Il treno cullava Bruno Arcieri con un ritmo rassicurante. Si era ritirato a dicembre, con il grado di colonnello dei carabinieri. Aveva temuto di non reggere al cambiamento di abitudini, invece si era adattato benissimo alla nuova situazione e si sentiva pieno di forze, quasi ringiovanito. Era come se si fosse liberato di qualcosa di pesante e sinistro per riprendere la vita nelle sue mani. Quando dal finestrino vide scorrere una striscia di mare, cominciò a preparare le sue cose. Ripiegò accuratamente il Corriere, che in tutto il viaggio da Roma aveva solo sfogliato, si alzò in piedi e lo infilò nella vecchia valigia di pelle marrone, appoggiata sulla retina portabagagli. Urtò leggermente il ginocchio della passeggera seduta davanti a lui e si scusò, sorridendo. La donna, sulla quarantina e molto bella, sorrise a sua volta, forse appena un po' più a lungo del necessario. Arcieri aveva passato i sessant'anni, ma era alto e asciutto e ne dimostrava parecchi di meno. Aveva ancora i capelli neri e lisci pettinati all'indietro, e portava il cappello floscio in estate e in inverno, alla moda di trent'anni prima.
Scese alla stazione con molti altri villeggianti. Fu un'impresa trovare un taxi che lo portasse alla chiesa in tempo per la funzione. Era in grave ritardo, forse non avrebbe trovato più nessuno ad attenderlo. Finalmente riuscì a conquistare una macchina. L'autista era un giovanotto dalla faccia scura e cattiva, che biascicò un saluto e quasi gli strappò di mano la valigia, per infilarla nel portabagagli della grossa Fiat bicolore.
Il tassista suonò con rabbia il clacson, per svincolarsi dal traffico, poi cominciò a correre veloce verso il mare. Arcieri era seduto di dietro. Guardava sfilare le case e gli ombrelli verdi dei pini, cercando in lontananza il chiarore del mare. La città non era cambiata granché, dai tempi dei tempi: c'erano più case, con le sgraziate antenne della televisione sui tetti. C'erano le automobili: le Cinquecento, le Seicento, qualche Alfa Romeo, guidate da uomini con la faccia abbronzata. Un tempo per quella strada scendevano solo i taxi e le vetture di lusso dei ricchi villeggianti, dirette ai grandi alberghi.
Al primo incrocio l'autista tirò una bestemmia, si fermò e prese a battere la mano sul clacson. Arcieri mise fuori la testa dal finestrino. C'era un ingorgo, vicino al grande viale a mare.
«Guardi che non ho così fretta».
«Lei magari no, ma io sì. Devo tornare alla stazione, se voglio lavorare».
«Il tassametro gira, no? Non si preoccupi, le darò una mancia; e poi è possibile che abbia ancora bisogno di lei, appena arriviamo alla chiesa».
Pochi minuti dopo la strada era di nuovo libera e il taxi corse senza intoppi fino al mare. Da una strada traversa spuntò all'improvviso una spider bianca, con cinque giovani a bordo, ragazzi e ragazze, che non si curarono dello stop. Il taxi inchiodò e Arcieri si tenne alla maniglia, ma sbatté ugualmente la testa contro il sedile anteriore. L'autista apri il finestrino e urlò una serie di colorite bestemmie, mentre l'altra macchina spariva sul lungomare.
Il taxi girò verso l'interno, inoltrandosi in una rete di strade con villette tutte uguali, e si fermò al semaforo rosso all'imbocco del ponte sul canale più grande. Mentre aspettavano, Arcieri vide un gruppo di donne ferme sulla spalletta, con lo sguardo rivolto al mare. Qualcuna era di mezza età, un paio decisamente vecchie, tutte vestite di nero e con il fazzoletto in capo. Stavano strette una accanto all'altra, come per proteggersi a vicenda. Solo una di loro, più alta e più giovane, aveva un abito rosso e giallo quasi alla moda e un largo cappello di paglia. Venne il verde e il taxi ripartì a razzo. Ad Arcieri rimase negli occhi quel colore vivace in mezzo al nero.
«Che ci fanno, lì, quelle donne? Guardano le barche da diporto?»
«Secondo me, aspettano» rispose l'autista, sbirciando nello specchietto.
«Chi aspettano?»
«Mah, non lo so. Sembra che siano vedove di marinai».
«Pescatori?»
L'autista accelerò, puntando deciso verso il piccolo aeroporto. La chiesa era lì vicina.
«No, pare sia una storia dell'ultima guerra. Roba da vecchi, interessa solo a loro».
Arcieri sorrise tristemente a quella volgarità e si voltò indietro. Le donne erano immobili come statue, nemmeno un soffio di vento smuoveva le loro vesti.
Il taxi giunse alla chiesa appena in tempo perché Bruno Arcieri potesse partecipare al funerale dell'ammiraglio Fedele Argenti.
