di legno annerite e unte di grasso di manzo che servivano a ritirare le calzature all’ingresso. Gli avventori di quei ristoranti chiamavano spesso e volentieri le cameriere «ragazza» o «sorella». Ecco perché, tutte le volte che Raikichi sentiva qualcuno rivolgersi in quel modo a una domestica, aveva l’impressione di cogliere nell’aria una zaffata di sukiyaki. Lui preferiva di gran lunga termini come «Ohana» e «Otama».

Nel periodo Meiji, la gente si rivolgeva alle domestiche adoperando una vasta gamma di vocaboli indecorosi, compresi «serva» e «sguattera». Ma di recente c’è addirittura chi suggerisce di astenersi dall’utilizzo di espressioni del tipo «signora domestica» e «signora cameriera», invitando all’uso di «aiutante casalinga», «collaboratrice famigliare» e così via. È proprio il caso di dire che i tempi sono cambiati! Oggigiorno, quando ci si rivolge alle cameriere per nome, molti preferiscono evitare di anteporre la «o» onorifica e aggiungono il carattere cinese «ko» di «bambino» alla fine della parola, a mo’ di vezzeggiativo. Dunque «Ohana» e «Otama» diventano rispettivamente «Hanako-san» e «Tamako-san». Ebbene, Raikichi mal sopporta anche questa moderna pratica. Dice: «Se proprio bisogna usare il ‘-san’, allora vanno più che bene ‘Hana-san’ e ‘Tama-san’. ‘Hanako-san’ e ‘Tamako-san’ mi fanno pensare ai nomi delle cameriere di certi locali, e la mia casa non è un bar!» Ma le ragazze di provincia che lavorano come domestiche nelle grandi città non condividono questo modo di pensare e prediligono «Hanako-san» e «Tamako-san».

Raikichi prese definitiva dimora assieme alla seconda moglie nell’autunno del 1935, quando lui aveva cinquant’anni e lei trentatré. Chissà com’è diventato il posto dove abitavano allora. Se non erro, si trovava nell’attuale quartiere di Higashinada, a Kōbe, ma all’epoca si chiamava Tantakabayashi e faceva parte del villaggio di Sumiyoshi (distretto di Muko, prefettura di Hyōgo). Si tratta di un’area poco vasta situata, per la precisione, tra Sumiyoshi e Uozakichō, dove scorre il fiume Sumiyoshi e si erge il ponte Tantakabashi. Lì, lungo l’argine del fiume, cinque o sei abitazioni oltre il ponte, sorgeva la casa dei Chikura. In famiglia erano quattro: Raikichi e sua moglie Sanko; la figlia di quest’ultima nata da un precedente matrimonio, Mutsuko, che all’epoca aveva sette anni e che in seguito Raikichi avrebbe adottato; e infine Nioko, la sorella più piccola di Sanko. E poi c’era la servitù, composta come minimo da due o tre donne e talvolta anche da cinque o sei.

Ora, è più che legittimo nutrire dei dubbi sulla necessità di assumere così tante persone in una casa dove le donne rappresentavano la maggioranza, ma va subito precisato che Sanko e le altre erano giovani signore cresciute negli agi e nel lusso, incapaci di cavarsela senza essere servite e riverite da uno stuolo di cameriere. D’altra parte, lo stesso Raikichi amava essere circondato da un piccolo esercito di domestiche, diceva che rendevano la casa allegra e vivace. Di conseguenza, molte ragazze si sono avvicendate al servizio dei Chikura nel corso degli anni. Raikichi e la sua famiglia traslocarono dapprima da Tantakabayashi a Uozakichō, sulla sponda opposta del fiume. Poi, allo scoppio della guerra, si trasferirono nel Kantō, in una villetta ad Atami. Dopo la fine del conflitto, divisero il loro tempo tra quella piccola villa e una casa a Kyōto, e nel frattempo il numero delle domestiche si moltiplicò. Sanko era una donna fin troppo gentile e di buon cuore: fosse stato per lei, avrebbe assunto tutte le ragazze che bussavano alla porta in cerca di lavoro.

