Bruno guidava nel traffico dei nottambuli che ingorgavano i viali a mare. Le luci dei fari e le insegne dei negozi gli suscitavano un piacevole stato quasi allucinatorio. Ma aveva bisogno di spingere sul pedale dell'acceleratore, uscire dalla folla e spalancare i finestrini.
Prese una via poco frequentata, che risaliva una stretta valle nel bosco. Guidò a velocità più alta del consentito, stretto tra il fianco verde della montagna, bello e sinistro, e una profonda scarpata. L'ampia spiaggia con gli ombrelloni, lasciata da pochi chilometri, sembrava appartenere a un mondo remoto. A ogni curva intravedeva, lontano, uno spicchio di mare lucente sotto la luna. La Giulia rombava aggressiva, affrontando in terza gli stretti tornanti. I fari sciabolavano nel buio, le gomme fischiavano a ogni curva. Senza rendersene pienamente conto stava andando a Sant'Anna, il luogo dell'eccidio nazista del 1944. L'aveva visitato pochi giorni dopo gli eventi ed era rimasto uno fra i ricordi più aspri della sua vita.
Notò i grandi fari nello specchietto quando aveva già sbollito la rabbia che lo aveva spinto a quella corsa notturna. Aveva un'auto incollata dietro, con gli abbaglianti accesi. Guardò il tachimetro: stava andando a oltre ottanta chilometri l'ora ed era già una velocità folle su quella strada di montagna. Chi lo seguiva doveva essere pazzo, se intendeva superarlo. Rallentò, ma l'altra macchina fece lo stesso. Bruno pensò ai giovani imbecilli, figli dei ricchi villeggianti, che si rincorrevano sulle strade provinciali in gare criminali.
Mise la mano fuori del finestrino e invitò il guidatore a sorpassarlo. Ma la macchina continuava a tenere gli abbaglianti e pareva non voler mollare la presa. Allora ingranò la seconda e accelerò, cercando una piazzola dove fermarsi per lasciar passare il giovane balordo, Ma la strada era molto stretta e non poteva fare altro che proseguire. Nel buio non si orientava bene, tuttavia pensò di essere ormai vicino a Sant'Anna: oltre il sacrario non si poteva andare e quella corsa idiota avrebbe avuto termine. Si immaginò un ventenne con accanto una biondina tremante ed eccitata come una gatta. Affrontò uno degli ultimi tornanti, alto sul baratro della valle profonda. La luna piena raddoppiava il suo disco sulla lontana superficie del mare. Per un attimo ebbe l'impressione di essere rimasto solo. Ma un momento dopo vide di nuovo i grandi fari bianchi nello specchietto e capì troppo tardi l'intenzione del guidatore. Gli abbaglianti non gli permettevano di distinguerne il volto, ma mentre affrontava la curva successiva, slittando sull'asfalto, gli parve di vedere un uomo solo.
La Giulia fu tamponata per la prima volta proprio sul gomito del tornante, fece un balzo e sbandò paurosamente. Bruno sterzò e insieme accelerò, sperando nella forte ripresa dell'auto. Doveva portarla al massimo della sua potenza. Cercò di dimenticare che aveva superato i sessant'anni ed escluse ogni pensiero che non fosse rivolto alla fuga, concentrandosi solo su strada, volante, acceleratore. Prima di ogni tornante scalare le marce, accelerare con violenza all'inizio della curva, frenare e controsterzare: per fortuna, la Giulia rispondeva. Un secondo urto lo proiettò in avanti, e gli parve che una ruota fosse uscita di strada: la macchina era un tutt'uno coi suoi nervi, le gomme erano i suoi piedi. Non sentiva più nemmeno il rombo del motore, solo una violenta emozione. Avrebbe dovuto allacciarsi la cintura di sicurezza, la Giulia le aveva, ma era in preda a un folle senso di onnipotenza. Un altro colpo; il guidatore, dietro di lui, doveva essere un pilota professionista. Sant'Anna non arrivava mai: alla fine quel sicario sarebbe riuscito a farlo uscire di strada, sulla curva, e la Giulia sarebbe precipitata per oltre cento metri, probabilmente avrebbe preso fuoco. L'avrebbero giudicato un incidente conie tanti. Poi, mentre pensava alla morte, Bruno si accorse che dietro di lui non c'era più nessuno. Rallentò, sicuro di veder spuntare di nuovo, da dietro la curva del tornante, i grandi fari del suo inseguitore. Invece nulla. Guidò ancora a forte velocità, affrontando ogni tornante come fosse a un rally. Si accorse solo dopo un po' che aveva i finestrini aperti, che faceva fresco e che era tutto bagnato di sudore. Rallentò ancora, chiuse i vetri e portò il riscaldamento al massimo.