Quella sera, nella città all'altro capo del litorale, Bruno trovò un tavolino libero al caffè davanti alla fontana. Mise la valigia sulla sedia accanto alla sua e distese il giornale, ma non lesse nemmeno i titoli di testa. Guardava la schiera degli alberghi e ne confrontava il profilo con le memorie di trent'anni prima. Era come se nulla fosse cambiato, nella forma dei palazzi e nel colore delle murature. Anche la gente che passeggiava, sempre più fitta mentre si avvicinavano le undici di sera, sembrava la stessa. Ma i loro volti, contratti in un'allegria forzata, rivelavano un cambiamento epocale, come se gli uomini e le donne di quella città di mare, involgariti e incarogniti, appartenessero a un'umanità antropologicamente diversa: si prendevano quasi a spinte, mentre il viale a mare, col passare dei minuti, diventava affollato come l'interno di un autobus all'ora di punta. Si chiese quale mutazione avesse investito l'umanità, in soli trent'anni, e se lui fosse simile a loro oppure apparisse diverso, come un personaggio in costume uscito da un film d'altri tempi. Si passò la mano sui capelli lisci, che portava ancora incollati al cranio. I capelli di un uomo anziano, all'umbertina, un uomo dell'anteguerra. Eppure non si sentiva tale: aveva ancora la capacità di meravigliarsi e di pensare al futuro senza provare orrore.
La gente si assiepava intorno al caffè e il cameriere lo guardava male, perché si alzasse per lasciare il posto a nuovi clienti. Non sarebbe mai successo, trent'anni prima. Ripiegò il giornale e prese la valigia. Il fiume di gente gli dava un po' di inquietudine, ma si lasciò docilmente trasportare dal flusso. Sembravano un'orda di strani animali incantati, attirati da una musica lontana e misteriosa, qualcosa come una danza di infedeli. Riconobbe le note distorte dall'altoparlante: musica leggera di successo, Mina e I Rokes. Non erano le voci originali, quelle che tutti i juke box urlavano giorno e notte, ma cantanti e musicisti da caffè concerto, poveri artisti che riempivano i buchi tra una stella e l'altra della musica leggera. Udì la voce fuori tono di una donna, sovrastata dal chiasso di un complesso beat. Proveniva da uno degli ultimi caffè, verso il molo. C'era qualcosa di stranamente familiare in quelle note indistinte: un ritmo diverso, un'armonia piacevolmente saltellante. Riuscì a captare solo due parole: Canto... Tanto.
Sentiva le gambe farsi più ansiose di camminare, come se lui fosse davvero una specie diversa, rispetto alla gente sudata che lo circondava, e perciò attratto da un suono alieno. Cercò di prestare più attenzione al balbettio ritmato della donna: Canto... Quel motivetto... Tanto. Aveva ormai riconosciuto la melodia scattante, una canzonetta di successo di quarant'anni prima. Chi mai osava proporre i dolci ritmi jazzati della sua gioventù, accanto ai complessi beat? Non pensò ad altro che a ricostruire le parole di quella canzone: Canto / Quel motivetto che mi piace tanto / E che fa du du, do du... Improvvisamente capì il perché di quell'intrusione della sua giovinezza nell'asfalto polveroso del viale a mare: il merito era della televisione. Un carosello popolare aveva riesumato l'allegro motivo, cambiando le parole, per pubblicizzare qualcosa. Si chiese quale fosse la réclame, poi gli venne a mente il cioccolatino: "che fa du du, du du...". Non era il suo passato che lo chiamava, non esistevano le macchine del tempo.
Era ormai vicino al caffè da cui proveniva la musica e finalmente scorse il piccolo palcoscenico, sopra i cappelli di paglia dei villeggianti nervosi e impazienti. Una donna non più giovane era davanti al microfono, fasciata da un abito da sera liso e fuori moda. Dietro di lei, un'ombra. E da quell'ombra misteriosa proveniva qualcosa che lo incantava. La voce della donna era meno che mediocre, fuori tono e anche fuori tempo. Invece l'accompagnamento della tromba, senza sordina, era tutt'altra cosa. Qualcuno teneva il tempo con una batteria, privo di convinzione. Ma la tromba credeva nelle note che emetteva: un suono incerto eppure perfettamente a tempo, debole e nel contempo rotondo, cristallino.
Riuscì a trovare un posto al tavolino, il più vicino possibile al palcoscenico. Guardò meglio la cantante: si era sbagliato, doveva avere poco più di quarant'anni, i capelli neri raccolti sopra la testa. Aveva gli occhi semichiusi e la bocca accostata al microfono. Grandi occhiaie nere, la voce e la postura di chi è quasi ubriaco:
«...Come | Si chiama? Non ne so neppure il nome | So che fa du du, du du...»