È molto difficile, se non impossibile, ricordare il numero esatto delle fanciulle che prestarono servizio nelle cucine di casa Chikura dai tempi di Tantakabayashi fino ai giorni dell’attuale dimora di Izusan. Alcune vi lavorarono per meno di un mese o anche solo per qualche giorno, mentre altre rimasero per sei, sette o addirittura più di dieci anni. Ancora oggi, quando a Raikichi capita di imbattersi in una donna che ha lavorato a lungo per la sua famiglia, non manca mai di mostrarle il proprio affetto e la tratta quasi come una figlia. In più di un’occasione ha permesso alle giovani domestiche che vivevano lontano da casa di celebrare la cerimonia di fidanzamento nella sua dimora. Due o tre di loro, ora felicemente sposate, si fanno vive di tanto in tanto per salutarlo ed esprimergli piena gratitudine per il trattamento ricevuto. È proprio vero: meglio un buon vicino che un parente lontano!

La maggior parte delle cameriere a servizio dai Chikura nel corso dei decenni era originaria del Kansai. Un paio di anni fa è stata assunta per la prima volta una ragazza che veniva da Ibaraki, ma ha lasciato il lavoro molto presto ed è tornata al suo paese. In questo preciso momento ce n’è un’altra che viene dalla prefettura di Shizuoka, da un posto alle pendici del monte Fuji. Ma, a parte loro due, nessun’altra ragazza del Kantō ha mai lavorato per la famiglia Chikura. Dopotutto è abbastanza normale: Sanko è di Ōsaka, e inoltre all’inizio lei e Raikichi andarono ad abitare giusto da quelle parti, nelle vicinanze delle ferrovie Hanshin. Poi, dopo la guerra, si sono trasferiti a Kyōto, e infine hanno lasciato l’antica capitale per stabilirsi in via definitiva ad Atami, nel Kantō. Tuttavia Sanko e le altre donne di casa aborriscono le maniere rudi delle ragazze di questa regione e, tutte le volte che si presenta l’esigenza di assumere una nuova domestica, stanno sempre attente a scegliere una loro conterranea. L’attuale dimora nei pressi di Atami si trova a Narusawa, nella zona di Izusan. Qui, il fruttivendolo, il pescivendolo e gli altri commercianti che consegnano la merce a domicilio hanno il tipico accento deciso e vivace del Kantō, mentre le domestiche dei Chikura replicano nel dialetto del Kansai. Del resto, tutti i membri della famiglia parlano con l’accento di Ōsaka, per cui le ragazze che prestano servizio da loro e provengono dalle aree rurali di quella regione non hanno modo di familiarizzare con la parlata fluida e cristallina della capitale. E così restano fedeli alle abitudini e alle usanze della terra d’origine: tagliano persino il daikon in salamoia a listarelle spesse e non a fettine rotonde, nel rispetto della tradizione di Ōsaka.

Raikichi è di Tōkyō ma, dopo aver sposato l’attuale consorte, è vissuto per oltre vent’anni circondato da persone che chiacchierano dal mattino alla sera nel dialetto del Kansai. Perciò ha sviluppato uno strano modo di esprimersi e ha quasi dimenticato la parlata nativa. Quando discute con un suo conterraneo, spesso finisce suo malgrado per usare parole tipiche del dialetto di Ōsaka, come «hokasu» anziché «suteru» per dire «gettare via», e per questo motivo è stato di frequente sbeffeggiato e deriso. Non è raro che anche le sue piccole liti coniugali abbiano origine dalle differenze di costumi tra il Kantō e il Kansai, e se per caso il battibecco assume toni particolarmente accesi, il povero Raikichi non può fare altro che arrendersi alla supremazia di Sanko, sostenuta dall’immancabile supporto della figlia e della sorella.

