Capitolo 18

Il locale del centro dove Arcieri e Barbagli erano andati a cena, risuonava di pessima musica. Tenorelli senza fiato cercavano di bucare con i loro gorgheggi l'assordante brusio dei turisti americani e tedeschi. Barbagli mangiava una fiorentina passabile, Arcieri fumava una sigaretta tra un boccone e l'altro.

«Poi ho saputo che Albizi c'era eccome, a Radio Tevere» disse.

«Non l'avevo affatto escluso, colonnello: le ho solo detto che ci sono andato poche volte, in via Ripamonti».

«Sembra proprio che nessuno di voi voglia ammettere di aver lavorato a quella radio. Oppure, se diventa impossibile negarlo, tentate di minimizzare. Che lei fosse stato un agente segreto fascista lo sapevo da un pezzo. Cos'altro mi nasconde?»

«Niente. Non ho venduto ebrei ai tedeschi, non ho avuto nulla a che fare con i crimini di quegli anni feroci. Certo, moralmente ne sono responsabile anch'io, perché combattevo dalla loro parte. Però mi sono sempre tenuto alla larga da quelli come Albizi. D'altronde gli stupefacenti non mi interessavano affatto».

«Albizi usava le droghe come merce di scambio?»

Barbagli annuì.

«Tra le altre cose. Con le sue cartine avvelenava lentamente le sue vittime, e quando prendevano il vizio, ce le aveva in pugno. Lo faceva anche prima della guerra, mi dicevano. Frequentava tutti i salotti, conosceva la bella gente. La sua specialità era trasformare i cocainomani in morfinomani, più facili da manovrare».

«Cos'ha fatto Albizi, subito dopo la guerra?»

Barbagli schiacciò la sua sigaretta nel portacenere e sorrise.

«È morto, come sappiamo».

«Potrebbe aver utilizzato qualche organizzazione per cambiare nome o andare all'estero» osservò Arcieri, che intanto aveva finito la sua bistecca e cercava di richiamare l'attenzione del cameriere. «Come del resto ha lasciato intendere stamani proprio lei».

«Può essere».

«E magari lei sospetta fortemente che sia così, perché sa di quali segreti fosse al corrente Albizi e come avrebbe potuto farne uso. Però ora non ne vuol parlare con me».

«Quando si ha in pugno gente di potere, colonnello, possono succedere solo due cose: si può morire all'improvviso per uno strano incidente, oppure, se si è molto abili, si può ottenere tutto ciò che si desidera. O nero o bianco, o morte o vita. Stando alle voci dell'epoca, Ferdinando Albizi era stato sfortunato, oppure sciocco, ed era incappato nel primo dei due destini».

«Facciamo invece l'ipotesi che Albizi, al contrario, si sia salvato e abbia e cambiato nome grazie a un cadavere sconosciuto».

Barbagli alzò le mani.

«Protezioni nei Servizi. Questo è un peccato di casa sua, colonnello».

«Ammettiamo pure che Albizi sia stato aiutato da qualcuno che ha abusato del suo potere per fini personali o per conto terzi. E che la merce di scambio fosse qualcosa di veramente cospicuo».

«Io non so niente di preciso, colonnello. Però la sua esperienza dovrebbe insegnarle che raramente i tipi come Albizi agivano da soli. Avevano spesso dei complici, che tenevano al guinzaglio con la solita arma, quella del ricatto».

Il cameriere portò il gelato per tutti e due. Arcieri aspettò che se ne fosse andato, per continuare.

«Giusto. Poniamo che Albizi e il suo complice, nel '45, abbiano scoperto qualcosa di grosso. Vede, Barbagli, io ho poche carte da giocare per risolvere un certo mistero. Ho degli ebrei assassinati dai suoi ex amici nazisti, grazie a una delazione di Albizi. Ho una cantante sfiatata legata a un vecchio jazzista, forse morfinomane e forse no, che suonava a Radio Tevere. La cantante è a sua volta legata a un relitto, probabilmente quello di un sommergibile tascabile salpato da la Spezia nel 1943. E il relitto è connesso a un ammiraglio morto in uno strano incidente».

Barbagli sogghignò.

«Allora ha già tutto in mano, non ha bisogno di me. Le basterà stabilire di che natura sono questi collegamenti. D'altronde anche lei, giustamente, mi tiene all'oscuro di informazioni essenziali».

Arcieri allargò le braccia.

«Il gioco è questo. Barbagli. Non posso dirle niente, ma chiedo lo stesso il suo aiuto».

«E avendomi permesso, il novembre scorso, di mantenere il riserbo sul mio passato a Salò, adesso mi presenta il conto».

«Lei sa di Albizi, perché in quegli anni lavorava nei servizi segreti della Repubblica Sociale. Non posso rivolgermi ad altri. Ma non è come dice. Il suo conto, se mai c'è stato, l'ha pagato quando mi ha permesso di arrivare a Casini. Lei non ha alcun obbligo nei miei confronti».