La tromba punteggiava il ritmo difettoso della cantante, sorreggendolo con una maestria dimenticata. L'effetto era curioso, come un uomo giovane e forte che tenesse per la mano una bambina zoppicante. L'oscurità non gli permetteva di vedere il trombettista. Ma alla sagoma scura, nascosta dietro la cantante, la sua memoria sovrapponeva l'immagine di un giovanotto di oltre quarant'anni prima, in quella stessa città di mare: alto e magro, l'abito a righe e la paglietta. Suonava nel più lussuoso caffè concerto e il pubblico era ben diverso da quello che adesso ignorava quel piccolo jazz, bevendo coca cola e aranciate. All'epoca aveva seguito le esibizioni del giovane trombettista quasi tutte le sere: i primi grandi successi americani inondavano la città, eccitanti come la cocaina che girava tra i tavoli insieme ai liquori. Gli uomini in smoking, le donne in abiti scintillanti di lustrini neri e rossi, ballavano frenetici charleston. Il giovane musicista aveva una potenza e una sicurezza, nell'attacco e nel ritmo, degna dei migliori americani, e un suono particolare, originale e irripetibile, simile a una campana d'argento.
Poteva davvero essere lui? Terminata la canzonetta, la cantante, senz'altro ubriaca, ringraziò per un inesistente applauso e attaccò un nuovo pezzo. Arcieri si lasciò cullare dal ritmo. Con sua grande sorpresa, stavolta la televisione non c'entrava affatto: la donna prese infatti a cantare Bombolo, altro motivo con lontani echi di un jazz dimenticato. Bruno sorrise di fronte alla strana follia: dagli altri caffè arrivava l'eco di Gianni Morandi e quei due invece eseguivano un incerto Mascheroni della fine degli anni Venti, l'epoca della sua giovinezza.
Stavolta si concentrò il più possibile sull'ombra nera del trombettista, che affrontava il brano con la scioltezza di chi doveva averlo eseguito migliaia di volte. Era debole, ma sempre preciso e con quella caratteristica del suono che lo sovrapponeva, nel ricordo, al jazzista di quarant'anni prima. Arcieri pagò il conto, si alzò e si avvicinò ulteriormente al palco. Salì un paio di gradini di legno, ignorando le proteste di un giovane cameriere maleducato. Un lampo di luce, forse i fari di un'auto, colpì il volto del trombettista mentre accostava la tromba alle labbra: dimostrava settant'anni. I capelli erano tutti grigi, lunghi come quelli di un beatnik. La pelle gli parve cinerea, ma forse era un effetto della luce. Le labbra erano vizze, l'espressione sofferente, e pareva perfino in difficoltà a reggere lo strumento. Aveva gli occhi chiusi, come se fosse da un'altra parte. Poi, d'un tratto, un energumeno lo cacciò dal palco, afferrò il microfono e annunciò un complessino dal nome improbabile. La cantante andò al bar e il trombettista sparì.
Mentre il caffè si riempiva delle chitarre distorte dei ragazzi, Bruno riconquistò un tavolo e chiamò il cameriere. Ordinò un Martini e gli allungò diecimila lire, con una richiesta della cui assurdità si rese conto nel momento stesso in cui il giovane maleducato intascava la banconota e faceva un gesto complice, sorridendo da idiota, convinto di aver capito tutto.
La cantante aveva accettato immediatamente. Si era seduta al tavolino di Arcieri e aveva chiesto subito un whisky, senza tentare nemmeno un saluto. Da vicino gli apparve ancora più giovane di quanto aveva giudicato, ma decisamente più ubriaca. La guardò negli occhi pesantemente truccati.
«Non è meglio un caffè?»
La donna rise.
«Non vuoi nemmeno offrirmi da bere? Sei così avaro?»
«Forse ha bevuto abbastanza, per stasera».
La cantante mutò espressione e si alzò di scatto, ma Arcieri la prese per un braccio.
«Aspetti. Voglio solo parlarle. Se è proprio necessario un whisky, glielo faccio portare subito».
«Mi sa che hai ragione, è meglio un caffè. Come ti chiami? Io sono Angela».
«Bruno».
«Di cosa vuoi parlare?»
«Di jazz».
«Ti siamo piaciuti, eh? Del resto hai l'età giusta...». Fece una smorfia. «Scusa, non volevo essere indelicata».
«Nessun problema: hai ragione. Ho più di sessant'anni. Mi avete attratto con il vostro ritmo fuori moda, mi ha riportato a quarant'anni fa».
«È un repertorio che non costa più nulla. Possiamo suonare in pubblico senza pagare i diritti alla SIAE. Abbiamo anche canzoni americane, di quegli anni, di quando tu... eri giovane». Angela smise, di nuovo imbarazzata, ma Arcieri la incoraggiò sorridendo a sua volta.
«Gli spartiti sono del trombettista?»
«Sì, è roba sua, di quando suonava nei teatri. Anche lui non è certo un ragazzino». La donna aveva rinunciato a controllare le sue gaffes e del resto Bruno continuava a sorridere, rassicurante.
«Avrà almeno sessant'anni. Come si chiama?»
«Mi dai una sigaretta?»
«Sei fortunata, sai?» Arcieri si frugò in tasca e tirò fuori un pacchetto di Nazionali. «Avevo smesso, ma ho ripreso lo scorso inverno». Ne accese una per la cantante. «Allora, come si chiama il trombettista?»
«Tom».
«Intendo il nome vero. E il cognome».
«Senti, sei di quelli? E che te ne fai di un vecchio come Tom? Ci sono tanti giovanotti in giro, di questa stagione...»
