Bruno Arcieri era seduto a un caffè del lungomare. Di mattina presto non c'era quasi nessuno in giro, a parte le famiglie che andavano sulla spiaggia. Parlava a Sandro Lazzeri senza smettere un istante di fissarlo negli occhi.
«Le ripeto quel che le ho detto ieri al telefono. Il motivo per cui non voglio più stare ai patti non è solo l'incidente dell'altra notte. Potrei anche accettare il rischio di andare con lei in un bosco, di essere ammazzato e fatto sparire. Ma ho deciso che voglio vedere bene in faccia il suo padrone, quando mi indicherà la fossa che sto cercando».
«Credevo che le importasse solo di dare una degna sepoltura a quella povera famiglia».
«E infatti è per questo ho cercato il suo padrone. Ma non intendo avere quel che voglio da un suo lacchè. Con tutto il rispetto. Se mi metto personalmente in ballo, voglio che Albizi faccia altrettanto».
Lazzeri sospirò. «Va bene, starò al suo gioco: facciamo pure finta che il signor Bianchi si chiami Ferdinando Albizi. Ma un incontro con lui è escluso».
«Si sbaglia».
«Invece no, colonnello. Del resto su questo punto non sono autorizzato a trattare. Il signor Bianchi non crede che lei vorrà imbarcarsi in un'impresa lunghissima e incerta, facendo valere dei documenti quasi certamente insufficienti a creargli dei problemi degni di questo nome. D'altra parte non gradirebbe l'inevitabile pubblicità, se lei desse in pasto quelle carte ai giornali o a organizzazioni di fanatici... Può quindi venirle incontro, con reciproca soddisfazione. Ma accetta solo uno scambio nei tempi e nei modi già concordati».
Arcieri contemplò il suo bicchiere vuoto, la Nazionale che bruciava lentamente nel posacenere.
«Davvero, non capisco. Albizi ha una strana paura di mettere il naso fuori dalla sua villa. Troppa: ha perfino tentato di uccidere un vecchio carabiniere».
«Questo è falso!»
Arcieri fece un gesto con la mano, per dire di lasciar perdere.
«Che cosa nasconde Albizi, oltre alla sua antica attività di commerciante in ebrei? Così non fa altro che incuriosirmi. Ma non abbia paura, non voglio saperlo. Io voglio solo dare sepoltura ai Levi e vedere con che faccia Albizi mi indicherà i resti di tre poveri bambini. In caso contrario, niente documenti».
Lazzeri non aveva altro da dire. Se ne stava a braccia conserte e fissava Arcieri, aspettando una sua mossa ulteriore. Bruno lo accontentò subito.
«Albizi mi riceverà nella sua villa-bunker. Gli lascio decidere il giorno e l'ora, ma dovrà essere entro la metà di questa settimana. Altrimenti non mi limiterò a rendere pubbliche le carte che ho trovato, interessando anche Simon Wiesenthal e la sua organizzazione. Lo colpirò dov'è più sensibile».
Lazzeri sembrava molto attento e sosteneva lo sguardo. Arcieri continuò.
«Vede, è impossibile sparire. cambiare identità, senza lasciarsi niente alle spalle. Non solo qualche scheletro, ma anche degli affetti o degli interessi. Non credo che Ferdinando Albizi sia capace di provare i primi, ma di certo è molto attento ai secondi. Stanotte mi sono ricordato una cosa. Fra il '35 e il '40 ero fidanzato con una ragazza fiorentina, ebrea molto in vista, e Albizi dava dei ricevimenti in una splendida casa di via Tornabuoni. Aveva anche altre belle proprietà. Stamattina presto ho chiamato a Firenze un amico, uno bravo: si chiama Bordelli, non ho mai conosciuto nessuno che sapesse fare il suo lavoro meglio di lui. Mi ha detto che adesso quella casa è ridotta ad appartamenti di lusso, affittati a cifre molto alte. La proprietà non è intestata a una società, ma a un privato cittadino che con ogni probabilità fa da prestanome, grazie a una vendita registrata nel 1945 che ha tutta l'aria di essere falsa. È comprensibile: quando è stata messa in scena la morte di Ferdinando Albizi, erano momenti difficili, bisognava fare in fretta e il suo padrone non aveva eredi.
«Tutto questo non ha senso». Lazzeri mentiva, Arcieri vedeva il suo labbro che tremava leggermente. Era sicuro di aver colto nel segno.
«Ho ancora degli amici nei Servizi segreti. Non avrò difficoltà, mi creda, a fare pressioni su questo prestanome, anche solo mettendolo sotto torchio con una scusa qualsiasi. Risaliremo a Bianchi tramite il denaro con cui si mantiene, versato dagli inquilini di via Tornabuoni. Anche l'ufficio delle tasse collaborerà, ne sono certo: da cosa nasce cosa, magari faranno altre scoperte. Di certo riusciremo a mettere sotto sequestro il flusso di denaro, quantomeno temporaneamente».
Lazzeri era rimasto con gli occhi fissi in quelli di Arcieri, ma aveva vacillato.
«Questo è un fatto nuovo».
«Be', prendere o lasciare».
«Riferirò al signor Bianchi».
Arcieri scosse il capo.
«Lei invece telefonerà subito ad Albizi, dall'apparecchio del bar. Le concedo il tempo di una sigaretta».
Aveva parlato con un'aggressività da poliziotto che non usava più da tanti anni. Vide Lazzeri alzarsi subito e sparire nella penombra del grande atrio del bar. Si accese l'ennesima Nazionale e la fumò tranquillamente, guardando la gente che passava.
