Capitolo 31

«Il sommergibile è intero».

Divier, avvolto in un grande asciugamano e con una coperta pesante sulle spalle, sorseggiava un caffè caldo. Tremava come una foglia. Italo era in piedi davanti a lui, Bruno lo guardava negli occhi sfuggenti.

«Questo lo sapevamo, ce l'aveva detto Anteo. Che è successo?»

«Siamo scesi regolarmente. Le luci sono deboli, ma bastano per vedere e lavorare, grazie all'acqua chiarissima. Anteo non sembrava soffrire. Ci siamo posati sul fondo, lui mi ha fatto cenno di aspettare. Mi sono girato e l'ho visto annuire: mi pareva di vederlo addirittura sorridere, dietro il vetro. Ci siamo avvicinati al relitto. È intatto. Da un oblò si scorge l'interno. Ci sono i corpi».

«Dicci che cosa è successo».

«Stavo per accendere la torcia all'acetilene. Ma Anteo non si avvicinava. Mi sono girato e l'ho visto. Era come se... penzolasse». Italo si rialzò di scatto.

«Ha avuto il colpo decisivo; il suo cuore non ha retto. Non dovevamo mandarlo giù».

«L'ha voluto lui«.

«È finita, dobbiamo tornare indietro».

«Non possiamo! Abbiamo promesso».

«Anteo è morto. Vallo a spiegare ai carabinieri, com'è successo. E poi nessuno di noi può scendere. E non mi fido di nessun altro».

Bruno, mentre i vecchi marinai parlavano, si era spogliato ed era rimasto in maglietta e mutande. Faceva fresco, ma poteva resistere. Aveva sentito quel che gli serviva sapere, e ora doveva agire.

Prese un marinaio per un braccio e lo costrinse a dargli una mano nell'indossare lo scafandro di Anteo. Gli altri se ne accorsero quando aveva già le gambe dentro la tuta.

«Scenderò io».

Italo sembrava una montagna, davanti a lui.

«Non mi faccia incazzare, colonnello».

«Ce la posso fare. Assisterò Divier mentre apre quella scatola di sardine, giù in fondo. Terrò i sacchi, ho esperienza, ve l'ho già detto».

«Esperienza del 1939» commentò beffardo Italo.

«Perché, la vostra è più recente? Ho motivo di dubitarne».

«Ci siamo allenati».

Bruno indicò il corpo di Anteo, disteso sotto una coperta.

«Siete morti. Io ho dieci anni meno di voi. Fatemi scendere».

Italo si accovacciò davanti a lui, e avvicinò il volto fino quasi a sfiorare il suo. Bruno sentì odore di tabacco.

«Vuole andare davvero? Vuole aiutarci? È lei che ce lo chiede?»

Bruno capì.

«Non vi basta la morte di Anteo, per dire di averci provato e avere la coscienza a posto? Fatemi scendere subito».

Finirono di vestirlo. Anche Divier, bianco di paura, era di nuovo dentro la tuta; ora gli stavano avvitando l'elmo.

«Respiri piano» si raccomandò Italo. «Scenda lentamente, tenendosi al cavo, un metro dopo l'altro».

«Va bene».

Ma nessuno poteva più sentirlo. A Bruno parve di soffocare, quando gli serrarono l'elmo di bronzo. Lo salvò dal panico una strana sensazione: ogni rumore si era spento. Era solo, dentro un guscio, con una visibilità limitatissima. Eppure quell'armamentario era come una specie di protezione. Sentì il soffio dell'aria compressa, dolce come una carezza fresca. Provò anche una specie di tremito, ma si rese conto che era la vibrazione delle macchine, trasmessa alla tuta attraverso il cavo. Sentì che le membra gli obbedivano, provò a muovere le mani, poi le braccia e le gambe. Era accanto a Divier, sul ponte. Si sedette sulla murata e gli tornarono in mente, in modo quasi miracoloso, gli insegnamenti ricevuti a Pratica di Mare trent'anni prima: aveva mentito, si era immerso solo una volta. Ma sperò che quella lontanissima esperienza gli fosse bastata. Vide, girando appena e con fatica la testa, che Divier si stava già calando in acqua, seguendo una precisa tecnica, che anche lui ricordava. Fece altrettanto.