Arcieri sogghignò. , divertito.
«No, non sono di quelli. Mi piace il jazz, mi piace tanto. Una volta avevo una collezione di dischi favolosa. Mi incuriosisce il trombettista, mi è parso di riconoscere il suo suono».
«La campana d'argento, eh?»
Arcieri rabbrividì.
«Sì. La campana d'argento. Allora è lui».
«Non sarai di quelli, ma purtroppo non ti vado nemmeno io. Peccato, mi ero illusa. Sei vecchio, ma sembri in gamba e mi piaci. Così conoscevi Tom?»
«No, non ci ho mai scambiato neppure una parola. Ma quarant'anni fa, se potevo, non mancavo mai alle sue esibizioni. A quei tempi abitavo a Milano, ma venivo qua per le vacanze. E poi lui si muoveva, faceva tutto il nord Italia. Però non si chiamava Tom».
La donna sembrò stupita.
«Ah, no? Io lo conosco come Tom».
«Era Pippo Squà Squà, allora».
Angela scoppiò a ridere, e alcuni avventori, nonostante il chiasso, si voltarono verso di loro.
«Lo trovi buffo, eh? Allora usavano, certi nomi. Quelli che suonavano il jazz venivano tutti da Genova. Lavoravano sui transatlantici: prima che varassero il Rex, su quelli inglesi. Molti passavano di qui per la stagione estiva, poi scendevano a Roma. Altri partivano subito per Torino. Qualcuno andava a suonare anche a Firenze... Ma tu non eri nemmeno nata».
«Forse sì, mio caro. Ero piccolina, certo. Tom non mi ha mai raccontato questa cosa. So solo che lo chiamavano la campana d'argento».
«Perché il suo suono la ricorda». Bruno picchiettò col dito sull'orlo del bicchiere. «Non ti pare?»
«Dovremo smettere. Tom ha il diabete, beve peggio di me. Non regge più la tromba».
«Come l'hai incontrato?»
«Faceva il cameriere, proprio qui. Ma volevano mandarlo via, è troppo malmesso. Puzza di vino e la gente se ne accorge. Mi ha fatto vedere la sua tromba e qualche ritaglio di giornale. Piace anche a me, il sincopato. Io me la cavo bene, lo hai sentito».
Arcieri mentì, annuendo più volte.
«Mi dicevi che Pippo – anzi. no: Tom – non sta bene».
«Si deve fare l’insulina. E poi ha perso quasi tutti i denti, secondo me non solo per l'alcol. Cade a pezzi, non sta più nemmeno in piedi».
Arcieri pensò a una remota estate. Non era più giovanissimo, sedeva a uno dei tavolini di quello stesso viale a mare con Elena Contini. Doveva essere l'agosto del 1937, l'ultima volta che vide esibirsi Pippo Squà Squà, poi sparì dai teatri e dai giornali e anche lui ebbe minori occasioni per interessarsi al jazz: il lavoro nei Servizi, la guerra... Quel trombettista trentenne era ancora un ragazzo allampanato, vestito in smoking bianco o con l'abito a righe, e la sua campana d'argento era cristallina, intatta.
«Vorrei parlare con lui».
«Ora è andato via. Magari dorme già. Sta più a letto che in piedi, per forza di cose».
«Domani?»
Angela alzò le spalle.
«Se vuoi. Me la dai un'altra sigaretta?»
Arcieri le lasciò il pacchetto.
«Allora ci vediamo domani. Verrò presto, prima dell'esibizione».
«Bravo. Immagino che della mia compagnia non t'importi, vero?»
«Sono stanco anch'io. Mi ha fatto piacere parlare con te. Non è solo per Tom o per il jazz».
«Sei sposato?»
«No».
La cantante gli guardò le labbra.
«È un po' particolare, il tuo no. Va bene, a domani».
Angela scolò quel che restava di un bicchiere di whisky del tavolo accanto e se ne andò. Bruno canticchiò tra sé uno standard del primo jazz, un pezzo senza parole: At The Jazz Band Ball, musica dimenticata di cui non importava più nulla a nessuno, a parte gli specialisti e i collezionisti. Ma per lui significava un grande sole rosso sul mare, la sabbia calda sotto i piedi, un grammofono, il vestito di seta di Elena Contini. Significava il mondo perduto.
La sera dopo, Tom era seduto davanti a Bruno. Angela guardava il fondo del suo bicchiere. Era ancora più vecchio e malmesso di quanto la cantante avesse detto. Cercò di coglierne lo sguardo. ma l'uomo lo sfuggiva. Sembrava assente, forse era già ubriaco.
«L'ho ascoltata tante volte. Molti anni fa. Anche qui, d'estate».
«Al Kursaal».
Tom aveva parlato con un grugnito. Arcieri intravide i denti mancanti nella bocca nera. Era un miracolo che riuscisse comunque a fare uscire delle note dalla sua tromba, in quelle condizioni.
«Doveva essere il '27 o il '28, quando l'ho sentita per la prima volta».