Il monumento ai martiri di Sant'Anna, alto contro il cielo nero, gli annunciò che era giunto alla fine della corsa. Mise la sicura alle portiere e si fermò nel piazzale deserto. Spense i fari ma lasciò il motore acceso. Cercò la Beretta nella tasca, la estrasse e la posò sul sedile accanto. Aveva il respiro affannato, la camicia incollata alla pelle. Cercò di calmarsi. Forse il sicario lo aspettava in basso, dietro qualche curva. Ma poi scosse il capo: no, sarebbe stato un comportamento senza senso. Rifece la strada già percorsa, lentamente, con le sole luci di posizione accese, affidandosi alla luna e all'istinto: la mano sinistra stretta sulla pistola, la marcia in terza, il piede sul freno. Non c'era più nessuno. Tornò nella città deserta alle quattro del mattino.
Guardò la Giulia, alla luce di uno dei grandi lampioni della piazza: c'erano solo il paraurti posteriore deformato e tracce di vernice bianca; quest'ultime sarebbero state preziose per rintracciare la macchina che voleva spingerlo fuori strada. Stava già pensando di telefonare a Roma, per farsi assistere da qualche amico ed ex collega, quando cambiò improvvisamente idea. Chiuse l'auto e tornò in albergo. Angela non c'era, ma la cosa non gli importava affatto. Prima di andare a letto fece un lungo bagno caldo e rischiò di addormentarsi nella vasca.
La voce di Sandro Lazzeri, al telefono, sembrava sinceramente meravigliata:
«Non so assolutamente di cosa sta parlando, colonnello».
«Eppure è molto semplice: qualcuno ha pensato che non era il caso di rischiare, con la mia proposta di scambio di informazioni, e che era meglio farmi sparire. Ma gli è andata male, l'incidente non è riuscito».
«Non capisco, colonnello, davvero. Quale incidente?»
«Stanotte mi ha seguito un uomo, con un'auto di grossa cilindrata. Sono andato sui monti. verso Sant'Anna: volevo stare da solo. Gli ho offerto un'occasione d'oro: una strada pericolosa, con una bella scarpata, senza testimoni. Ma gli sono sfuggito».
«Se lei crede che c'entriamo noi, si sbaglia».
«Non penso che ci siano altri, interessati a far fuori un pensionato».
Mentre lo diceva, Arcieri si rese conto che non era affatto vero: in quasi trent'anni di carriera nei Servizi aveva accumulato una rispettabile quantità di nemici personali, e d'altra parte era depositario di segreti scomodi sia per gli avversari che per gli stessi suoi colleghi di lavoro. Ma sarebbe stata una combinazione singolare, incontrare proprio quella notte un vecchio nemico. La logica era dalla sua parte: Luca Bianchi aveva paura di ciò che avrebbe potuto fare coi documenti che lo riguardavano. Così aveva cercato di farlo sparire. Oppure, anche se sarebbe stata una mossa quantomeno ingenua, pensava di averlo spaventato. Sandro Lazzeri, dall'altra parte della linea telefonica, sembrava molto nervoso:
«D'altra parte, se crede che il suo incidente di stanotte sia stato provocato dal signor Bianchi, si rivolga alla polizia, o ai carabinieri».
«È proprio quello che dovrei fare. Ma sono sicuro, in questo modo, che poi non potremmo concludere il nostro affare».
«Quindi resta inteso...»
«Niente affatto. L'episodio di stanotte cambia completamente le condizioni del nostro accordo. Non penserà che venga con lei o con qualcun altro nei boschi per farmi ammazzare a bastonate?»