Quando immerse le gambe nell'acqua, il freddo, nonostante la tuta spessa di gomma, si comunicò alla pelle, e il mare lo strinse come un mostro marino deciso a stritolarlo. Trattenne il fiato e chiuse gli occhi. Lo calarono completamente. Sentì la potente spinta del galleggiamento e i pesi che combattevano per tirarlo verso il basso. Aprì gli occhi: la debole luce rischiarava una nebbia piena di pulviscolo e di minute bollicine. Il mare lo afferrava e lo teneva stretto. Era difficile respirare. Il cuore gli batteva veloce. Poi ci fu un potente risucchio e fu sotto.

Silenzio, tranne il soffio dell'aria e quella rassicurante vibrazione che dalla tuta si propagava in tutto il corpo.

L'acqua era verde scura, poi divenne subito nera. Non vide pesci, né altre forme di vita; solo pulviscolo, esaltato dal cono di luce della torcia. La sensazione del mare che lo stritolava diminuiva metro dopo metro, mentre li calavano sul fondo. Toccò con i piedi la sabbia, con una vibrazione quasi infrasonica, poi vide lampeggiare la torcia di Divier, che lo invitava a seguirlo. Obbedì, un passo dopo l'altro, seguendo il bagliore. Finalmente vide il relitto, davanti a sé. Non era in realtà una visione normale: poteva solo distinguere come una differenza di densità tra l'acqua e la massa che era per metà sommersa dalla sabbia. Solo quando furono vicinissimi, e Divier puntò la torcia verso il sommergibile, Bruno poté dire di averlo visto sul serio. Era molto più piccolo di come lo aveva immaginato: davvero una scatoletta nera, incrostata di concrezioni bianche. Ma dal fondo spuntava, intatta, metà di un oblò di vetro, che qualcuno aveva già pulito.

Divier adesso armeggiava con la lancia all'acetilene. Bruno si avvicinò, ma il ragazzo gli fece capire di stare a distanza. Vide che apriva una specie di rubinetto, e dalla lunga asta doppia, ricurva in cima, esplose una miriade di bollicine, che risalirono frenetiche verso la superficie. Il ragazzo esitava, Arcieri capì che aveva di nuovo paura. Doveva fermarlo: la vista del sommergibile, miracolosamente intatto, gli aveva suscitato un'idea folle. Ma gli serviva tempo, per verificare quel che aveva capito, o creduto di capire. Si avvicinò, passo dopo passo, sollevando la polvere fitta del fondo, e quando fu accanto al ragazzo gli tirò giù la canna dell'acetilene e le bollicine cessarono. Divier rimase imbambolato, mentre lui girava intorno al relitto, dava dei colpi sulle lamiere, e poi, con uno sforzo, ci saliva sopra, per controllare la minuscola torretta, chiusa ermeticamente. Nessuna falla, nessuna apertura. Tutto sigillato, dal 1943.

Divier riuscì a farsi forza e aprì di nuovo i rubinetti della lancia termica. Bruno vide una scintilla e, subito dopo, una palla di fuoco giallo delle dimensioni di un'arancia. Tutto intorno l'acqua era sconvolta dalle bolle. Ma Divier esitò di nuovo. Aveva appena avvicinato la fiamma alla lamiera che la ritirò e spense l'apparecchio. Bruno lo guardò, con una domanda muta. Il giovane scuoteva il capo, con un movimento quasi ipnotico. Quando riuscì a puntargli la torcia sul viso, al di là del vetro, Bruno vide gli occhi di Divier spalancati su un terrore senza nome. Allora gli prese la lancia termica: sapeva come si azionava e ripeté le sue mosse. Di nuovo il globo di fuoco. Lo puntò contro la lamiera e lo tenne fermo.

Si produsse velocemente un foro. Bruno aspettò un risucchio, il collasso della struttura, ma non successe niente: l'acqua si era infiltrata da tempo all'interno della grande bara di metallo, e la pressione era compensata. Divier sembrava aver riacquistato lucidità: riprese la lancia termica e stavolta riuscì a tenerla ben ferma. Bruno vide che ignorava il foro già prodotto e spostava il getto di fuoco verso la minuscola torretta. Lavorò per cinque minuti, poi spense la lancia e comunicò con il cavo, a quelli che erano in superficie, di tirarli su.

La risalita fu lenta e tediosa.