Tom si strinse nelle spalle, con un sorriso beffardo. Chissà quando, voleva dire: l'anno non aveva importanza. Bruno gli raccontò il suo amore per il jazz, la caccia agli introvabili dischi americani, la catena di corrispondenti che aveva organizzato per procurarsene il più possibile. E di come ogni cosa fosse andata distrutta a Firenze, l'anno prima, durante la catastrofica alluvione. Ma Tom non sembrava ascoltare. A volte abbassava le palpebre gonfie. quando Arcieri rievocava il mondo dell'Anteguerra, come se per lui fosse un ricordo troppo doloroso.
«Ha qualche progetto per il suo futuro artistico?»
Angela rise sguaiatamente, gettando indietro la testa.
«Siamo appena tollerati da questi morti di fame, chi vuoi che ci prenda? Forse io potrei cantare da qualche parte, ma Tom, con il suo jazz che non vuole nessuno... A parte te, naturalmente. Ma siete in pochi».
«Ha ancora il suono di allora, la campana d'argento. La tecnica è intatta. Può suonare i motivi moderni, che ci vuole? È roba semplice, ritmo piatto e monotono. Le mille bolle blu, il Twist... E ci sono dei locali dove, a tarda sera, può fare dello splendido jazz per gli appassionati...»
«Le mille bolle blu? Dio mio, come sei rimasto indietro... Dovrebbe suonare i Beatles, semmai».
«Certo, può suonare i successi dei Beatles. Posso metterlo in contatto con le persone giuste».
«Gli mancano i denti, Bruno! E il fiato».
Arcieri prese il braccio di Tom e lo strinse forte. Il trombettista alzò il viso e fu come se si fosse svegliato in quel momento. Non distolse più lo sguardo e Bruno credette di ritrovare il jazzista della sua giovinezza, intatto.
«Deve smettere di bere. Poi ci vuole un dentista in gamba, che gli rimetta a posto la bocca. Tom è forte. Qual è il tuo nome, Tom? Quello vero. Non l'ho mai saputo».
Il musicista sembrava essersi svegliato del tutto. Accennò anche un sorriso.
«Fabrizio Bartalesi. Ma sono stato sempre Pippo Squà Squà. E adesso Tom. Il mio vero nome non mi piace».
«D'accordo, Tom. Te la sentiresti di rimetterti in carreggiata?»
«Perché no? I Beatles me li mangio a colazione, io».
«Bravo. Certo che lo puoi fare. Ti ricordi Stardust? La suonavi meglio di Carmicheal».
«C'erano Alvaro al pianoforte, Lama alla chitarra, Boschi al sassofono. Alla batteria...»
«Alla batteria c'era Rascel. Proprio lui».
Tom rise e per la prima volta gli brillarono gli occhi.
«È vero, per un periodo. Era giovanissimo».
Angela si fece sospettosa: forse si sentiva tagliata fuori, in quella storia tra due uomini. Non voleva rimetterci.
«Vi dimenticate una cosa, tutti e due. Per i denti e per lo specialista ci vogliono i soldi. Che glieli dà, a Tom? Tu, forse?»
«Perché no?»
Arcieri prese Tom e Angela sotto la sua personale protezione. Trovò per entrambi una camera in una buona pensione, dietro la pineta, e fece alcune telefonate ad amici e conoscenti con cui aveva collaborato quando era ancora in servizio. Rimettere a posto la bocca di Tom fu la cosa meno complicata. Il dentista disse che la situazione non era poi cosi disastrosa e che in un paio di settimane avrebbe risistemato, certo provvisoriamente, almeno gli incisivi, che erano essenziali per suonare correttamente lo strumento. Tom si prestò di buon grado alle torture del dentista, sopportò le estrazioni, e già dopo le prime tre sedute era in grado di suonare con maggiore sicurezza e soprattutto con potenza sufficiente. Nella camera della pensione non gli permettevano di provare, cosi prese a esercitarsi in pineta, in mezzo ai bambini che giocavano e ai ragazzi che correvano in bicicletta. Fra i pini echeggiavano le note cristalline di un antico standard di Bix Beiderbecke e Arcieri e Angela gli facevano compagnia: stavano sempre seduti uno accanto su una panchina o al tavolo di qualche bar.
«Perché fai questo?»
«Perché mi illudo di ritrovare la mia giovinezza».
«Non ci credo, non sei cosi sentimentale e certo non sei stupido».
«Allora lo faccio per il jazz. Per riparare a un torto».
Angela continuava a scuotere il capo. Bruno sorrise, alzando gli occhi al cielo azzurro, fra gli ombrelli scuri dei pini.
«Lo faccio in onore del mondo di prima. Contro la volgarità di questo. Contro i veleni che corrodono questi pini, contro le Mille bolle blu, contro Carosello, contro la schiuma dei detersivi nei fossi e nei fiumi».
«Tom può rimediare a tutto questo?»
«Se riesco a riportare in vita un po' del musicista di allora, avrò resuscitato anche un pezzetto di quel mondo».
«Che male ti hanno fatto, le mille bolle blu? Secondo me hai qualche rotella fuori posto».
«Mi sono ritirato dal servizio, non ho nulla da fare. Ci sono modi peggiori di buttar via ii proprio tempo».