«Il signor Bianchi può fornirle il materiale di interesse storico nei modi concordati e lei potrà portare con sé chi vuole...»
«Il suo padrone discuterà personalmente con me le nuove condizioni».
Lazzeri rimase per un attimo in silenzio. Arcieri sentiva il suo respiro.
«Non è possibile, gliel'ho già detto».
«Dopo stanotte, le condizioni le detto io».
«Non siamo responsabili di alcun disagio che lei abbia dovuto patire, colonnello...»
Bruno si infuriò. Sentì le vene del collo che gli battevano e fu sicuro di avere il viso color porpora.
«Ora basta, perdio. con questo linguaggio da direttore di banca! Voglio parlare con quella carogna assassina di Ferdinando Albizi».
«Non so chi sia».
«Ho detto basta!» Arcieri ringhiava, al telefono. «Se lei lo conosce solo come Luca Bianchi, allora va bene: voglio parlare con quella carogna assassina di Luca Bianchi».
«Non è possibile, per ragioni di sicurezza».
«Io sono un colonnello del SIFAR a riposo, non un sicario. Inoltre i reati di cui si è macchiato il suo padrone sono stati cancellati nel '45 dall'amnistia Togliatti. Faceva il delatore, vendeva gli ebrei ai tedeschi. Poi è stato tanto abile da farsi cambiare identità, ma le sue vittime l'hanno scoperto. Senza con questo poterlo portare in tribunale».
«Il signor Bianchi non ha nulla a che fare con storie simili. Non teme affatto che lei voglia farle del male, la conosce bene, quantomeno di fama. Ma non può incontrarla personalmente».
«Oh, lo farà invece. Stia tranquillo, Lazzeri, che quello schifoso di Ferdinando Albizi dovrà sostenere il mio sguardo, e molto presto». Riattaccò la cornetta, senza aspettare una risposta.
Bruno era nella sala da pranzo dell'albergo e faceva colazione. Sapeva di aver parlato senza riflettere. Non era semplice stanare Ferdinando Albizi. Perché quell'uomo aveva così paura di incontrarlo? Temeva davvero, dopo tanti anni, di essere raggiunto dalla vendetta delle sue vittime? No, doveva avere dell'altro sulla coscienza. Ma di qualsiasi cosa fosse responsabile, a lui importava solo trovare la sepoltura dei Levi.
Angela lo raggiunse al tavolo. Era trafelata e ansiosa, ma non aveva bevuto. Si era pettinata e truccata, voleva atteggiarsi a mogliettina premurosa.
«Che cosa è successo stanotte?»
«Ho fatto un giro con la Giulia».
«Dove sei stato?»
«Su, verso Sant'Anna. Conosci il posto, no?»
«Quello della strage, certo. Ma che ti è preso per andarci a quell'ora, da solo?»
«Fantasmi del passato».
«Qualcosa che aveva a che fare con la telefonata che avevi appena ricevuto?»
«Non credevo che mi spiassi».
«Ero preoccupata per te. E, senti. Bruno, io... Lo so che ho fatto male a farti vedere quelle cose di Tom».
«Riguardano solo lui. Gli consiglierò un buon medico per disintossicarsi, ma non ce lo porterò di peso».
«L'ho fatto per cattiveria. In un certo senso ero gelosa, volevo farti vedere che Tom non è la tua giovinezza dorata che è tornata a farti visita».
Bruno posò la tazzina del caffè e guardò Angela negli occhi: con severità, ma senza astio.
«Non ho avuto una giovinezza dorata e ovviamente Tom non c'entra nulla col mio passato. L'ho creduto, all'inizio, subito dopo avervi incontrati. Ma poi, sentendolo suonare, ho capito che rappresenta molto di più dell'illusione di poter tornare indietro nel tempo. Conta solo la sua musica, e quella l'abbiamo recuperata. Al jazz non importa lo scorrere degli anni, con gli uomini che invecchiano, si ammalano e muoiono. La memoria dell'arte di Tom è salva e questo è il massimo che potessi mai sognare di ottenere». Angela chinò il capo, ma Bruno le sollevò il mento e la guardò di nuovo negli occhi. «Cosa vuoi che importino quattro bustine di eroina? Tom non è stato certo il primo musicista a cadere in quel vizio. E anche tu dovresti bere un po' meno».