Le giovani domestiche del Kansai, nel trasferirsi qui ad Atami, provano a imitare i commercianti che consegnano tutti i giorni i prodotti freschi ai Chikura e finiscono per imparare varie parole ed espressioni in uso a Tōkyō e dintorni. Dal fruttivendolo utilizzano un nome diverso per quasi tutti gli ortaggi: lo zenzero lo chiamano tsuchishōga e non hineshōga; dicono mizuna invece di kyōna; il taro per loro è koimo e non satoimo; chiamano ito konnyaku ciò che qui chiamiamo shirataki e viceversa; e per indicare la zucca dicono nankin anziché tōnasu. Per non parlare del pescivendolo, dove non c’è pesce o mollusco che abbia lo stesso nome a Ōsaka e a Tōkyō: nel Kansai dicono guji e non amadai, aburame invece di ainame, uoze al posto di ebodai, chirimenjako anziché shirasuboshi. Le povere ragazze di casa Chikura non possono andare a fare la spesa se prima non acquisiscono una certa dimestichezza con i nomi usati nell’area della capitale. Perciò cercano di apprendere il più in fretta possibile tutti i vocaboli utili, senza tuttavia perdere l’accento natale. E di certo non si fanno scrupolo di continuare a esprimersi ricorrendo a molti termini ed espressioni del dialetto del Kansai, come akan, arehen, shiyaharimasu, donaidesu e via dicendo. In passato nessuno avrebbe osato fare sfoggio di tale dialetto nell’antica Edo, ma da un po’ di tempo a questa parte non è più così, soprattutto ora che noti comici di Ōsaka si esibiscono a Tōkyō e recitano in numerosi film di successo. Persino il fruttivendolo, il pescivendolo e gli altri commercianti che frequentano casa Chikura sembrano essere stati contagiati dalla mania del dialetto di Ōsaka ed esclamano «Nanbo?» invece di «Ikura?» per chiedere «Quanto costa?», e «Ōkini» anziché «Arigatō» per dire «Grazie».

Da qui in avanti è mia intenzione scegliere tra tutte le domestiche che hanno prestato servizio in casa di Chikura Raikichi – dai tempi di Tantakabayashi, nel villaggio di Sumiyoshi, fino all’epoca del trasferimento nell’attuale abitazione di Narusawa – quelle che per un motivo o per l’altro hanno lasciato un’impressione vivida e indimenticabile. Mi piacerebbe menzionarle una a una e mettere su carta i ricordi che ho di loro. Farò il possibile per descriverle con cura e dovizia di dettagli ma, dal momento che il mio scopo principale è scrivere un romanzo, temo che potrei finire col ricamarci sopra oltre il dovuto. Vi prego di tenere bene a mente questa mia precisazione, è importante. Non bisogna prendere per veri tutti gli eventi che citerò fino alla fine della storia, sarebbe un affronto terribile nei confronti di Raikichi e delle altre persone di cui parlerò da qui in poi.

Poc’anzi ho lasciato intendere che Raikichi e Sanko fissarono la loro prima dimora a Tantakabayashi, ma in realtà avevano convissuto in segreto già in precedenza, dalle parti di Ashiya, con un nome falso alla porta. Tuttavia questo è un dettaglio che non ha niente a che fare con il mio racconto, per cui mi sembra inutile insistere oltre. C’era della servitù anche nella casa di Ashiya, ma la prima domestica a essere assunta a Tantakabayashi, dopo la decisione della coppia di rendere pubblica l’unione, fu una ragazza della prefettura di Kagoshima che rispondeva al nome di Hatsu, scritto con il carattere cinese che significa «inizio». Pertanto, credo non ci sia niente di meglio che iniziare questa storia parlando di lei.

Raikichi non ha mai messo piede in vita sua a Kagoshima e sa poco o nulla sulla città e sull’omonima prefettura. Tutti gli anni, nella stagione in cui i tifoni si abbattono sul Kyūshū, la cittadina di Makurazaki sale quasi sempre alla ribalta delle cronache. Se si prova a dare un’occhiata alla carta geografica della regione, si noterà che Makurazaki è situata a sud-ovest di Kagoshima, in prossimità della punta meridionale dell’isola del Kyūshū, dove è facile immaginare la presenza di un imponente faro. Hatsu è nata proprio lì, poco oltre i confini di Makurazaki, nel remoto villaggio di pescatori di Tomari, a Nishiminamikata (odierna città di Bōnotsu), distretto di Kawanabe. La sua famiglia viveva dei prodotti della terra e della pesca.