Tom fu visitato da uno dei migliori specialisti in endocrinologia. Gli fu cambiata la terapia e Arcieri si assicurò che le medicine prescritte fossero prese con regolarità. La cosa terribile fu disassuefarlo dall'alcol. Ma Tom ce la mise tutta, con I 'aiuto di farmaci speciali che Bruno si fece spedire dai suoi amici di Roma.
Trovarono un ingaggio in un buon locale, per il resto della stagione. Tom suonava dei ballabili, un po' di liscio e le canzonette in voga. Alla gente piaceva quello strumento fuori moda e qualcuno lo paragonava a Nini Rosso, il divo dei 45 giri. Angela cantava, ed era anche meno stonata. Poi, dopo mezzanotte, si trasferivano in un night club sul lungomare, dove li attendeva gente attenta al jazz. Tom suonava prima un po' di tradizionale, poi passava allo Swing. Angela sembrava non credere a quel che sentiva: evidentemente scopriva un nuovo Tom e un mondo musicale di cui non sospettava la complessità e la bellezza. Cambiò anche atteggiamento nei confronti di Bruno.
«Non vuoi davvero venire a letto con me?»
«Non posso certo accettare un ringraziamento di questo tipo».
«Pensi che una donna voglia stare con te solo per ripagare un favore? E poi hai detto che rimettere in sesto Tom e un regalo che hai fatto a te stesso. A te stesso e al mondo».
«È vero».
«Tranquillo, Bruno, non ho intenzione di violentarti. Facciamo due passi?»
Arcieri e Angela camminarono a lungo, senza una meta. Bruno teneva le mani in tasca. Si fermarono a riposare su una panchina, in una grande piazza davanti al mare. Era un immenso parcheggio per le automobili: sembrava che volessero metterle in più strati, riempire di lamiera rovente tutta la città. Arcieri rivide quella piazza bagnata dal sole di mezzogiorno, verde e fresca per gli zampilli d'acqua di una fontana. Angela gli prese la mano.
«Quando ti ho chiesto se sei stato sposato, mi hai detto un no un po' particolare, ti tremavano le labbra».
Arcieri sorrise.
«Sì, hai ragione. Ho amato moltissimo una donna, per un tempo interminabile».
«E un giorno l'hai lasciata e te ne sei pentito da morire».
«Non è andata proprio così, ma ci sei vicina».
«Hai un accento strano. Parli sempre di Firenze, ma non sei nato lì».
«Invece sì. Però sono andato a Milano da ragazzino, sono tornato a Firenze quando ero capitano dei carabinieri e poi la carriera mi ha portato a Roma».
«Sapevo che eri un personaggio importante». Bruno stava per ribattere qualcosa, ma Angela gli mise il dito indice sulle labbra. «Non voglio sapere chi sei davvero e cosa fai. Già l'idea che sei stato uno sbirro mi spaventa, per cui lasciamo perdere. Voglio sapere della tua donna».
«Si chiama Elena. Una meravigliosa ragazza ebrea di Firenze». Bruno si fermò e sorrise, malinconico. «Una ragazza del 1938...»
«E adesso dov'è?»
«Non lo so. Sono molti anni che ha fatto perdere le sue tracce a tutti, anche all'uomo che aveva sposato. Da lei ho avuto solo una lettera e non era indirizzata a me».
«Se è ebrea, forse sarà andata in Israele».
«Può darsi. Ma non lo so, davvero».
«Perché sei qui?»
«È morto il marito di una mia vecchia amica. Sono stato al suo funerale».
«Era amico anche della tua Elena?»
«Sì. Ma è roba di vent'anni fa, almeno».
«Questo amico che è morto, lo avete conosciuto quando venivate qui in vacanza, vero?»
Arcieri rise.
«Ma quanto sei curiosa... Sì, ci frequentavamo sia prima della guerra che subito dopo. Elena aveva una bella casa, qui».
«Ho capito, una donna ricca. Allora non posso proprio competere». Anche Angela rise, in modo un po' forzato. «Dammi una sigaretta». Si fece accendere la Nazionale e soffiò due grosse boccate di fumo. Poi si alzò, prese per mano Arcieri e lo portò verso l'interno, lontano dalla strada già piena di villeggianti, di bambini, di automobili urlanti. In fondo alla grande piazza si apriva una strada secondaria, tranquilla e ombrosa di giardini. Bruno sembrava emozionato. Si soffermò davanti a una palazzina vagamente liberty, bianca di calce, con le finestre tutte chiuse. Angela gli abbracciò le spalle.
«Suppongo fosse questa la sua casa, eh?»
Bruno trasalì, come colpito da una scossa elettrica. Angela se ne accorse e gli carezzò la guancia ispida per la barba.
«L'ho capito perché è stato come se avessi visto un fantasma. Abitava qui la donna che hai lasciato?»
«Non ti ho mai detto che l'ho lasciata».
«Allora è stata lei?»
Bruno non rispose e passò amorevolmente il palmo della mano sul muro.