«Bel modo di porre la cosa, colonnello: non ho alcun obbligo formale, ma sono in debito morale. Non mi lascia scelta».

«Anche per me è stato così. Le ho detto poco fa di ebrei assassinati per una delazione di Albizi. Sono stato coinvolto in una storia terribile grazie proprio a un obbligo che riguarda loro».

«Che tipo di obbligo, se posso permettermi?»

«Di natura etica, diciamo così».

«Curiosa espressione. ma adatta a lei».

«È l'unica giusta».

Arcieri raccontò a Barbagli, omettendo alcuni elementi chiave, la storia dei tre bambini Levi e del loro padre, rifugiati in una casa nei boschi e barbaramente uccisi. Barbagli ascoltò, apparentemente impassibile, ma non toccò neppure il caffè che il cameriere gli aveva portato e lasciò che la sua sigaretta si consumasse completamente, abbandonata nel posacenere.

«Sapevamo che accadevano queste cose, colonnello, e non potrò mai perdonarmi di non aver cercato di impedirle. Non ho alcuna giustificazione: nemmeno la scusa di aver voluto salvare la pelle, perché della mia vita non mi importava più. Ho combattuto fino all'ultimo con le armi che mi erano più congeniali, voltando il viso dall'altra parte. Sono colpevole come Albizi».

«No, non è così. Non si possono appiattire tutte le responsabilità, è troppo comodo. Tutti colpevoli come Albizi significa che nessuno è colpevole: non si possono processare venti milioni di italiani. Ci sono vari gradi di responsabilità, dagli impiegati delle Case del Fascio fino ai gerarchi del Gran Consiglio. Ed è giusto che i peggiori paghino».

«Io a che livello sto, nella sua scala di disvalore?»

«A un gradino non troppo basso, Barbagli, non si illuda. Lei usava gli strumenti della propaganda, che sono fra i più nefasti. Ma nei momenti cruciali ha saputo scegliere».

«Le ricordo che ho combattuto per il Duce fino all'ultimo giorno».

«Certo, ma ha scelto di non degradarsi completamente. Però adesso mi dica qual è il segreto di Albizi, gli elementi di base glieli ho dati tutti».

«D'accordo. Dove si nasconde?»

«In una villa bunker sulle Apuane».

«Che identità ha assunto?»

«Sorvoliamo».

«Dov'è il relitto?»

«Al largo. Tracciando una linea ideale dal mare ai monti, si trova più o meno all'altezza della villa».

«Perfetto. Allora era proprio vero quel che dicevano, cioè che Albizi viveva lì per tenerlo sotto controllo. Avrei dovuto capirlo già a quel tempo, che non poteva lasciare l'Italia con una cosa tanto importante per le mani».

«Che cosa c'è nel relitto?»

«Denaro, moltissimo denaro, ma non so in quale forma. E non mi chieda la sua origine e dove lo portassero, perché non lo so davvero e ancora mi domando come mai il sottomarino fu lasciato lì, quando lo affondarono».

«Dunque Albizi, nell'immediato dopoguerra, ha venduto il tesoro del sottomarino in cambio della sua vita. Chi era il suo complice?»

«Chi lo sa, colonnello? Ma non lo cerchi fra i suoi musicisti, i sopravvissuti di Radio Tevere, perderebbe tempo. Il complice di Albizi era un uomo o una donna con del potere, in un ambiente diverso dal suo ma confinante».

«Si spieghi meglio, non faccia il misterioso».

«Guardi che non sto affatto giocando a dire e non dire: ignoro davvero chi fosse il complice di Albizi. Ma c'era senz'altro qualcuno che faceva da tramite tra lui e le SS. Albizi non poteva rischiare di scoprirsi completamente. Gli ebrei facoltosi che non potevano più scappare in Svizzera erano certamente delle vittime, ma nonostante tutto avevano una notevole rete di protezione, almeno in Italia. Albizi poteva essere colpito, se le sue responsabilità nella delazione degli ebrei fossero state chiare e inequivocabili».

«Ho parlato con un chitarrista, questo pomeriggio, che sapeva che Albizi faceva la spia per i tedeschi».

«Certo, tutti sapevano che era sul loro libro paga. È paradossale, ma a suo modo era una copertura. Quando però Albizi individuava i rifugi degli ebrei ricchi e li consegnava alle SS, non poteva assolutamente scoprirsi. Doveva depistare, e per questo usava certamente un complice, che faceva in modo, magari sacrificando personaggi minori, che lui non fosse collegato direttamente agli arresti».

«Ho trovato documenti che testimoniano come già nell'immediato dopoguerra i partigiani, e non solo loro, fossero a conoscenza delle sue attività».

«Si sbaglia, colonnello. Anch'io ero ricercato e cercavo di scappare, vivendo alla giornata ed elemosinando aiuti dappertutto. So bene come andavano le cose. Albizi era probabilmente sospettato di essere una spia. Ma non credo proprio che il CLN avesse capito che era proprio lui, il misterioso personaggio che individuava i nascondigli degli ebrei facoltosi».