Angela girò il capo per sfuggire allo sguardo di Bruno.
«Ho visto il paraurti della Giulia, che cosa ti è successo?»
«Un piccolo incidente».
«Che naturalmente hai avuto stanotte, dopo quella strana telefonata. Chi hai incontrato? Che cosa succede?»
«Lo chiedi come se fossi davvero preoccupata per me».
«Non ho il diritto di esserlo, immagino. Ma mi importa ugualmente. Senti, ieri ho davvero ascoltato un po' la tua telefonata. Ero scesa per chiederti di salire in camera, volevo fare l'amore».
«Che cosa hai sentito?»
«Che ti vogliono portare nei boschi, per trovare una vecchia fossa... In che pasticcio ti stai cacciando?»
«Non ti riguarda. Ascoltami tu, adesso: non so che cosa tu abbia capito, ma stanne fuori, d'accordo?»
«Va bene, Bruno, non ti arrabbiare. Mi porti a pranzo da qualche parte?»
«Perché no?»
Mangiarono in una trattoria fuori città, fra villeggianti e turisti. Fritto di mare, odore di caffè bruciato, grida di ragazzini.
«Ho visto le lettere di Elena, la tua ragazza».
Bruno non la voleva prendere a schiaffi, ma Angela sembrava proprio chiederglielo.
«Chi ti ha dato il permesso di metterci le mani? Se vuoi farmi perdere davvero la pazienza, ci stai riuscendo molto bene».
«Le hai lasciate in quella scatola da scarpe, senza il coperchio. Ne ho lette solo alcune. Sono molto vecchie, molto tristi».
«È una specie di brutto romanzo d'amore. A volte commovente, a volte insopportabile. Comunque non avresti dovuto farlo».
«Mi perdoni?»
Bruno pensò alla busta con i documenti di Augusta Levi, che erano al sicuro. Delle altre lettere, in effetti, si era quasi dimenticato. «Ma sì. Andiamo a fare due passi».
Invece Angela riuscì a riportarlo in albergo, a spogliarlo e a farlo entrare nel letto. Rimasero in camera tutto il pomeriggio. Bruno fumò troppe sigarette e restò a lungo affacciato alla finestra spalancata, nudo come quando aveva vent'anni, a guardare il sole che tramontava sul mare. Pensava a come stanare Ferdinando Albizi: aveva assoluto bisogno di vederlo in faccia. Pensava ai tre bambini dei Levi, che giocavano spensierati fra la pineta e la spiaggia. Pensava a Elena Contini in abito da sera, uno di quelli attillati, a sirena, lucido e brillante. La vedeva danzare con lui in un salotto aristocratico del centro di Firenze, al ritmo di I Can't Give You Anything But Love, nella versione dell'orchestra di Benny Goodman. Non era un'immagine casuale, ma il ricordo preciso di una festa aristocratica di trent'anni prima. E fu quel ricordo a fargli finalmente venire un'idea, mentre il cielo iniziava a tingersi di rosa: avrebbe telefonato a qualcuno, a Firenze, l'indomani mattina. Per primo a un simpatico commissario di polizia che l'aveva aiutato, a novembre: un tipo capace di trovare informazioni anche con metodi assai poco ortodossi.
Si fecero portare la cena in camera, come una coppia in viaggio di nozze. Più tardi Bruno si sedette sulla sponda del letto e carezzò a lungo i capelli di Angela.
«Conosci una certa Rosa Nelli?»
«No, chi è?»
«La vedova di un marinaio. Sta insieme ad altre donne, sul pontile, e guarda il mare».
«Molto romantico. Dovrei conoscerla?»
«Tom mi ha fatto capire di sì».
«Allora avrai chiesto a questa Rosa Nelli».
«Nemmeno lei ti conosce, così almeno mi ha detto». Angela lo tirò a sé e Bruno la lasciò fare.
«Tom sta male, vuole solo staccarti da me. Lui non può...»
«Che cosa?»
«Lascia perdere».
Angela lo baciò e lo strinse più forte che poté, perché non volasse via, come se fosse l'ultima volta che faceva l'amore in vita sua.