«Sì, questa era la sua casa. Credo che l'abbia venduta a suoi lontani parenti, poco prima di sparire per sempre. Non ci ho mai rimesso piede».
«Ti piacerebbe visitarla?»
«No» rispose Bruno, e stavolta le labbra non gli tremavano affatto.
Quella sera Tom suonò meglio del solito. Era come se si fosse sbloccato qualcosa: l'attacco della tromba era forte e deciso, meritava davvero l'antico nomignolo di campana d'argento. Bruno lo applaudì freneticamente e addirittura pianse, come se avesse ritrovato un fratello. Per tutta la sera Tom suonò solo stupidaggini: canzonette da spiaggia, musica volgare e piatta, adatta al pubblico di nuovi ricchi e donne facili. Ma a rendere felice Arcieri era il puro suono, la semplice, naturale perfezione delle singole note che Tom riusciva a far uscire dalla sua tromba. Avrebbe avuto bisogno di uno strumento nuovo, pensò: quel vecchio pezzo d'ottone non era al suo livello. Avrebbe rimediato prima possibile, magari facendo un salto a Firenze. Una gita con Tom e Angela, un diversivo.
Dopo l'una di notte si trasferirono al piccolo locale dove un gruppo di entusiasti si era dato appuntamento per sentire il vero Tom, il leggendario trombettista jazz che aveva fatto perdere le sue tracce già parecchio tempo prima della guerra. Arcieri aveva fatto in modo che qualche giornalista specializzato fosse presente, e quella sera c'era addirittura un inviato di Musica Jazz, il mensile più importante. Furono accolti da una piccola ovazione: la saletta era strapiena, forse erano cento persone, un'infinità. Quello, ormai, era il massimo pubblico che il jazz, il jazz di Tom, il suo jazz, poteva attrarre. Ma era comunque un miracolo, una gioia purissima. Tom si esibì in una serie quasi interminabile di standard nello stile New Orleans, quello che Arcieri ascoltava alla fine degli anni Venti, quando si era innamorato della musica nera. Uno stile arcaico, superato addirittura da Louis Armstrong. Di mezzo c'era stato lo swing delle grandi orchestre, il be-bop di Charlie Parker, il cool di Miles Davis, e poi il free jazz... Ma adesso erano tutti cullati dall'improvvisazione caleidoscopica e inesauribile dell'Arte Originaria, di cui Tom era un sacerdote più ortodosso dei neri della Louisiana.
Quella stessa notte. fresca e limpida, Angela riuscì finalmente a portarsi a letto Bruno, e lui gliene fu grato, perché una donna gli mancava da molto tempo.
«Ti voglio fare un regalo».
Bruno era davanti alla grande finestra della camera, che dava sul viale a mare. Il sole del mattino era limpido. Aveva le mani in tasca e fumava una sigaretta tenendola fra le labbra, alla moda dei "dritti" della sua lontana giovinezza. Si voltò e sorrise ad Angela. sdraiata sul letto.
«Un altro?»
«Ho saputo chi abita in quella casa».
Bruno capi subito. Si tolse la Nazionale dalle labbra e si sedette sulla sponda del letto.
«Non è una faccenda che ti riguarda. Lascia perdere, sono ricordi di un vecchio. Quella casa esiste solo nella mia memoria».
«Invece è una casa di mattoni e di pietre e ci abita una persona molto gentile, che oltretutto ti conosce bene».
Arcieri era irritato, ma cercò di non darlo a vedere.
«Non conosco più nessuno in questa città. Sono tutti morti».
«Non è vero. Questo signore gentile è più vecchio di te e sta benissimo. Ha detto che ti parlerebbe volentieri e che sarebbe felice di mostrarti la casa».
«Perché hai fatto questo. Angela? A me bastavate tu e Tom. Non mi interessa andare in quella casa».
«Voglio farti rivedere il tuo passato. Hai regalato la vita a Tom e anche a me. Credi che fossi sincera quando ti dicevo che avrei trovato lavoro ovunque, senza di lui? Dai, lo so che mi manca la voce, sono mezza alcolizzata e finita. In cambio di due vite salvate, io ti regalo il ricordo. Non mi dire che non ti piacerebbe rivedere la casa in cui sei stato con tua moglie, il tuo grande amore».
Arcieri non cercò nemmeno di ribattere. Elena non era mai stata sua moglie: forse molto di più.
Quel pomeriggio attraversarono la città rovente di sole e andarono alla casa di Elena Contini. Angela suonò il campanello di ottone e dopo un po', senza che nessuno parlasse al citofono, il portone si aprì. Apparve un uomo anziano. con i capelli candidi e folti, non alto. Aveva modi gentili, di altri tempi. Arcieri gli strinse la mano asciutta e ruvida, ancora forte, e lo riconobbe solo in quel momento.
«Signor Lattes...»
«Capitano mio, quanto tempo! Ma lei non è certo più un capitano, mi scusi».
«Non sono più niente. Sono in pensione dall'anno scorso. Le chiedo scusa, signor Lattes, non mi sarei mai permesso...»