Arrivò in casa Chikura nell’estate del 1936. Due ragazze, Haru e Mitsu, erano a servizio già da diverso tempo, ma si decise che era giunto il momento di assumere una terza persona. Hatsu godeva della raccomandazione di una cara amica di Sanko, moglie di un dentista. Aveva vent’anni e aveva lavorato per brevi periodi presso due o tre famiglie di Kōbe. «Hatsu» non era il suo vero nome, all’anagrafe si chiamava Sakihana Wakae. Nella casa natale di Sanko, una delle più note e antiche di Ōsaka, vigeva l’abitudine di dare un «nome d’arte» al personale di servizio, poiché l’utilizzo del nome di nascita era considerato offensivo nei confronti della famiglia d’origine. Quando la nuova ragazza arrivò, si discusse come al solito tutti insieme riguardo al nome da darle: «Sì, sì, Hatsu andrà benissimo!»

Non so di preciso per quanto tempo fosse stata a servizio a Kōbe, ma quando si presentò dai Chikura era una ragazza molto candida e innocente. Nel porgere il suo saluto a Sanko e alle altre donne di casa, si prostrò in terra e chinò il capo fino a sfiorare l’assito del pavimento.

«Dove lavoravi a Kōbe, prima di venire qui?» le chiese Sanko.

«Dalle parti di Nunobiki, signora.»

«E per quanto tempo?»

«Due settimane, signora.»

«Come mai per così poco? Forse il padrone di casa ti ha mandata via?»

«Nossignora» rispose Hatsu, abbozzando un mezzo sorriso, «le cose non stanno così.»

«Allora sei stata tu ad andartene?»

«Sissignora.»

«Per quale motivo?»

Hatsu sorrise di nuovo e non rispose. Al che Sanko e le altre conclusero che non fosse niente di importante e non insistettero. Ma qualche giorno dopo, una delle domestiche, Haru, andò da Sanko e dalla sorella e riferì di aver saputo la ragione per la quale Hatsu aveva lasciato il precedente impiego a Kōbe. A quanto pareva, il padrone di casa aveva tentato di allungare le mani e lei era scappata.

«Davvero?» esclamò Sanko, voltandosi d’istinto verso la sorella. «Quella ragazza?»

Hatsu era tutt’altro che una donna appariscente, era impossibile affermare che fosse carina, anche se solo per semplice gentilezza. Del resto lei stessa ne era ben consapevole. Una volta raccontò che, nella casa dove prestava servizio prima di quella di Nunobiki, il figlio del padrone la tormentava di continuo a causa del suo aspetto. «Con quel naso piatto e schiacciato che ti ritrovi» le diceva spesso «potresti sbattere la faccia a terra e nemmeno ti si graffierebbe!» La prendeva in giro con un accanimento tale da spingerla sull’orlo di una crisi di nervi.

Un giorno, poco dopo essere giunta in casa Chikura, uscì di corsa dalla cucina e fece irruzione nel salotto urlando: «Signora padrona! Signora padrona! È tutto vero!» Al pari del resto della servitù, e più o meno fino alla fine della guerra, Hatsu si rivolgeva a Sanko utilizzando quell’espressione obsoleta ma ancora in uso a Ōsaka.

«Che cosa è vero?» le chiese allarmata Sanko.

«Quello che mi diceva quel ragazzino!» rispose lei, tenendosi le guance tra le mani. «Aveva ragione!»

Era scivolata sul pavimento in terra battuta della cucina ed era caduta a faccia in giù, procurandosi delle escoriazioni sulle guance e neanche un graffio sul naso. Al che si era precipitata dalla padrona di casa per riferirglielo, come se si trattasse di un’immane sciagura.

Tutto questo mi porta alla mente Via col vento e la cameriera di colore interpretata da Hattie McDaniel, anche se il film fu proiettato in Giappone solo diversi anni dopo la guerra. La figlia di Sanko, Mutsuko, diceva spesso che tutte le volte che le capitava di vedere un’immagine di Hattie McDaniel, il viso di Hatsu si sovrapponeva come per magia a quello dell’attrice afroamericana, come una fotografia a doppia esposizione.