Al Politeama, quella sera, Tom fece un programma tutto dedicato ai grandi musicisti del passato. Iniziò con i giganti americani degli anni Venti e Trenta: Nick La Rocca, Jelly Roll Morton, Duke Ellington, Fats Waller, Fletcher Henderson. Improvvisò uno dopo l'altro Tiger Rag, King Porter Stomp, Solitude, Warm Valley, i loro leggendari standard. Poi ricordò gli italiani: tre generazioni di compositori che avevano amato e cresciuto il jazz, contro tutti i suoi nemici.
Un applauso scrosciante accolse le improvvisazioni di Tom sui pezzi di Gorni Kramer, non quello ben noto della radio e della TV, di Giardino d'inverno e Studio Uno, ma il jazzista degli anni Trenta. Mentre piovevano le note di Crapa pelada, suonate quasi a ritmo di rag time, il riflettore frugò tra il pubblico e isolò in platea un uomo corpulento, ridente, con due baffetti esili e i capelli lisci. Un mormorio di meraviglia percorse il pubblico, mentre Tom lo indicava, chiedendo per lui un grande applauso. L'uomo si alzò in piedi, elegante, sbiancato dall'occhio di bue. Sorrise ancora e. indicò a sua volta Tom, sul palco. Poi fu il turno delle musiche di Pippo Barzizza e di Cinico Angelini, i due grandi capi orchestra dell'anteguerra: Tom suonò La canzone del boscaiolo, con una serie irresistibile di invenzioni durante le quali tutta la platea si alzò in piedi, presa da una frenesia antica e quasi dimenticata.
Ma poi Tom passò a coloro di cui si era persa memoria, una schiera alla quale era appartenuto lui stesso fino a pochissimo tempo prima. Per il suo pubblico commosso resuscitò direttori di orchestre da ballo che avevano percorso con il loro swing la sterminata provincia italiana; compositori di musiche per film; artisti che non avevano mai inciso i loro capolavori, altri i cui pochi dischi si erano persi forse per sempre. Rievocò musicisti e compositori sopraffini che per sopravvivere avevano dovuto abbandonare il jazz, e altri che avevano concluso la loro esistenza in miseria, in qualche casa di riposo di terz'ordine. Salutò Natalino Otto, che aveva difeso il jazz perfino dai fascisti: a differenza di Kramer non era presente in sala, ma sapeva che il suo messaggio gli sarebbe stato recapitato.
Infine, per la prima volta da quando era stato "resuscitato" da Arcieri e da Bosco, Tom ripose la sua tromba e parlò alla platea. L'occhio di bue del riflettore lo illuminava al centro del palco deserto. Lui guardava il suo pubblico, proprio come se vedesse le loro facce al di là della cortina nera, una per una.
«Noi tutti amiamo il jazz. Per un breve periodo, all'epoca della mia lontana gioventù, eravamo legioni: molti di voi se ne ricorderanno. Poi le mode sono cambiate, finché ci siamo ritrovati in una specie di ghetto. Anche il jazz è mutato, nel frattempo. Quando ancora suonavo il New Orleans puro di King Oliver, la gente già mi chiedeva il charleston, poi tutti volevano i pezzi di Armstrong e poco dopo non c'era che Ellington. Nel dopoguerra, nessuno sembrava capire il be-bop di Charlie Parker. Negli ultimi anni, quando suonavo quasi da barbone, in cambio di un pasto, mi chiedevano Caterina Caselli o al massimo un rock and roII. So fare anche quelli, sapete?». Sorrise e riaccostò la tromba alle labbra, accennando a una canzonetta in voga. Il pubblico rise. «Ma tutto è cambiato quando una ragazza mi ha convinto a riprendere alcuni dei pezzi che vi ho suonato poco fa. Quella ragazza si chiama Angela ed è qui in sala. È una brava cantante, il primo angelo che mi ha salvato». L'occhio di bue inquadrò Angela e Bruno, seduti accanto. Arcieri si beava del suo jazz e non pensava ad altro. Angela invece non sembrava affatto contenta e accolse l'applauso scrosciante chiudendo gli occhi per la luce accecante del riflettore. Il faro tornò su Tom, in piedi in mezzo al palco.
«Avete visto quel signore seduto accanto a lei? È stato il primo a riconoscere la mia tromba, anche quando suonavo le canzoni di San Remo». Accennò qualche nota dell'ultima edizione del Festival, storpiando il motivo in modo comico, irresistibile. La platea rise ancora. «È lui, Bruno Arcieri, che mi ha raccolto dalle mani gentili di Angela e mi ha portato di nuovo alla vita. Gli debbo tutto. Ma non solo a lui».
A un segnale convenuto. gli altri musicisti tornarono sul palco e si misero di nuovo agli strumenti. Attaccarono Ma se ghe penso, la canzone di Cappello e Margutti dedicata agli emigranti genovesi, e un Romolo Bosco commosso fino alle lacrime sali sul palco, sospinto da decine di mani e di braccia. Non disse nulla; come tutti gli altri ascoltò Tom che cantava il ritornello, con la sua voce un po' roca: «Ma se ghe penso alloa mi veddo o ma | veddo i me monti e a ciassa da Nonsiâ | riveddo o Righi e me s'astrenze o chêu... » e poi, dopo averlo ascoltato improvvisare liberamente sugli accordi della canzone, lo abbracciò.
Arcieri attese Angela per tornare all'albergo, ma non arrivava mai. Sentì la sua voce che veniva dai camerini. Litigava furiosamente con Tom e captò qualche frase smozzicata: «Non dovevi!»
«Non penserai che l'abbia fatto per te!»
Appena entrò i due tacquero, ma sembravano entrambi molto turbati.
Tornarono all'albergo senza scambiarsi una sola parola. Quando furono in camera, Angela, ancora rossa in viso, voleva fare a tutti i costi l'amore, ma Bruno non ne aveva proprio voglia.