L'anziano padrone di casa prese affettuosamente Arcieri per un braccio e lo accompagnò oltre l'ingresso. L'aria odorava di polvere e di muffa, di stanze chiuse per molto tempo, ma era comunque fresca, un cambiamento radicale rispetto all'afa dell'esterno. Bruno notò che tutte le finestre erano chiuse. Sentì il ronzio di un motore, che proveniva dalla cantina. Lattes lo guardò e scosse il capo.
«Sono vecchio, capitano. Non badi al disordine». I muri spessi attutivano anche il rumore del traffico e Arcieri si sentì trasportare nel 1948, all'ultima volta che era stato con Elena in quella città di mare, nella casa che era la sua. Trattenne il respiro. Non voleva sentire la mancanza del profumo di Elena Contini: quelle stanze ne erano state piene. Poi ebbe l'illusione di avvertire una traccia di quella lontana fragranza. Si sorprese con se stesso. Era davvero diventato così sentimentale?
Non era cambiato molto nell'arredamento, come se i nuovi proprietari non avessero voluto sconvolgere l'impronta di Elena. Non c'era nemmeno l'inevitabile televisore.
«Quando questa gentile signorina mi ha detto che lei avrebbe voluto rivedere la casa di Elena Contini» continuò Lattes «ho avuto un tuffo al cuore. Non ci vediamo da più di vent'anni, vero capitano?»
«Esattamente vent'anni, sì».
Dopo la morte della moglie, raccontò Lattes, aveva abbandonato la professione e gli amici. Se ne stava da solo al tepore e guardava il mare dalla grande terrazza. Aveva solo una domestica, che veniva a cucinare e a tenere in ordine. Arcieri visitò le stanze e gli parvero uguali a quelle del suo ricordo, solo più polverose e sbiadite. Non volle vedere lo studio, con i mobili che avevano contenuto i libri di Elena. Provò il desiderio di andarsene e fece un cenno ad Angela, che intanto si era accesa una sigaretta e cercava invano di richiudere una finestra che aveva aperto per il fumo. Pareva anche lei inquieta e impaziente. Ma poi fu colto da una nuova nostalgia.
«Vorrei andare su, in terrazza. È ancora come ai vecchi tempi?». Lattes annuì. «Non è cambiato nulla».
Salirono al piano di sopra, dove c'erano le camere da letto, e Lattes aprì una porta a vetri in fondo al corridoio. L'aria di mare solleticò il naso di Bruno. La grande terrazza occupava il tetto quasi per intero.
«Potrebbe lasciarmi solo un minuto?»
«Ma certo».
Bruno uscì e camminò sulle mattonelle di marmo. Non era affatto come allora. C'erano solo un tavolo di plastica e delle sedie polverose. Mancavano le grandi sdraio di vimini, gli ombrelloni verdi che profumavano di canapa, i camerieri in livrea bianca, il tintinnare dei bicchieri, il grammofono che suonava i dischi di Ellington che aveva portato lui, quasi di contrabbando, dall'ambasciata americana. Si affacciò alla ringhiera e guardò la piazza sotto di sé, con il mare in lontananza. Aveva ancora impresso negli occhi il panorama di una volta: i gialli e i rossi erano stati soppiantati da un mosaico di mille colori, ma l'azzurro dell'acqua e il verde delle siepi erano gli stessi di venticinque o trent'anni prima. Rimase a guardare per qualche minuto. Quando si voltò, vide Lattes che veniva verso di lui, con un pacchetto in mano.
«Credo che queste cose dovrebbe prenderle in consegna lei, capitano».
Arcieri osservò perplesso l'oggetto che Lattes gli mostrava: sembrava una scatola da scarpe, involtata in carta bianca e chiusa con un nastro celeste.
«È un pacchetto lasciato dalla signorina Contini, molti anni fa».
Bruno lo prese in mano e lo soppesò. Era pesante.
«Elena...»
«Quando ci vendette la casa, prima di... sparire... lasciò i mobili ma aveva già provveduto a portare via tutte le sue cose personali, anche il ritratto della vecchia zia Sara e di suo marito, l'avvocato Emanuele Contini. Rimase solo qualche libro, insieme ai documenti di proprietà e altre scartoffie. E questo».
«Non ha mai cercato di restituirlo a Elena?»
«Non è stato possibile. Stavo per telefonare o scrivere al marito, ma poi ho trovato il biglietto. Era seminascosto in una piega dell'involto. Ecco».
Il vecchio Lattes diede ad Arcieri un biglietto da visita. C'era solo un nome, scritto a penna: Bruno. Senza dubbio la calligrafia di Elena.
«Vede, capitano, la signorina Contini voleva proprio che lo avesse lei».
«Perché continua a chiamarla signorina? Si era sposata...»
Lattes sorrise.
«Lo so, ma non riesco a pensarla in altro modo. Vuole accettare questo pacchetto, capitano?»
Anche lui non era più capitano da tanto tempo, come Elena non era più signorina. Non avrebbe certo potuto rifiutare quello strano dono. Mise il pacchetto sotto il braccio e diede un'ultima occhiata alla casa, prima di ringraziare il suo ospite e andarsene. Per la strada, accanto ad Angela, non parlò mai.